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domenica 28 marzo 2021

Incontri
NEL TREMORE DEGLI ANNI
Conversazione con Filippo Ravizza

Filippo Ravizza nel suo studio

Nato a Milano nel 1951, Filippo Ravizza compirà quest’anno 70 anni. Li festeggerà con la sua nona raccolta di poesia dal titolo Nel tremore degli anni uscito presso le edizioni di Puntoacapo. I lettori vi troveranno delle note critiche di approfondimento di Gianmarco Gaspari, Giuliana Nuvoli e Ivan Fedeli. Abbiamo colto l’occasione per rivolgergli alcune domande.
 
Odissea: Nove raccolte poetiche in circa 35 anni, mentre ti avvii nel pieno della maturità. Puoi tracciare un breve bilancio di questo tuo percorso poetico?
 
Ravizza: La mia prima raccolta, "Le porte" è uscita nel novembre del 1987; da quasi 35 anni, effettivamente. Ma ad essa va cronologicamente sommato un intenso lavorio, una costante attività appassionata della parola poetica che va retrodatata almeno al 1979, anno in cui iniziai a scrivere di poesia nella redazione milanese del quotidiano "la Repubblica", che allora si trovava in Via Turati, all'inizio di Via Turati, quasi nella piccola Piazza Cavour. Quegli anni, dal 1979 al 1986, furono molto intensi: riuscii a diventare in tempi brevi il critico di poesia delle pagine milanesi di "la Repubblica", un po' anche perché gli altri giovani accorsi a collaborare con quelle pagine, dopo attenta selezione di Giampiero Dell'Acqua, burbero maestro intelligente di tutti noi, avevano altre specializzazioni e altra vocazione. Un po' anche perché proprio allora (1979, fine Anni Settanta) iniziava a prendere piede anche in Italia (vedi Festival di Castelporziano a Roma, proprio nel 1979) l'abitudine, fino allora prevalentemente nord-europea, russa e nord-americana, dei "readings", cioè delle letture in pubblico, da parte dei poeti, delle proprie poesie. Una coincidenza fortunata, quest'ultima, indubbiamente. In quegli anni portai avanti anche collaborazioni con riviste; ricordo "Schema", pubblicazione partita da un gruppo di ragazzi di Milano, che arriverà ad avere redazioni in tutte le principali nazioni europee, fondata da Franco Manzoni, a cui collaborai per lunghi periodi, anche a tratti co-dirigendola insieme a Manzoni; ma anche altre testate come "Post-Scriptum", "L'Ozio Letterario", "Confini", "In Folio", "Margo" di cui fui co-direttore con Mauro Germani e Federico Battistutta. Prima ancora, nella prima metà degli Anni Settanta, avevo partecipato alle riunioni, in Via Rosales, dalle parti di Porta Garibaldi, della redazione di "Niebo": un altro folto gruppo di giovani milanesi riuniti intorno alla figura del fondatore, Milo De Angelis. È da lì, è questo il retroterra già in qualche modo assestato da cui arrivo quando escono "Le porte", nel 1987. Da lì parte un cammino, che visto riavvolgendo il nastro del tempo, mi pare coerente su alcuni capisaldi e che arriva, attraverso nove titoli, centinaia di articoli e qualche saggio critico, al 2021. Vi sono infatti, dentro a questo percorso letterario ed esistenziale, tematiche che io riconosco essere scaturigine e nerbo di tutta la mia produzione poetica: la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero storico, sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul "grande mai più" ovvero l'annientamento che ci attende. A livello formale ho sempre cercato di far sì che, nei miei versi, fosse sempre avvertibile l'andamento ritmico, la cadenza timbrica che deve distinguere la parola della poesia, che deve continuare ad essere diversa ed altra rispetto alla parola della prosa.

Filippo Ravizza

Odissea: Qual è il filo conduttore che lega un itinerario che è rimasto fedelissimo alla parola poetica e come lo spieghi?
 
Ravizza: Qui ci sono, mi pare, due risposte possibili che possono però essere date anche in contemporanea, nel senso che una non esclude l'altra. La prima è che magari ci si ritiene poco idonei ad altre forme espressive. Io, per esempio, non credo di essere capace di scrivere un romanzo e comunque ho sempre desiderato avvertire la musicalità, la componente musicale delle parole e le loro sinergie timbriche. E qui, entra in campo la seconda delle risposte possibili, quella che - confesso - ritengo giusta nel mio caso: la vocazione. Da vocàtus, chiamato, participio passato di vocàre, chiamare. La vocazione i vocabolari la definiscono anche come "un movimento interiore" per cui ci si sente chiamati. Sono d'accordo, e dico addirittura che forse nel mio caso questo "movimento interiore" è diventato amore, amore per la parola poetica. Amore per cui ho poi anche accettato di pagare dei prezzi, a dirla tutta, perché l'amore per la parola della poesia, non è mai stato particolarmente funzionale al buon andamento del sistema capitalistico; ma qui il discorso si fa sterminato e non posso quindi svilupparlo di più.



Odissea: L’Europa e la razionalità mi sembrano due motivi forti all’interno della tua visione di poeta.
 
Ravizza: Per iniziare a risponderti cito gli ultimi sette versi di una mia poesia contenuta nella raccolta "Nel secolo fragile" uscita nel 2014: "[...] ti penserò nelle notti/ attraversate dalle automobili/ in faccia alle tue mille e mille/ vetrine alle tue merci al/ tuo destino che ormai sta tutto/ nella mancanza acuta e forte/ di un destino." La poesia che qui ho appena citato si chiama "Europa Europa" ed è una sorta di riflessione su questa grande piattaforma continentale, oggi ormai affacciata sul vuoto, come un fragile e poroso contrafforte, esposto pericolosamente su un abisso: l'abisso della perdita di qualsiasi orizzonte, dello smarrirsi di qualsiasi cammino capace di dare senso e funzione nella Storia a questo nostro continente, ormai incapace di svolgere un compito, ossia privo di destino o meglio denotato da un destino tragico: il destino di non avere più alcun destino. È una situazione storica determinatasi gradualmente negli ultimi decenni che pone tutta la cultura europea in una situazione di stallo e realizza, oggi, con e attraverso il tramonto che parrebbe definitivo, di tutte le grandi narrazioni novecentesche, da un lato la fatalistica resa ad una supposta "realtà delle cose" che ci ha fatto dimenticare come la realtà sia solo un prodotto delle idee degli uomini, soggetta quindi sempre ad essere cambiata se solo gli uomini non perdessero la consapevolezza di esserne i soli e unici artefici; dall'altro (realizza) il dominio pervasivo e totalizzante - al punto di non aver più bisogno neppure di essere proclamato - dell'ideologia  che dice che è finita l'epoca delle ideologie: la più infame e falsa di tutte le ideologie. Tutto ciò che costituisce il reale viene dalle idee degli uomini, calate dialetticamente dentro al tempo della Storia. Tutto ciò che è avvenuto in ogni epoca è avvenuto perché rapporti di forza hanno determinato la prevalenza di alcune idee su altre. In questo senso, ci ha insegnato Hegel, nulla di quanto si invera, nulla di quanto si concretizza (anche il male! Anche Auschwitz! Anche Hiroshima!) sfugge ad un "sistema razionale di pensiero", razionale nel senso di conseguenziale e prevedibile all'interno dei propri (infami, nei casi citati) meccanismi percettivi. La poesia è chiamata a diffondere consapevolezza di ciò; può contribuire alla battaglia globale di autoaffermazione di una coscienza pacifica e solidale e soprattutto egualitaria, del mondo.



Odissea: Nella tua recentissima raccolta Giammarco Gaspari nelle pagine che la introducono, insiste su un paio di motivi forti: il nulla e il vuoto. Puoi tornare su questi due postulati che mi sembrano fortemente esistenziali oltre che apertamente filosofici?
 
Ravizza: Sì, nulla e vuoto, ma anche il niente. Sono parole-concetto (ammesso e non concesso che si possa concettualizzare veramente il nulla) che ricorrono in tutta la mia produzione poetica, direi se non sin da "Le porte" (1987), sicuramente a partire almeno da "Vesti del pomeriggio" la mia seconda silloge, uscita da Campanotto Editore nel 1995. Noi, noi esseri umani, siamo, dice Martin Heidegger ed io concordo con lui in pieno, brevi archi di tempo "tra un non ancora e il grande mai più". C'è una mia poesia, "Sciolto nell'aria", contenuta nella raccolta "Nel secolo fragile" uscita nel 2014 per La Vita Felice Editore, in cui cerco di dire perché il nulla, il niente da cui veniamo e a cui torneremo mi sembra uno snodo teoretico fondamentale nell'esistenza di ogni persona: "[...] Di/ colpo, sai, spariremo per sempre,/ di colpo, sai, morirà la memoria/ che noi abbiamo di noi, che io/ ho di me, che tu hai di te.../ dopo un secondo, un solo secondo/ dopo, il mondo, tutto il mondo, non sarà/ mai esistito, unico essente il niente/ bucata vacuità su cui siamo scivolati/".

Filippo Ravizza
 
Odissea: Giuliana Nuvoli in postfazione ha ripreso il concetto di nulla facendolo precedere da un aggettivo altrettanto denso e impegnativo come verità. “Verità del nulla” scrive Nuvoli della tua poesia e lo rapporta alla sconsolata verità leopardiana.
 
Ravizza: Qui citi Giuliana Nuvoli, precedentemente hai citato Gianmarco Gaspari. Ti ringrazio perché cogli, citandole, l'importanza che hanno, nell'economia generale di questo mio ultimo libro, di "Nel tremore degli anni", queste due splendide, acute ed empatiche, compartecipi riflessioni sul mio lavoro di questi due valorosi amici, valorosi letterati e critici. E aggiungo anche la bella e centratissima "quarta di copertina" firmata da Ivan Fedeli. Venendo allo specifico della tua domanda, tento per prima cosa una risposta diretta, asciutta: il nulla per me è la morte, ma attenzione: è la morte che tracima dai propri "confini" e, come una forza sotterranea che si espande sotto superficie, impronta di sé la qualità e la natura della superficie stessa connotandola di una ben precisa identità: la superficie di questo terreno (l'esistenza) una volta impregnata da questa corrente sotterranea, diviene una "superficie-destinata-al-nulla". E questa dell'annientamento che ci attende è forse l'unica vera "verità" che può essere scritta con la "V" maiuscola e l'articolo determinativo davanti; "la Verità del Nulla", per l'appunto. Questo improntare di sé l'esistenza, da parte della morte, può apparire, di primo acchito, un dato sommamente tragico. In realtà, esso può essere la chiave dell'unica autenticità possibile per l'essere umano, quello che Martin Heidegger chiamava "essere-per-la-morte", una sorta di liberazione da tutti i condizionamenti tutte le vacuità di superficie che il contesto sociale pone per farci dimenticare a cosa siamo destinati. Se riusciamo a sedimentare nel profondo tutta la consapevolezza di essere solo "un breve arco di tempo" possiamo porre come obiettivo del nostro agire solo quello di realizzare la nostra identità più profonda, puntare solo ad essere quello che sentiamo di essere, imporre al mondo la nostra natura sino a raggiungere quell'universale riconoscimento che Georg Wilhelm Friedrich Hegel ne "La filosofia della storia universale" (Volume primo, parte II, capitolo 2) definisce felicità: "Esso (l'individuo, nota mia) si vuole secondo la determinazione della sua finitezza, della sua particolarità, vuole che un altro gli stia di fronte [...] gli individui vogliono l'esserci della loro finitezza [...] se hanno attuato questa armonia nella misura in cui si sono conciliati, allora li si definisce felici; si definisce infatti felice colui che si ritrova in armonia con sé, che si gode nel suo esserci. È pertanto qui la giusta collocazione della felicità". Hegelianamente quindi, la felicità dell'individuo è la condizione in cui l'individuo riconosce sé stesso nel giudizio, nell'immagine che egli stesso ha di sé e ne constata la coincidenza, direi addirittura la sovrapposizione, con quella (l'immagine) che gli altri hanno di lui. Giacomo Leopardi mi è particolarmente caro per la potenza e l'asciuttezza dello sguardo, per l'acutezza con cui ha presentito ed individuato "La Verità del Nulla" e la sua pervasività dentro alla nostra esistenza individuale. Giuliana Nuvoli parla di "comune sentire" tra me e il grande recanatese; effettivamente nella radicalità spietata con cui Leopardi analizza la natura dell'esistenza io mi sono sempre ritrovato; grato e commosso, consapevole di essere di fronte ad un grande pensatore, un grande poeta e un autentico Maestro.


Giacomo Leopardi

Odissea: Questo libro ci consegna una verità “sconsolata” e senza via d’uscita: “tutto ci sarà finché ci sarò io, poi il niente che non ha parole” sono i versi conclusivi del testo poetico “Dovevano restare”.
 
Ravizza: Tu citi la poesia "Dovevano restare" a pagina 39 del mio libro. Per rinforzare questa mia posizione io voglio citare alcuni altri versi, i versi finali della poesia "Un secondo di più" che si trova a pagina 31 de "Nel tremore degli anni": "[...] prendi il nome/ mio e riempi d'essere questi campi/ queste intere distese di fiori/ che esisteranno finché esisterò io/ non un giorno non un minuto né/ un secondo di più". È chiaro che, filosoficamente parlando, questa mia, è una posizione idealistica. Potrei dire, con Fichte, che è sempre l'io che pone di fronte a sé il non-io. Mi spiego: ho già detto che con la nostra morte individuale muore anche la memoria che noi abbiamo di noi, che io ho di me. In un altro testo di questo libro parlo anche di "nulla che non ha parole". Ora, a prescindere dal fatto che non penso che la coscienza umana possa percepire la natura del nulla, perché non possiamo percepire in realtà alcunché sia al di fuori della nostra esperienza sensoriale, voglio ricordare che invece l'essere percepiente vede e concettualizza il mondo che lo circonda, i diversi volumi che occupano lo spazio: piante, montagne, oggetti, campi, fiori, stelle, altri esseri percepienti. Sono le nostre percezioni, tramutate in concetti astratti attraverso il grande enigma del linguaggio (sede della parte più profonda e vera dell'essere) che fanno esistere il mondo intero, le cose. Ma nella morte muore anche la capacità percettiva dell'essere-percepiente. Quindi l'avvento del nulla, l'avvento del niente, per ognuno, ciascuno di noi, altro non è che la fine del mondo, di tutto il mondo che muore insieme a noi.


La copertina del libro

Filippo Ravizza
Nel tremore degli anni
Puntacapo ed. 2020
Pagg. 60 € 12,00
 
[Intervista a cura di Angelo Gaccione]