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a Lipsia nell’estate del 1845 ritorna in libreria (edizioni Feltrinelli), nella
storica traduzione di Raniero Panzieri “La situazione delleclasse
operaia in Inghilterra” di Friederich Engels. Sfruttamento
e Classe: ci troviamo così nell’occasione di una rilettura di questi due
termini fondamentali per la storia (e l’avvenire?) di quello che un tempo
avevamo definito movimento operaio. Un’occasione di riflessione che si presenta
in un momento di grande difficoltà per le espressioni politiche, di
sfrangiamento sociale, di mutazione pressoché antropologica imposta da
circostanze ed eventi da molti non previsti e ignoti nella loro destinazione
storica. Nella recensione del testo, curata per “il Manifesto” da Donatella
Santarone, si fa cenno a quanto scrivono i due curatori della riedizione,
Donaggio e Kammerer, indicando come uno dei temi centrali del libro di Engels
appaia essere quello “dell’odio di chi lavora verso i padroni del lavoro”. Sale
subito alla mente il Sanguineti “dell’odio di classe” e ci si interroga su
quanto vale oggi quell’affermazione in tempi di indefinitezza delle contraddizioni
e di società non più liquida ma “gassosa”, almeno in quelli che qualche anno fa
avremmo definito “i punti alti dello sviluppo”. L’interrogativo
che principalmente dovrebbe interessarci adesso potrebbe essere così riassunto:
Il mutamento che si è registrato nella condizione materiale di vita e di lavoro
dal tempo in cui Engels scrisse quel testo ad oggi, è stato dovuto all’impeto
della lotta di classe o alla crescita infinita dello sviluppo produttivo
oppure, ancora, quanto al combinato disposto tra questi due fattori? La
lotta di classe vive se ci sono condizioni per un governo della politica verso
lo sviluppo e non esiste quando questa capacità di governo viene meno e la
politica resta ancillare rispetto alle tecniche, trasformandosi appunto in
“tecnocrazia”? Come
si capirà bene l’attualità di questo secondo interrogativo appare quanto mai
stringente. Engels non aveva dubbi: lotta di classe e sviluppo (tecnologico,
scientifico, industriale) dovevano camminare fianco a fianco e da lì sarebbe
nata la scintilla della trasformazione, che poi avrebbe assunto diverse forme
fino al fallimento del più “forte” tentativo di inveramento statuale che ha
attraversato il ’900. Così
dalla lotta di classe portata dentro lo sviluppo tecnologico nacquero i grandi
partiti di massa nell’Europa Occidentale fino al leniniano “Soviet più
elettrificazione uguale socialismo” e all’interventismo statale della pianificazione
e/o della programmazione (più o meno democratica). Oggi
l’evoluzione scientifica e la raffinatezza del comando mediatico hanno portato
ad “smarrimento” determinato dall’individualismo (anche quello dei “diritti”)
che agisce ormai indisturbato in un quadro di diseguaglianze complesse.
L’asimmetricità
delle condizioni materiali di vita (e di sfruttamento) tra le varie parti del
mondo appare come questione dominante tale da impedire, forse, di vedere oggi
una dimensione compiuta e organica della lotta di classe facendo smarrire anche
l’idea dello sviluppo. Intendo
affermare, con questo, che non possiamo più considerare lo scontro sociale
patrimonio dell’avanzato mondo occidentale e che non basta il residuo di un “terzomondismo”
condito da una sorta di esigenzialismo ambientalista per fornire alle
contraddizioni una nuova miscela di lotta. È
rimasta tutta intera la questione irrisolta del XX secolo e che Engels non
proponeva nel suo testo del 1845 (tre anni prima della pubblicazione con Marx
del Manifesto): la questione del potere e dello stato. La
traduzione di Panzieri fu pubblicata per la prima volta nel 1955 dalle edizioni
Rinascita. Panzieri in quel momento era impegnato nell’analisi con la quale
elaborò i concetti di “operaio
massa” e di “composizione di classe”.Panzieri
indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la
richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi
produrre). L’avanzamento di questa
domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu
disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte
intente - in quellafase - a muoversi sulla linea delle politiche
keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del
cosiddetto “miracolo italiano”). Le lotte di fabbrica di
quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale incentrata sulla
arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione
nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro. L’analisi di
Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di
realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica. Rimase tutta interamente
inevasa, anche allora, l’esigenza di incarnare l’analisi in una strutturazione
politica. Rileggere oggi Engels
con la mente rivolta al suo traduttore può rappresentare un momento di
riflessione non tanto e non solo sulle occasioni mancate e sull’impossibilità
di ripetere schemi ormai desueti nella modernità, ma per comprendere meglio la
nuova qualità delle fratture sociali in una fase nella quale il tema del
rapporto tra Potere/Stato/modello di sviluppo, rimane ancora tutto da
costruire, tanto più in assenza di soggettività definite e di egemonia di forti
“contraddizioni in seno al popolo”, come si diceva una volta.