Quaranta
miliardi di soldi pubblici per il patrimonio di 3.500 imprese. Il serbatoio del
Tesoro gestito da Cassa Depositi e Prestiti è pronto. Sottoscriverà prestiti
subordinati a tassi di favore ed entrerà nel capitale delle aziende disposte ad
aprirsi agli investitori. Una massa mai vista di aiuti di Stato. Un elenco di
3.500 imprese che sulla carta potrebbero accedervi. Sono
questi gli elementi principali dell’operazione che dovrebbe decollare nei
prossimi giorni coltivando l’ambizione di rafforzare la struttura patrimoniale
delle imprese italiane di media dimensione, quelle che nel 2019 avevano almeno
50 milioni di euro di fatturato. Obiettivo:
stimolare una massa adeguata di investimenti per far passare le aziende da
“medie” a “grandi” (troppe le aziende “medie” in Italia, una distorsione frutto
di scelte passate). Commenta Paolo Vetta, responsabile mercato corporate BNL
“Fino ad adesso le aziende hanno guadagnato tempo, gestendo le difficoltà con
nuovi debiti. Ora i nuovi strumenti permettono loro di intervenire sulla
solvibilità, non solo sulla liquidità”. Il
tema, allora, dovrebbe essere quello della crescita e, in questo senso, possono
essere possibili alcune osservazioni. L’osservazione principale riguarda gli
obiettivi di questa “richiesta di crescita”: siamo di fronte, per molti
settori, ad una necessità stringente di fronteggiare l’emergenza e si stanno
scavando fossati ancora più ampi ben oltre il nostro ambito ormai ristretto
alla “periferia dell’Impero”. Da
questo punto di vista, del fossato in chiave localistica, il divario fondante
rimane quello tra Nord e Sud: ne ha scritto Isaia Sales su “Repubblica”
auspicando un massiccio intervento pubblico in quella direzione e richiamando
una “strategia che inglobi il Sud” evocando anche i livelli di investimento
che, a suo tempo, la Germania Ovest fu in grado di dirigere verso l’Est nella
fase della riunificazione.
Entrambi
i punti toccati: quello dell’intervento della Cdp verso le banche e la
questione del divario Nord/Sud non possono che far parte di un’analisi
riguardante la debolezza strutturale seguita all’abbandono della capacità di
programmazione e intervento pubblico dell’economia nei settori strategici. Non
pare proprio che il "Recovery Plan" nelle diverse versioni affronti
questo nodo strategico. Negli anni trascorsi si arrivò anche a discutere di una
“nuova IRI”: adesso la situazione indotta dall’emergenza sanitaria ci ha
portato alla determinazione tradotta, come già ricordato, dal Ministero
dell’Economia in un decreto attuativo di una misura (quella dei 40 miliardi) già introdotta dal Decreto Rilancio del maggio 2020. Siamo
però lontani da una visione di capacità programmatoria dell’intervento pubblico
in economia inserito all’interno di un quadro internazionale all’altezza
dell'emergenza e della prospettiva. Stiamo
osservando un quadro di mutamento dello scenario internazionale e una sorta di
“assunzione di prevalenza” (per non usare “egemonia”) da parte di super potenze
private: era già successo con le compagnie petrolifere, che si sono mosse come
Stati (con diplomazie, 007, milizie), è successo con le banche che hanno in
pugno il debito degli Stati e di conseguenza gli Stati. Succede oggi con le
imprese tecnologiche (comprese quelle delle tecnologie ambientali) e
farmaceutiche che quasi “nazioni sovranazionali” stanno entrando a grande
velocità in settori finora riservati agli Stati (ne scrive Danilo Taino sulla
“Lettura del Corriere della Sera” del 28 marzo). In
questo quadro si delinea meglio il confronto USA/Cina (anche se gli attori in
campo non fanno pensare a un immediato ritorno al bipolarismo) e il tentativo
della nuova presidenza USA di riprendere il filo di una sorta di “ciclo
atlantico”.
In
realtà il processo di marginalizzazione di intere aree del mondo appare in atto
con ancora più forza rispetto al recente passato e la debolezza della nostra
economia ci fa apparire nel novero delle vittime di questo nuovo processo in
crescita delle grandi diseguaglianze. Torniamo
allora ai 40 miliardi di soldi pubblici: se questo flusso di denaro sarà
limitato - appunto - a crescite patrimoniali e non si determinerà un riavvio di
flussi di investimento in settori strategici e se questo flusso non sarà
introdotto all’interno di sistema di intervento economico, produttivo,
tecnologico a dimensione sovranazionale il risultato sarà quello di rimarcare
la nostra piccolezza e la nostra estraneità.
Le
questioni in ballo appaiono essere essenzialmente due: 1)quella della
programmazione e dell’intervento pubblico in economia; 2)quella della collocazione
del Paese nel contesto sovranazionale (perché di questo sembra trattarsi in
luogo del “globale”). Stiamo
uscendo dal ciclo dell’austerity seguito alla crisi della globalizzazione con
una crescita del divario a tutti i livelli. Una
sinistra che intendesse ricostruirsi dovrebbe muoversi sul filone del progetto
economico e sociale, dell’inserimento nel contesto sovranazionale con
l’obiettivo non solo di ridurre gli squilibri ma di proporre un diverso modello
di “civiltà” non soltanto misurato sulla conservazione (dove potrebbe sfociare,
invece, una sorta di “esigenzialismo ambientalista” oggi molto di moda) ma,
nella coscienza dell’idea di “limite”. Serve
una coscienza da tradurre in progetto politico per metterci in grado di
combattere sul doppio fronte della transizione ambientale e tecnologica. Attenzione:
la transizione ambientale e tecnologica si presenta come ampio terreno di
caccia per le lobbies foraggiate dalle grandi concentrazioni
"nazionali/sovranazionali" (ci pensino anche coloro che si stanno
impegnando nei vari movimenti: esiste sempre il rischio di lavorare per il
"Re di Prussia" se non si è capaci di star dentro a un quadro
complessivo di trasformazione politica, economica, sociale a livello sistemico). Una
transizione effettiva, quella ambientale e quella tecnologica, che non può
quindi essere intesa alla stessa stregua del come la valuta e la considera il
governo Draghi. La visione capitalista dell'ambiente e della tecnologia si sta
affermando con l’assoluto dominio delle superpotenze: Stati e multinazionali
assieme e contro. Forse tra “liberismo statalista” e “liberismo tecnologico”
sarebbe di nuovo il caso di parlare di “terza via”. Sicuramente
non può trattarsi del viottolo tracciato dai 40 miliardi destinati a rimpolpare
qualche patrimonio privato ben sostenuto da azioni lobbistiche e corporative
esercitate su scala domestica.