Il Piano del governo non suscita entusiasmi. Finalmente si alza il velo
sull’atteso Pnrr. Un documento corposo che è giunto nelle aule parlamentari
senza neppure la possibilità di essere letto e valutato con la dovuta
attenzione. L’incipit di Draghi ieri
alla Camera, avrebbe potuto fare sperare a qualche ingenuo ascoltatore che si
potesse aprire un varco nel grigiore dei discorsi dei capi di governo. Quel suo
contrapporre la viva sofferenza di milioni di persone all’aridità di cifre e
tabelle, poteva lasciare intendere che finalmente si assumesse la drammaticità
della situazione e le sue conseguenze sul piano umano come il centro del
problema cui il Piano governativo dovesse porre rimedio. L’illusione è durata
un attimo. Persino l’accenno al 25 aprile, nel corso delle cui celebrazioni
Draghi aveva fatto un discorso non retorico, è stato subito soffocato dalla
scontata esortazione degasperiana all’abbandono degli interessi particolari per
il bene del paese. Il resto del suo discorso ha chiarito che la matrice
tecnocratica del governo, che Draghi più di Conte impersona, ma senza
inversioni di tendenza, non ammetteva sorprese. Ed ecco quindi, dopo le
correzioni dell’ultima ora, che hanno spinto le poche opposizioni parlamentari
presenti a chiedere un rinvio negato per la lettura di un testo di più di trecento
pagine, che abbiamo assistito all’illustrazione di un Piano senz’anima. Non differisce nella logica dalle versioni precedenti, se
non nello spostamento di qualche allocazione delle risorse disponibili.
Ribadisce le sei note “missioni”. Parla delle riforme di “contesto” - Pubblica amministrazione,
Giustizia, semplificazione della legislazione (quindi dei controlli su appalti
e concessioni), promozione della concorrenza - su cui Draghi avrebbe impegnato la
sua parola con Bruxelles, vista la loro indeterminatezza. Ma nulla dice su
quella più necessaria e urgente: la riforma fiscale.
Ne emerge un quadro in cui le riforme sociali sono
espunte, restano gli ammodernamenti di sistema. Non a caso la vexata quaestio della governance (il pudore di Draghi a usare
la terminologia inglese è più comico che ipocrita) viene risolta sotto il
comando del Mef e un’articolazione decisionale affidata ai Ministeri a guida
tecnica. Le parole conclusive del suo discorso sono dedicate a un ottimismo di
facciata sulla realizzabilità del Piano. Resta un mistero come possa generare
entusiasmo un progetto che in partenza, se tutto dovesse andare bene, compresa
la congiuntura internazionale e il quadro sanitario, prevede che ci serviranno
quattro anni e 191,5 miliardi dalla Ue per raggiungere la situazione
occupazionale che avevamo nel giugno del 2019, già in fondo alle classifiche
europee, soprattutto in tema di occupazione giovanile e femminile. Non sarà
certo una visione familistica - il citato Family
Act - ad annullare le nostre distanze su questi due fronti. Per farlo servirebbe un’attivazione generale delle
energie della società, a cominciare dai punti di maggiore sofferenza. Facendo
di questi la rampa di lancio per un modello alternativo di sviluppo. In
sostanza le missioni verticali quali la trasformazione ecologica, come la
digitalizzazione, come la sanità devono incrociarsi ed essere lette attraverso
la dimensione orizzontale dei territori. Si scoprirebbe allora che il centro di
questo piano dovrebbe essere la rinascita del Mezzogiorno. La ministra Carfagna
si mostra felice del 40% delle risorse del
Recovery indirizzate al Sud. Ma ce ne vorrebbero assai di più. Dice che 82
miliardi che sarebbero ora impiegati in cinque anni non si sono mai visti.
Strano modo di fare i confronti.
L’intervento della Cassa per il Mezzogiorno - con tutti i
suoi difetti - si è articolato lungo 58 anni con diverse intensità per un
complesso di 342,5 miliardi di euro e il Sud, anche e sebbene con la dolorosa
migrazione al Nord, è stato motore decisivo dello sviluppo del nostro paese,
particolarmente tra il 1950 e il 1973, accorciando le distanze in termini di
Pil pro capite con il Nord. La Svimez calcola che ogni euro di investimento al
Sud generi circa 1,3 euro di valore aggiunto per il Paese, e che circa il 25%
di questo ricada al Centro-Nord. Molto meno avviene all’incontrario. Comunque,
dati i rendimenti decrescenti al crescere dello stock di capitale, si determina
un moltiplicatore in discesa al Nord e in salita al Sud. Quale migliore territorio che non il Sud per una vera
trasformazione ecologica che punti all’idrogeno verde, ad una riconversione
produttiva a cominciare dall’Ilva di Taranto, superando l’aspro conflitto fra
salute e lavoro? Non si tratta di collegare qualche porto, ma di pensare a un’altra
politica, in tutti i sensi, dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo. Anche
negli Usa si è aperto un dibattito sull’American
Rescue Plan, proprio sul concetto di infrastruttura. Bernie Sanders ha
detto che non bisogna solo garantire le risorse per la infrastruttura fisica,
“ma altresì per quella umana a lungo trascurata”. Ma per farlo anche da noi,
non bisognerebbe puntare sulla istruzione “professionalizzante”, su cui ha
insistito Draghi, ma su quella che forma dei cittadini capaci di pensare oltre
l’esistente. Ma questo, come sappiamo non piace alle associazioni padronali.