Pagine

martedì 13 aprile 2021

VIOLENZA DI GENERE
di Lisa Mazzi


Aspetti, cause, sviluppi  
                                     
Berlino. Le origini della violenza di genere sono da ricercarsi all’interno del sistema sociale, culturale e nell’insieme delle false credenze e dei pregiudizi che nel corso dei secoli hanno inficiato le relazioni tra i sessi falsandone i rapporti di forza soprattutto all’interno della famiglia e della coppia.
Per questo è necessario informarsi e cercare di capire quali costanti umane, storiche e legislative hanno portato a far sì che questo fenomeno si stia protraendo e peggiorando nel tempo.
Nel 1999 l’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan disse: “La violenza contro le donne è forse la più vergognosa violazione dei diritti umani. E la più diffusa. Non conosce confini geografici, culturali o di stato sociale. Finché continuerà, non potremo pretendere di realizzare un vero progresso verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace”.
A distanza di vent’anni il nuovo segretario dell’ONU Antonio Guterres il 25.11 19 affermava: “Le Nazioni Unite si impegnano per porre fine a tutte le forme di violenza contro donne e ragazze. La violenza di genere ha le sue radici nella secolare supremazia del patriarcato, che impedisce ancora oggi l’equiparazione tra uomo e donna. A causa di ciò, delle modalità di narrazione nei media e delle leggi molto spesso ancora inadeguate non si riescono a debellare le varie forme di violenza, di cui la più terribile forse è l’uso della donna come arma da guerra”. Lo stupro di massa delle donne “nemiche” nella guerra di Bosnia, le yesite rapite e ridotte in schiavitù, le guerrigliere curde trucidate ne sono un triste esempio. “Tutto questo”, disse Guterres, “deve cambiare adesso”. Purtroppo l’Adesso non si è ancora realizzato. Gli sforzi in tal senso, infatti, non vengono portati avanti dai governi, ma piuttosto nell’ambito del volontariato, dalle ONG, dai gruppi internazionali femministi come Se non ora quando, Non una di meno, il DIRE, e altre, che non dispongono spesso di mezzi adeguati.
Purtroppo nonostante la nascita del CEDAW nel 1979 a New York, la convenzione che voleva eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne e la Convenzione di Istambul del 2011, entrata in vigore nel 2014 e ratificata dall’Italia nello stesso anno, le leggi e i programmi educativi per giovani in età scolare, pur essendo stati modificati parzialmente, non hanno fatto ancora il salto di qualità necessario per arginare il fenomeno, che sembra essere, tra pandemia e regimi populisti, in costante aumento.



Oltre al drammatico e continuo numero di femminicidi, e ricordo che anche la recente ricerca del Ministero della Giustizia non usa ancora una definizione esaustiva di tale delitto, né analizza in modo approfondito le sue dinamiche, ci troviamo di fronte ad un inquietante aumento della violenza domestica e di quella digitale, la forma più recente della violenza di genere, quest’ultima non solo come hate speech nei social media, ma su tutto il web, nelle forme più disparate dal cyberstalking, al cybermobbing, al doxxing, al cybergrooming, al sexting, al dirty talk e al revenge porn.
Il concetto di violenza dal punto di vista scientifico fu introdotto nel 1975 da uno studioso norvegese Johan Galtung nel suo libro Teoria della violenza strutturale. La suddivisione del Galtung è valida e accettata anche oggi da tutti. Lui distingue due forme di base: la violenza personale e quella strutturale.
Violenza personale
: ha luogo quando i rapporti di forza non sono allo stesso livello e uno dei due partner sfrutta la situazione ai danni della vittima, oppure crea una situazione tale da poter esercitare il suo potere in assoluto.
Violenza strutturale invece ci riporta ad un livello di discriminazione e offesa all’interno di un contesto sociale impedendo a determinati gruppi di individui di prender parte in modo inclusivo ed equiparato alla vita politica e sociale di una nazione. Non parte quindi da un aggressore specifico, ma è una forma di violenza. integrata nel sistema sociale.
Solo 20 anni dopo nel 1995, la Conferenza Mondiale di Pechino ci offre una definizione precisa di violenza di genere, per dare avvio alle forme di sanzioni legislative contro di essa: “Il concetto di violenza contro le donne vale per ogni azione violenta legata al sesso femminile recando un danno o una sofferenza di carattere fisico, sessuale o psichico. Essa comprende dunque le minacce, la coercizione, la privazione della libertà nel pubblico e nel privato”.




Violenza personale
La violenza domestica è quella che si definisce all’interno della coppia e della famiglia e comprende:
1. violenza fisica: schiaffi, pugni, calci, sputi, spintoni e scossoni, prendere per la gola, uso di manette, attacchi con armi o oggetti di ogni tipo, minaccia di morte e femminicidio o suicidio allargato che è il caso in cui non si fa il processo all’assassino, perché appunto suicida;
2. violenza psichica/emozionale/invisibile: svalorizzazione, umiliazione, mortificazione, ridicolizzazione, ingiurie, ricatti morali, privazione del sonno, victim blaming (incolpare la vittima) e gas lighting;
3. violenza a sfondo sessuale: coercizione ad atti o pratiche sessuali, stupro e costrizione alla prostituzione;
4. violenza a sfondo sociale: tende a isolare la vittima e controllarla nella vita privata, limitazione nella libertà di uscire e incontrare altre persone;
5. violenza economica: divieto di lavorare, privare del controllo delle finanze e procurare dipendenza economica.
6. matrimonio coatto.


 

 
VIOLENZA STRUTTURALE
DISCRIMINAZIONE - RAZZISMO
 
È quella che viene esercitata non da un singolo individuo, ma da parte della società per escludere chi è ritenuto diverso o non abile: persone di colore, disabili, profughi, vittime di tratte umane, migranti, ebrei, musulmani,
sinti e rom
, LGBQTIA (la sigla sta per lesbiche, omosessuali, transgender, ecc.)
 
I primi documenti che ho raccolto sulla violenza di genere risalgono all’inizio del 2000, ma già dalla metà degli anni 70 mi ero occupata di vittimologia e di devianza femminile.
Il primo articolo che lessi riguardava uccisioni violente di donne in Spagna che per le modalità con cui venivano condotte, facevano subito pensare che gli assassini, quasi sempre in ambito famigliare, volessero esprimere così il loro odio verso l’altro sesso. I casi in quel periodo furono così tanti che un gruppo di registi spagnoli decise di aprire un dibattito sul tema attraverso il cinema. Il film più famoso fu senz’altro quello di una regista spagnola Iciar Bollain dal titolo The doy mis ojos tradotto ambiguamente in tedesco Öffne deine Augen, ambiguo perché si passa, come era nell’intenzione del film, dal massimo gesto d’amore, “ti darei i miei occhi”, ad “apri gli occhi”, che invece potrebbe essere il consiglio di una persona non coinvolta emotivamente nella situazione. L’emittente ARTE mostrò questo ed altri film spagnoli seguiti da una prima documentazione sulla violenza di genere che parlavano soprattutto della violenza fisica e infatti la protagonista, per l’ennesima volta presa a botte dal marito, perde un occhio e solo allora si decide ad abbandonarlo. Molto interessante nel film la costellazione parentale, oltre ai coniugi e al loro bambino di 8 anni, ci sono anche la sorella e la madre della protagonista. La sorella insiste perché Pilar, abbandoni il marito quanto prima, la madre invece le consiglia di restare e “salvare” la famiglia. Il marito alla fine si dichiara disponibile ad una terapia di gruppo per uomini violenti. Da quel momento i media si sono interessati molto al tema, perché la violenza fisica è la forma più diffusa e più facilmente rintracciabile sul corpo e sono sorti proprio in quel periodo centri di terapia per il recupero di uomini violenti, il primo in Norvegia e subito dopo anche in Italia.



La violenza fisica è un fenomeno spesso legato all’abuso di alcol e droghe, a difficoltà finanziarie, alla disoccupazione e ad un carattere di base iroso e instabile. Sicuramente è quella più facilmente sanzionabile dal punto di vista legale, dati i segni inconfutabili che lascia sulle vittime e anche quella più facilmente da sottoporre a terapia con discreti risultati, come si può leggere in alcuni articoli del centro maschile antiviolenza della città di Modena. Soprattutto nel momento iniziale dell’innamoramento la donna non vuole ammettere che il principe azzurro non è proprio tale, e rimane disponibile più del dovuto, come se amore e violenza fossero due facce della stessa medaglia. Le donne sopportano, sperando di riuscire nella loro missione di riportare il compagno alla ragione, di salvare la famiglia. Ma questo, senza un’adeguata terapia, non avviene mai. L’espressione massima della violenza fisica è il femminicidio o quello che ancora si chiama suicidio allargato, che ci pongono a confronto con una realtà del massimo disagio psichico dell’aggressore, che si suicida dopo aver ucciso gli altri componenti della famiglia. In questa sede non è mia intenzione scrivere sul femminicidio, ma focalizzare l’attenzione sulla violenza psicologica. Mi permetto solo di citare al proposito Michela Murgia che, nel suo nuovo blog: osservatoriofemminicidi@repubblica.it
scrive: “Morte o mortificazione: ecco che cos’è un femminicidio. La morte fisica è possibile solo dove sono già state consentite tutte le negazioni di dignità fisica, psichica e morale”.
 
 

Ecco perché vorrei portare l’attenzione su quell’aspetto finora meno trattato e poco conosciuto che è il gas lighting e comprende tendenzialmente tutte le sfaccettature della violenza psichica. Sottolineo che non necessariamente la violenza psichica porta al femminicidio e non sempre è accompagnata da violenza fisica. Scopo primario del gas lighting è quello di assoggettare la vittima e di farle perdere fiducia e autostima. Al proposito vorrei fare una piccola digressione linguistico storica. Esiste in italiano la parola soggezione, oggi desueta, ma che ha lasciato tracce nelle generazioni precedenti (mamme e nonne) ma anche nell’infanzia di chi è nato nel dopoguerra. Si era in soggezione alle volte in famiglia, davanti ai padri, talvolta anche alle madri che incutevano soggezione di preferenza alle figlie femmine, o ai fratelli, ma anche al di fuori di essa, dove esistevano gerarchie e rapporti di forza, a scuola - quella elementare -, nelle associazioni religiose, davanti al parroco, alla madre superiora, al direttore didattico, spesso anche davanti al medico di famiglia, si sentiva cioè un misto di timore e la consapevolezza di non essere in grado, né di avere il permesso di reagire nei loro confronti. Si era infatti consapevoli che queste persone detenevano il potere. Ecco perché l’assoggettamento ha trovato terreno fertile, perché era già una componente accettata della vita sociale quotidiana. Ma torniamo al gas lighting, connesso anche al victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima, i cui scopi sono quelli di disorientarla, renderla insicura e quindi di manipolarla fino a farle perdere completamente l’autostima e portarla alla depressione e al tracollo psichico. Si tratta di un lavoro costante, paziente, fatto di dettagli, che col passar del tempo, perché ci vogliono mesi, anzi anni prima che la vittima si accorga della pericolosità del partner e della sua strategia di distruzione. Una violenza dunque recepita spesso solo all’interno della coppia, o anche tra famigliari e amici, che si avvale in un certo senso di formule ancora “accettate socialmente”, come le osservazioni “Ma sei sicura?”, “Ma cosa dici?”, “Ma ti sei guardata allo specchio?” “Ma guarda che ti sbagli, non è colpa mia” “Ah, ma vai ancora ad incontrarti con le donne del gruppo? Ma non ti sei ancora stancata di ascoltare quelle sceme?  


Opera di Max H. Sauvage

Frasi che inizialmente vengono dette sorridendo e magari con un buffetto sulle guance. E permettetemi di dirlo il buffetto nasconde spesso una forte carica aggressiva, trattandosi non di un rapporto tra nonno e nipotino, ma tra uomo e donna. Spesso si mettono in dubbio situazioni accadute e ricordi. Il manipolatore con la sua versione dei fatti e la sua costante sicurezza provoca nella vittima dubbi e sensi di colpa, anche se questa non ha commesso errori. Il manipolatore inizierà anche a lamentarsi della poca solidarietà della compagna e magari a mostrare segni di disperazione: “Non ce la faccio più, i soldi pochi, lo stress sul lavoro, tu che non mi dai una mano”. Il suo scopo è quello di far aumentare il senso di colpa e forzare la disponibilità della vittima a cercare in sé stessa la fonte dell’errore. La vittima, messa a confronto con le sue presunte responsabilità, non nutre sospetti nei confronti dell’altro, anzi cerca inutilmente di convincerlo con le buone che non è così, che c’è un fraintendimento. Parliamo di violenza invisibile perché spesso questi commenti si svolgono anche in situazioni normali, con passaggi lievi, ma mirati. Alle volte possono poi trascendere passando alle minacce e anche alla violenza fisica, ma questa, pare, più raramente. Molto spesso si tratta di un passaggio fluido, in cui si minaccia la persona anche con oggetti contundenti, ma senza che si passi poi all’azione. Quello che conta è la paura che nasce dalla minaccia e la sensazione che ci sia un pericolo incombente e quindi possa succedere di tutto, per cui la donna reagisce, cercando di placare le ire del coniuge, soprattutto per non svegliare i figli e traumatizzare anche loro. Spesso troviamo anche la privazione del sonno, che è riconosciuta come forma di tortura vera e propria, se si parla di detenuti in isolamento penitenziario, ma non mi risulta che le donne vittime se ne rendano veramente conto mentre questo accade, prese come sono dal logorio continuo della discussione e delle recriminazioni, che possono protrarsi per molte ore, in cui la donna cerca di controbattere portando argomentazioni logiche, che vengono però subito vanificate. Quando si aggiunge il victim blaming, la donna può venire incolpata anche davanti ad altri membri della famiglia o addirittura pubblicamente. Discutere con un gaslighter non ha senso. Lui argomenterà sempre, che tu non lo capisci, che esageri o che sei matta, togliendo sistematicamente alla vittima “la terra da sotto i piedi” con il risultato di gravi scompensi psichici.


Perché si è dato questo nome al fenomeno? Perché la caratteristica dell’illuminazione a gas è quella di essere tremula. Questo nome originariamente è il titolo di un’opera teatrale di Patrick Hamilton, andata in scena nel 1938 la cui trama descrive proprio queste situazioni di pseudo normalità ma con un sottofondo di pericolo incombente. Quest’ultimo, scenicamente, è rappresentato da una lampada a gas in lontananza la cui luce, alle volte, scompare. Il tema fu ripreso anche da A. Hitchcock nel film Rebecca del 1940, tratto da un famoso romanzo di Daphne du Maurier, e nel 1941 sempre da Hitchcock con Il sospetto con Cary Grant e Joan Fontaine, nonché nel film Angoscia titolo originale Gaslight del 1944 di George Cukor con I. Bergman nella parte di Lady Alquist. Film affascinanti con una narrazione equivoca e ambivalente. Se si pensa all’epoca, in cui sia il pezzo teatrale che i film hanno conosciuto grande fama, dobbiamo constatare che, almeno nel mondo anglosassone, il tema del rendere insicura una donna attraverso sottili manipolazioni, reiterate nel tempo, era quantomeno conosciuto e diffuso anche nella realtà. Il gas lighting presuppone anche nel quotidiano una intelligenza e una capacità di fingere non comuni. Gli uomini, che, più o meno consapevolmente, se ne servono, sono piacevoli, seducenti e quindi a rischio molto basso di venir colti di sorpresa e denunciati. Se alla fine dei film degli anni 40 le eroine ne uscivano morte o pazze e gli uomini le avevano sfruttate per arrivare a cospicue eredità, oggi la situazione non è qualitativamente migliorata nel quotidiano perché, anche se il fine non è quello del lucro, i mezzi usati sono gli stessi. In questi casi dove regna l’ambiguità, se il legame emotivo è ancora molto forte e la vittima per prima tende ad assumersi le colpe e la responsabilità di quanto accade, andarsene di casa non sembra essere un’alternativa reale. Al massimo si cerca di guadagnare tempo per migliorare la situazione spesso minimizzando l’accaduto di fronte a sé stesse, figli ed amiche, ammesso che la donna faccia confidenze. Del resto abbastanza eclatanti sono le accuse che fanno a queste vittime, anche le stesse amiche e madri, che non riescono a capire come questo intreccio tra Dr. Jekyll e Mr. Hyde e la continua ambivalenza del Gaslighter impediscano alle vittime di andarsene di casa. Quello che le tiene legate, oltre ai figli ed eventualmente al fattore economico, che però in questa costellazione non è per forza di primaria importanza, è il fascino, l’intelligenza del compagno o coniuge, che sa dosare a mente fredda il bastone e la carota.  Per questo le coppie rimangono spesso insieme per molti anni, anche perché questo comportamento può sparire in caso di bonaccia e riapparire all’improvviso e recrudescente in caso di tempesta, per cui le donne non riescono a capacitarsene e continuano a cercare l’errore e le scusanti nelle circostanze.
Oggi si sa che per sfuggire al gas lighting, bisogna andarsene, non solo di casa, ma il più lontano possibile per evitare stalking, ritorsioni e ricatti psicologici a lunga scadenza, possibilmente affidandosi ad una brava terapeuta. Ottenere un risarcimento danni da un punto di vista legale non è semplice, nemmeno in sede di divorzio.



La violenza di genere oggi è contemplata dal diritto penale della famiglia che si basa, a parte alcune modifiche ancora sul Titolo XI del Codice Rocco in vigore dal 1930. Per il fascismo la famiglia, centro della vita sociale, diventa oggetto di protezione secondo una dimensione pubblicistica, cioè quale bene giuridico autonomo ed indipendente dai soggetti che la compongono e la cui tutela è di per sé meritevole, quale cellula originaria, portante della società e non in quanto strumentale alla tutela dei diritti di coloro che ne fanno parte. Rocco stesso - ministro della giustizia - scrisse nel 1935 che il matrimonio non è “un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma un atto di dedizione e sacrificio degli individui nell’interesse della società, di cui la famiglia è nucleo fondamentale”. Sempre secondo il guardasigilli del fascismo “Il matrimonio deve venir rinsaldato e protetto da condotte che tendono a disgregarlo come concubinato, bigamia e adulterio e se necessario, è ammesso adottare anche le sanzioni punitive”.



Il titolo XI del libro 2 si intitola ancora oggi “Delitti contro la famiglia”. (Articoli 570-574). Alcuni di essi sono stati eliminati perché anticostituzionali, altri hanno subito modifiche. Ma il filo conduttore di questo modello codicistico - istituzionale sorto col Fascismo ha influenzato tutta la parte dell’Italia conservatrice fino alla nascita della Repubblica ed oltre. Del resto la Costituzione, art. 29, dice: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale basata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità famigliare, diritto oggi esteso anche a coniugi dello stesso sesso e figli naturali e adottivi.
Se diamo un’occhiata alla storia vediamo quanto sia stato difficile sradicare questo modello, basti pensare ai vari referendum dal divorzio, per ottenerne l’abolizione nel 1974,  alla costituzione, nel 1975, del nuovo diritto di famiglia, che toglieva finalmente il concetto di patria potestà, al Referendum per la depenalizzazione dell’ aborto, sempre nel 75, alla fatica per arrivare all’ esclusione del pubblico scandalo, del delitto d’onore, del matrimonio riparatore, al passaggio dallo stupro da delitto contro la morale - in seguito ai fatti del Circeo - a delitto contro la persona. Questa mentalità retrograda purtroppo persiste ancora ad esempio nel DDL Pillon, nelle politiche famigliari dei populisti nel movimento per la vita ecc.
Con la legge n.172 del 2012 e con essa si ha una modifica sostanziale dell’art. 572 codice Rocco, non è più interesse dello Stato proteggere la famiglia come tale, ma la salvaguardia dei suoi membri. Come si legge nel Codice Rosso di Roma il legislatore italiano ha deciso di accordare sempre maggior tutela a tutte le situazioni di violenza famigliare.



In particolare il reato di maltrattamenti in famiglia art. 571-572 del Codice penale “è atto a punire tutte quelle condotte, reiterate nel tempo che ledano volontariamente l’integrità fisica, la libertà, il decoro, oppure degradino e sottomettano fisicamente o moralmente una persona di famiglia, un convivente o una persona sottoposta all’autorità del soggetto agente e ad esso affidata”, quindi anziani e minori. Nel 2019 il legislatore ha riconosciuto l’aggravante della violenza “assistita” legge 69 del Codice Rosso, cioè se un minore assiste ad un episodio di violenza nei confronti della madre, viene considerato lui stesso persona offesa. Ci sono due sentenze della Cassazione, sezione VI, penale, una del marzo 2009 e una sempre di marzo del 2019 che specificano che per sanzionare il maltrattamento è necessario il dolo unitario di sopraffazione o supremazia, vale a dire che solo dimostrando che il comportamento violento viene commesso più volte in piena consapevolezza dall’elemento soggettivo del reato allora lo si può perseguire in termini di legge. “Il Dolo unitario comprova il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona” sentenza Cassazione 19 marzo 2019.
La violenza non è una malattia, ma un reato, purtroppo però ancora in molti paesi non facilmente perseguibile.
La violenza di genere è l’espressione di una volontà di potenza fisica, psichica, sessuale, sociale ed economica non riassumibile certo solo nella frase “Tu mi esasperi, io ti punisco”, ma che deriva da tutta una serie di retaggi anacronistici di tipo culturale e sociale, come il culto della superiorità maschile ancora troppo diffuso nel nostro quotidiano, dalla stampa e non solo quella trash, dalle canzonette come “Bruciare per te” di Elisa, guarda caso lanciata dopo l’agghiacciante episodio verificatosi a Roma alla Magliana, dove un fidanzato abbandonato ha dato fuoco alla sua compagna, oppure al testo demenziale  di “Giovane e stupida” del cantante Cesare Cremonini, presente lo scorso anno nella hit parade, al perpetuarsi all’interno di determinate gerarchie come ad esempio in quella ecclesiastica della “soggezione” davanti alla tonaca o ad un camice bianco, alle cronache giornalistiche e alle narrazioni mediatiche  dove troppo spesso impera il “victim blaming”, mentre il pover’uomo è in preda al raptus di gelosia, dal gigante buono e il suo amore infelice, all’educazione scolastica ancora troppo spesso insensibile e non preparata per temi del genere e soprattutto al qualunquismo, all’indifferenza e alla cecità di amici e parenti di fronte a realtà che esigerebbero comprensione, empatia, preferiscono etichettare le vittime con le classiche frasi “se l’è cercata”, “è lei che non ne vuole uscire”, “ in fondo le piace essere la moglie di…”, piuttosto che mettere in guardia con molto tatto chi in situazioni pericolose non ce la fa da sola ad aprire gli occhi.