La nobiltà di un mestiere Se scrivo male di un luogo, o di
ciò che in un luogo accade di negativo, non è mai per partito preso e ci sono
sempre delle buone ragioni. Anzi, delle pessime ragioni. Un po’ di anni fa un “giornalista”
della mia terra di Calabria si era risentito perché avevo osato scrivere su un
indegno sterminio di tre splendidi viali di platani, costituiti da alberi
possenti e bellissimi, per ragioni idiote ed inutili: fare delle piste
ciclabili in una zona di città dove non si era mai vista transitare una sola
bicicletta. Secondo costui, non vivendo da tempo in quel luogo, non avevo
“titolo” per pronunciarmi su questa speculazione. Un modo molto singolare di
intendere il giornalismo. Poiché non sono né turco né palestinese, secondo
questa logica (si fa per dire), non dovrei dire una parola sul massacro dei
curdi e tanto meno su un popolo senza patria e diviso da un muro. Per quel che
mi riguarda rivendico il diritto-dovere di dire bene e male della mia terra
d’origine, così come di qualsiasi altro luogo. C’è un celebre canto
internazionalista che esordisce con questi versi: “Nostra patria è il mondo
intero/ nostra legge è la libertà”; dovrebbero sempre tenerli a mente
quanti esercitano il nobile e delicato mestiere dello scrivere. La lingua che
si parla ti lega alla tua terra, il sentimento della libertà e della giustizia
ti lega al mondo intero. Quando scrivo male di ciò che di negativo avviene in
un luogo, non lo faccio mai a cuor leggero. Alla base c’è sempre un profondo
atto d’amore: perché lo vorremmo tutelato, difeso, custodito, e se non accade
ne soffriamo. Quando vedo certi scempi urbanistici perpetrati con disinvoltura
ai danni delle nostre splendide città, non posso fare a meno di equipararli ai
bombardamenti di guerra del 1943. A livello visivo l’effetto è lo stesso.
Questi massacratori del tempo di pace, mi risultano ancora più spregevoli di
quelli del tempo di guerra. Non avevano alcuna giustificazione i primi, a bombardare
un museo, un teatro, una chiesa; non hanno alcuna giustificazione i secondi a
sfregiare, a manomettere, a cancellare memoria. Quanto al mio sentimento per
Milano, credo che i versi di “Città mia”, che ho scritto e pubblicati nel 2006,
possano bastare: giudicate voi. “Ci fosse un’altra vita dopo questa/ io
tornerei da te/ a mescolare la mia terra con la tua/ a impastare vita con la
vita/ a farti caldo il cuore./ Ti abbraccerei per implorarti e dirti:/ madre,
madre grassa di pianura,/ lascia che il tuo porto sia ospitale/ accoglili e
piegati al dolore;/ fraterna sia pietà, pietoso il dono,/
sopporta come madre/ le ferite”.