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martedì 29 giugno 2021

AI COLLABORATORI ED AI LETTORI


Cari collaboratori, cari lettori di ambo i sessi, mercoledì 30 giugno dovrò sottopormi ad un delicato intervento chirurgico agli occhi, ragion per cui per alcuni giorni non potrò pubblicare nulla su “Odissea”. Così mi è stato preannunciato dai medici, perché dovrò tenerli a riposo. Solo in prima pagina ci sono circa 6 mila articoli, più i tantissimi delle varie rubriche, dunque non vi mancherà materia di lettura. Chiedo ai collaboratori ed alle collaboratrici di non inviare, per almeno una settimana, articoli che abbiano una scadenza breve, ma di privilegiare temi di più ampio respiro. Ci scusiamo con i Comitati, le associazioni, le istituzioni culturali di ogni ordine e grado, riprenderemo a dare voce alle loro iniziative appena possibile. Approfitto per suggerire di stilare i testi in corpo 14 e di usare il carattere Georgia, per facilitare il lavoro redazionale. [Odissea]  

PAESAGGI SOLO DA GUARDARE?
di Giancarlo Consonni

 
 
A ben vedere, anche le rappresentazioni dei corpi umani contengono implicitamente un’immagine del mondo. I corpi nudi scolpiti da Policleto sono lo specchio del cosmo, con il quale sono in piena, riposata sintonia.
Le figure della statuaria romana restituiscono individui ben ancorati nella vita quotidiana, caratteri resi saldi da un senso del diritto ma anche attraversati da una tensione civile che non si sottrae ai conflitti. Ancorché isolate, queste figure presuppongono e rendono palpabile un contesto: la civitas.
Nelle statue dei mesi di Benedetto Antelami nel Battistero di Parma (fine XII - inizio XIII sec.) i corpi sono tutt’uno con la messa in scena di un fare ispirato alla cura. In queste sintesi a elevato peso specifico fa il suo ingresso nel mondo dell’arte il paesaggio. Seppure appena accennato, il paesaggio agrario è restituito nella sua essenza: come «un fare, un farsi di quelle genti vive» (1). Certo, non siamo alla narrazione distesa de Les grandes heures du Duc de Berry (1384-1409): se Antelami è la poesia, i Fratelli Limbourg sono la prosa; ma il contenuto della rappresentazione non diverge di molto: a essere celebrato è il legame tra gli artefici e il paesaggio. Proprio quel legame che, trascurato, rende debole quanto stabilito dall’articolo 9 della Costituzione Italiana: se non si offre un calibrato sostegno a una agri coltura degna di questo nome, la “tutela del paesaggio” è destinata a restare lettera morta.


B. Antelami. Duomo di Parma
Partic. del Battistero

I paesaggi sono sempre esistiti. Naturali dapprima e via via sempre più umanizzati. La “nascita del paesaggio” viene comunemente riferita a un aspetto soggettivo: a un modo, più o meno condiviso, di percepire i contesti fisici in cui è attiva una valutazione estetica (che può spingersi fino al piacere o al dolore). Ma, nonostante la vasta letteratura, la “nascita” resta avvolta nella nebbia (non meno del concetto stesso di paesaggio). Ogni studioso del paesaggio ha indicato una figura aurorale, con il risultato che gli inizi risultano essere molti e per la gran parte tutti degni di attenzione.
Alla ricchissima produzione sul tema si aggiunge ora Clivo (2), l’aureo librino in cui Giulio Gino Rizzo compie un attraversamento della storia del paesaggio italiano avendo come bussola la parola clivo. Abbiamo così la possibilità di intraprendere un percorso fascinoso avendo per guida uno studioso che ha alle spalle studi notevoli sui paesaggi italiani e della Tuscia romana in particolare (oltre a una straordinaria esplorazione dell’opera di Roberto Burle Marx). Dopo diverse ‘illuminazioni’, Rizzo ci conduce di fronte alla rappresentazione dei paesaggi terrazzati delle Cinque Terre operata da Eugenio Montale. E a condividere la sofferenza e la denuncia del poeta per lo stato di abbandono di quelle che i liguri chiamano «fasce» (3).
L’Università di Padova, con il progetto Mapter guidato dal geografo Mauro Varotto, ha rilevato che in Italia i terrazzi sorretti da muri a secco raggiungono l’estensione lineare di «170mila chilometri» (4) (più di quattro volte la circonferenza del globo). Una realtà che meriterebbe un riconoscimento Unesco (ben oltre le colline del Prosecco) e soprattutto un piano nazionale di manutenzione volto a sostenere e incrementare le molte iniziative di riqualificazione dell’agricoltura collinare sorte dal basso (5).  

 
Per tornare alla questione della “nascita del paesaggio”, forse per togliersi d’imbarazzo nella selva delle interpretazioni, Eugenio Turri nel 1974 offriva una chiave per ritrovare una concordia discors: «L’acquisizione culturale del paesaggio nasce lentamente e faticosamente dalla realtà naturale e geografica» (6).     
In questa scia, Maurizio Vitta (7) ha tentato di tracciare una mappa dei mille rivoli di cui si alimenta la nascita del paesaggio in Occidente. Ma la selva delle rappresentazioni resta e non è facile orientarsi; tanto più se ci si fissa sul problema dell’inizio. La soluzione? Guardare al problema della nascita con ironico distacco evitando la riductio ad unum; avendo cura, semmai, di mettere a frutto ogni spunto fecondo offerto da filoni non omologabili.
Resta il fatto che ambiente, territorio e paesaggio non sono che modi convenzionali - non sempre chiarissimi sul piano concettuale - di nominare una realtà che resta indivisibile.
Come se ne esce? Non perdendo mai di vista che il paesaggio è a conti fatti una rappresentazione parziale della realtà fisica, oltretutto mutevole nel tempo, e che, per usare il titolo di una bella mostra milanese del 1984, si tratta pur sempre di una immagine interessata (8). Quando Lionello Puppi sostiene che, a partire dal Quattrocento, chi contempla il paesaggio è un cittadino (9), dice una verità storica. L’idea di paesaggio in Italia si consolida dopo che si è pienamente dispiegata l’«intima unione [della città] col suo territorio»(10). Una realtà di cui L’Allegoria degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna (1338-39) di Ambrogio Lorenzetti è in qualche modo il manifesto (e anche, come non sfugge a Giulio Rizzo, un’eccezione per l’elevato contenuto storico-documentale che contiene). Nel consolidarsi del “paesaggio” in pittura gioca un ruolo anche l’emergere di un ceto borghese che sa apprezzare la portata di quell’«immenso deposito di fatiche» (11) che sono i paesaggi agrari.
Fatiche degli altri, ovviamente. Quello su cui si sa assai poco è quale idea di paesaggio avessero coloro che il paesaggio agrario lo ‘producevano’. Tutto questo per dire che occuparsi di paesaggi comporta che si studino assieme oggetto e soggetto (cosa di cui Rizzo non si dimentica certo).



Oltretutto siamo in presenza di diverse soggettività:
- quella di coloro che i paesaggi li hanno vissuti ‘in diretta’;
- quella degli artisti e dei letterati che se ne sono fatti interpreti;
- quella degli studiosi (e dei loro lettori).
Praticare in lungo e in largo questi livelli e le loro interazioni è indispensabile per venire a capo dei caratteri dei paesaggi. Ma non meno importante è saper accogliere i colpi d’ala degli artisti e dei letterati - penso a Del paesaggio (Von der Landschaft, 1902) di Rilke (12) -, rimescolando, quando occorre, ciò che una rigida (e sterile) definizione di paesaggio tende a tenere distinto.
Mi spiego meglio. Il paesaggio, afferma Turri, è «la manifestazione sensibile dell’ambiente, la realtà spaziale vista e sentita […] organismo vivo intessuto di relazioni interdipendenti tra le forme che lo compongono», mentre «l’ambiente sottintende l’esserci, il viverci» (13).    


La valutazione estetica che sembra affiorare nella pittura occidentale a partire soprattutto dal Quattrocento fa emergere un punto di vista contemplativo della bellezza che, quantunque prevalente, convive spesso, nutrendosene, con una conoscenza ‘anatomica’ del paesaggio che attinge a una osservazione attenta tanto degli elementi naturali (geologia, botanica ecc.) quanto degli esiti trasformativi dell’attività umana (agricoltura, insediamenti ecc.).
Con un risultato: che la bellezza è inscindibile da una percezione/valutazione, sia pure implicita, dell’ospitalità e dell’abitabilità dei luoghi. In altri termini il giudizio estetico è parte integrante del sentirsi o meno accolti e a proprio agio nei contesti rappresentati. Il paesaggio e l’ambiente che si vorrebbero tenere distinti tornano a interagire e a produrre significati e senso.
E questo vale anche per l’arte di rappresentare i paesaggi, almeno fino agli impressionisti.

 
La copertina del volume
 
Note
(1). Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1972 (1961), p. 19.
(2). Giulio G. Rizzo. Clivo. Lettura morfologica del paesaggio della Divina Commedia con le cantiche figurate da Giulio Repulino. Scritti di Alice Di Piero, Monica Ferrarini, Veronica La Porta, Mariella Zoppi, Gangemi, Roma 2021.
(3). Detto, per inciso, l’uso di clivo da parte dell’autore de Gli ossi di seppia è un poco approssimativo. Semmai trattasi di suolo in pendio per balze (solum per gradus acclive), mentre clivo sta a indicare un semplice pendio o il fianco di una collina.
(4). Francesco Erbani, Paesaggi da sogno e argini alle frane il tesoro nascosto delle terrazze d’Italia, in «la Repubblica», 9 ottobre 2016.
(5). Di questo quadro straordinario dà conto il volume: Luca Bonardi, Mauro Varotto (a cura di), Paesaggi terrazzati d'Italia. Eredità storiche e nuove prospettive, FrancoAngeli, Milano 2016.
(6). Eugenio Turri, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 19832, p. 51.
(7). Maurizio Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi, Torino 2005.
(8). Archivio di Stato di Milano, L’immagine interessata. Territorio e cartografia in Lombardia tra 500 e 800, New Press, Como 1984.
(9). Lionello Puppi, L’ambiente, il paesaggio e il territorio, in Storia dell’arte italiana, vol. V, Einaudi, Torino 1980, p. 68.
(10). Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre 1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Storia universale e ideologia delle genti. Scritti 1852-1864, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, p. 122.
(11). Id., Agricoltura e morale, in Atti della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri. Terza solenne distribuzione dei premi alla presenza di S.A.I.R. il Serenissimo Arciduca Vicerè nel giorno 15 maggio 1845, Milano 1845, ora anche in Id., Scritti sulla Lombardia, p. 326.
(12). Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, a cura di Giorgio Zampa, Cederna Milano 1949.
(13). E. Turri, cit., pp. 55 e 52.

   

LA FIRENZE DI PRATOLINI
di Mario Carniani*       

Vasco Pratolini
 
Quando mi è stato proposto di accompagnare un gruppo di giovani e di adulti in visita a via San Leonardo e Costa San Giorgio ho accettato l’invito con entusiasmo. L’Oltrarno è sempre stato per me, fiesolano di nascita, l’altra Firenze, la vera Firenze: la Cappella Brancacci di Masaccio, la reggia di Pitti con Boboli e Belvedere, la ripida Costa San Giorgio sulla via di Arcetri, Borgo San Jacopo e via de’ Bardi ricostruite nel dopoguerra, le botteghe artigiane intorno a Santo Spirito. Di fronte alla casa di Galileo, e poi a quella di Francesco Guicciardini, viveva mio zio Vittorio, un cuoco raffinato e mai dimenticato per il suo prelibato risotto allo zafferano, e la zia Teresa che cuciva per le grandi famiglie fiorentine. Era la Firenze rinata dalla guerra e poi dall’alluvione che raggiungevo con i primi turisti di massa, spesso attraverso il Corridoio Vasariano. È la città che ho voluto far conoscere ai miei studenti di Dartmouth College e della Georgetown University, liberata dalle macerie e dal fango, salvata convintamente da giovani e vecchi, fiorentini e stranieri, da donne alla ricerca della parità con gli uomini.
Questa è la Firenze magica di Elizabeth Barrett Browning e di Ottone Rosai, di Carlo Levi e di Dostoevskij, di Anna Maria Luisa e di Pietro Leopoldo, di Frederick Hartt e di Ugo Procacci, la città dei mercanti, degli orafi e dei banchieri, dei sovrani di Toscana e d’Italia, dei cultori del bello e del raffinato, ma anche dei disperati e dei visionari, che ha sofferto, sperato ed amato, sempre proiettata verso il sublime, nemica delle sciatterie e delle banalità.
Che cosa rimarrà dell’universo proletario di Vasco Pratolini, che da via dei Magazzini e da via del Corno saliva su su verso via San Leonardo? Ecco alcuni brani illuminanti tratti da Cronaca familiare.
Quando la mamma morì tu avevi venticinque giorni, eri ormai lontano da lei, sul colle. I contadini che ti custodivano ti davano il latte di una mucca pezzata; ne ebbi anch’io una volta che venimmo a trovarti con la nonna”. (…) “Ti venivamo a trovare, sul colle, quasi tutti i giorni. Si saliva Costa de’ Magnoli, Costa Scarpuccia, era estate, luglio; ogni volta, finita l’ascesa, io volevo trattenermi a guardare San Giorgio e il Drago, scolpiti sulla Porta; la nonna mi tirava per mano. Gli ulivi erano bianchi sotto il sole, emergevano con tutti i rami dai muretti in cui è incassata via San Leonardo. Al di là, i campi arati, perfetti, in leggera pendenza; un gran frinire di cicale, e farfalle smarrite nella luce.” (…) “Venirti a trovare a Villa Rossa significava prepararsi a un rito”. (…) “Secondo le stagioni, al ritorno, facevamo degli incontri sulla strada. A cavalcioni del muretto di cinta un contadino potava gli ulivi, si toglieva il cappello per salutare la signora; il giovane mezzadro ch’era stato a distribuire il latte ai clienti di città, ritornava col barroccino tirato dal cavallo: il suonare dei bubboli e il tintinnio dei bidoni riempiva il luogo di fracasso, gli zoccoli del cavallo avevano l’eco più forte;” (…) La strada è lastricata, larga pochi metri, i muri di cinta sono alti poco più di un uomo, le cancellate delle ville lo stesso.” (…) Scendendo Costa de’ Magnoli |la nonna| piangeva a labbra strette. Sul Ponte Vecchio io le chiesi: “Dove lo si potrebbe mettere a dormire?”.
Meditiamo prima di vedere scomparire questo angolo di Firenze, assolutamente da salvare, che ci rende unici nel pianeta.
 
*già docente d’inglese, guida turistica
fondatore e presidente onorario Associazione
Centro Guide Turismo Firenze e Toscana
 
*
 
SETE DI CULTURA
di Adele Seniori Costantini* 

 

In tanti hanno sete di arte e di cultura”. Sono queste le parole con cui il direttore della Galleria degli Uffizi, Eike Schmidt, ha commentato il successo della riapertura al pubblico degli Uffizi, Palazzo Pitti e Giardino di Boboli. Tre siti museali di straordinario interesse, molto amati dai Fiorentini, che potranno essere finalmente di nuovo fruibili grazie anche a iniziative come “R - Estate con l’arte” che proporrà percorsi di conoscenza del patrimonio artistico e della storia della città per adulti e bambini.
Del tutto in contrasto con tale visione culturale e sociale, il Comune di Firenze con la variante al piano regolatore “Variante Costa San Giorgio” (fortunatamente non ancora in fase di applicazione) accetterebbe che la quasi totalità dell’ex caserma militare di Costa S. Giorgio, tra Forte Belvedere, Palazzo Pitti e Villa Bardini, sia destinata alla costruzione di un resort di lusso e delle conseguenti infrastrutture, invasive di spazi pubblici a vantaggio solo di turisti facoltosi. Un mega-albergo di lusso non ha nulla a che vedere con la storia e la bellezza di questo angolo della città, patrimonio dell’Unesco, un “bene pubblico” che deve essere tutelato e mantenuto per i cittadini di Firenze e del mondo di oggi e di domani.
 
*medico epidemiologo
 

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada

 
La moralità


Per i greci (agathòs) γαθός, che è un concreto, significò: buono, onesto, eccellente, abile, propizio, ragguardevole, di buona nascita, mentre il neutro τ γαθόν indicò il bene, che è un astratto, a seguito di questo ragionamento: in chi è buono, si riscontra colui che fa il bene e, per dire  meglio, si rinviene: il bene; anche i latini adottarono lo stesso percorso logico, per cui, per esempio, da pulcher (colui che è bello) ricavarono il bello/la bellezza: pulchrum, così da verus (ciò che è vero/il veridico) si ebbe verum: la verità. Inoltre, dall’astratto τ γαθόν fu generato il concreto (tà agathà) τ γαθά (le cose buone): beni, ricchezze, le buone qualità. La perifrasi che portò a determinare i significati di γαθός fu la seguente: è colui che, quando si genera la crescita iniziale del grembo, fa un’ottima scelta: lega l’essere in divenire alla madre, determinandone la formazione e la creazione. Logicamente, si tratta di una fictio, in quanto il pastore attribuisce ad un benevolo saggio quella decisione. Poi, per definire il bene assoluto ci si avvalse di: (tò autoagathon) τ ατοάγαθον, che è il bene di per sé, in sé, che si realizza nel processo di riproduzione. Il pastore greco asserisce: si rinviene il più grande bene in ciò che si trova dentro il tendere che genera la crescita. Il tendere che genera la crescita significa l’attività riproduttiva, ma anche quella del pastore e, comunque, ogni fatica umana produttiva.



I latini tradussero γαθός bonus e τ γαθόν bonum. Con bonus dissero: si riscontra in colui che ha operato il legame (la simbiosi) tra la madre e la creatura, per cui si tratta di una persona: buona, favorevole, benigna, onesta, che giova. Con bonum indicarono il bene in sé posseduto dal buono. Per gli italici l’0mologo di bonum divenne il bene nel senso di affetto per quella creatura e di possesso di qualcosa d’importante. Il bene, nella metafora del grembo, è ciò che nasce, è per chi nasce.



L’aggettivo (kakòs) κακός: brutto, sordido, malevolo, cattivo è colui che, nel processo di riproduzione, stringe, attanaglia, durante il travaglio, la creatura innocente che deve nascere, determinando i dolori del parto e tutte le conseguenze di un cattivo parto. La perifrasi potrebbe tradursi: dal generare (dal far nascere), è colui che lega (stringendo in modo asfissiante la creatura inerme e innocente). Un’altra espansione logica per indicare il male, dedotta da τ κακόν, fu (kakotes) κακότης: cattiveria, male, codardia, anche: sventura, sciagura, danno, miseria. Da κακ(ό)τ(ης) fu desunto in italiano: cattivo, come colui che causa danni e sventure, mentre, in alcuni dialetti del mio territorio, fu dedotta la cattiva, che indica la vedova, come la sventurata. Nella cultura meridionale la vedovanza rappresentava la sventura somma, condizione espressa da Omero, quando Andromaca, paventando la morte del marito Ettore, evoca ciò che si abbatterà su di lei e sul figlio Astianatte. Incidentalmente, vorrei ricordare che nel mio dialetto c’è l’espressione: “A coria meia” (sorte sventurata!), che rimanda all’avverbio χωρίς: separatamente, in disparte, a sua volta dedotto da χήρα: vedova.
Tra i mali: (tà kakà) τ κακά fu annoverato (nosos) νόσος: malattia, morbo, peste, flagello (da ricordare: nosocomio). Il pastore greco individua la malattia come metafora del travaglio e dei primi giorni del puerperio, per cui la perifrasi suona così: è ciò che si riscontra dentro il travaglio. Non è il travaglio la malattia, ma è assimilabile alla condizione della partoriente.
I latini tradussero κακός malus: cattivo, malvagio, deforme, brutto, ricalcando la stessa perifrasi di κακός: è colui che serra la creatura che sta per nascere (alla lettera: colui che lega, facendo il rimanere dallo sciogliere, anche nel senso che non fa nascere). Il malus (malo) ha in sé il male e arreca i mali, è malevolo, è maligno. Per gli italici un’espansione logica di male generò malato, che è colui che è provato dal male, meglio: è colui che lega il male, ha dentro di sé il male. Poi da malato si ebbe malatia e, quindi, malattia.



A questo punto bisogna ricordare che nella civiltà greca, latina e italica vi fu una radicata credenza: il malocchio. I greci individuarono nel mago, che rimanda alla radice μαγ di μάσσω, colui che è apportatore di (manganeuma) μαγ- γάνευμα: incanto, incantesimo, sortilegio, magia, opere del mago, che si potevano vincere con i segni apotropaici o con l’azione di un altro mago. I latini lo identificarono nel fascinator, che è colui che opera il fascinum: malia, incantesimo. Gli italici del Meridione dedussero da mago magaro e magaria e da fascino l’affascino. I latini avevano coniato malitia: malvagità, astuzia, frode, gli italici: malia, malizia e malizioso (come contrario di ingenuo), ammaliare, maliarda ecc. Pertanto, la malia è ciò che si genera dal malus, che è la capacità di legare/bloccare (il rimanere dallo sciogliere) i processi di natura, che sono di per sé positivi. Da quanto detto, si potrebbe affermare che il male è causato essenzialmente dal cattivo, che innesca meccanismi perversi nei processi di natura, che sono sempre tendenti al bene.
Si è affrontato il processo formativo di bene e male per introdurre il concetto di moralità nel mondo antico, nel suo originarsi e nella sua stratificazione culturale.
I greci coniarono (etho) θω: sono solito, sono abituato, mediante questa semplice perifrasi: è ciò che discende dal crescere. I processi di natura, che sono buoni, belli, giusti, hanno le sequenze abituali, solite: crescere, legare, mancare. Poi da questo verbo fu dedotto il deverbale: (ethos) θος θους: abito, costume, usanza, abitudine, consuetudine, istituzione, concetti desunti da questa perifrasi: dal crescere si genera il legare (come operosità) che determina il mancare, come graduale formazione dell’essere e come acquisizione di ciò di cui si ha bisogno. Quando il flusso gravidico cresce avviene il legame, che, nel processo formativo dell’essere, rimanda alla bolla (veste) che avvolge la creatura. La bolla assunse tanti significati positivi: la sacralità e l’inviolabilità del grembo, la protezione e la difesa della creatura, ma anche la fatica per realizzare ciò che manca. Quindi il costume, da portare sempre, diventa un’usanza (buona), ma anche un’abitudine. Poi, da θος: abito fu dedotto (etico) θικός: l’abituale, che, verosimilmente, richiamò il dovere quotidiano. Per il pastore greco, l’abituale divenne il suo duro lavoro, che aveva definito τ δέον: il dovere (quotidiano), quello che lo spingeva, per necessità e bisogno, a procurarsi l’indispensabile. Pertanto, presumibilmente, il dovere acquisì il significato di etico, come bene da perseguire sempre e comunque.



I latini coniarono mos moris: costume, abitudine, usanza, modo di vivere. La perifrasi dovrebbe essere la seguente: nel processo formativo, avviene abitualmente questo: genera il rimanere nel grembo il legare, cui consegue la formazione di ciò che manca, che, in questo caso, si tratta del costume. Pertanto, il costume, che non solo è ciò che abitualmente porto, ma è anche ciò che abitualmente faccio, divenne (buon) modo di vivere. Anche per i latini ciò che faccio tutti i giorni (l’abituale, ma anche il dovere come officium) diventa il bene. I latini, inoltre, individuarono nei mores maiorum, nelle usanze degli antenati, nel loro modo di vivere (quello che fu, quello che non c’è più, quello di cui si ha bisogno: o tempora, o mores!) le buone costumanze, le buone abitudini. I latini da mos moris dedussero l’aggettivo morale, che indica il modo di comportarsi di colui che si attiene ai costumi e che, quindi, li rispetta.
Inoltre, chi ha comportamenti morali è onesto. Onestà e moralità sono tutt’uno. I greci si avvalsero di χρηστός: buono (da collegare a χρή: è necessario), che è colui che, versando nel bisogno, lavora duramente, fatica per guadagnarsi il necessario; usarono anche καλοκγαθός, che non è da tradurre solamente buono e bello, ma nel senso di χρηστός. I latini tradussero honestus: chi ha credito, dignitoso, decoroso, ma assegnarono a honestum questi significati: moralità, virtù.
Gli italici con la morale, che è ciò che si evince dai comportamenti di chi vive in modo conforme ai mores, indicarono anche l’insieme (i dieci comandamenti) di norme e di comportamenti, che sono buoni, che sono del buono, dell’onesto, del giusto. Inoltre, con la morale della favola si intende quanto di buono si deduce da una vicenda paradigmatica.
Con fare la morale si indica il voler disapprovare i comportamenti scorretti. Inoltre, ciò che è morale attiene ad una sfera diversa da ciò che è fisico, per cui il morale (su con il morale!) indica uno stato d’animo di benessere intimo e spirituale, anche se ci sono le sofferenze morali, quelle che attengono all’animo, allo spirituale che è nell’uomo.
Per concludere, le civiltà agro-pastorali costituirono, adeguandosi a ciò che avviene in natura, che è la sfera del necessario, un mondo di valori, basato sul giusto e sul buono, che è pervenuto sino a noi.   

 

COSE DA ITALIANI
di Paolo Vincenti

 
Cinquanta euro per la Madonna. Mentre spopolano nelle trasmissioni televisive i servizi dedicati a miracoli e guarigioni, quasi sempre fasulli, una piccola notizia confinata fra le ultime pagine dei giornali ci conferma che tutti questi presunti maghi, guaritori e guariti, non sono che dei pataccari. Paolo Catanzaro, un mistico di un paesino in provincia di Brindisi, che vedeva la Madonna ogni 24 del mese, viene indagato per truffa, abbandona le visioni mariane, si fa operare e diventa donna e gira pure un film, “Un nuovo giorno”, che deve essere il trionfo del trash. Ma a lasciare sgomenti, ancora una volta, non sono questi lestofanti che vedono Padre Pio o Sant’Antonio, ma i decerebrati che li seguono.
Il comizio nella predica. Il parroco di Ostia Don Franco De Donno, già coordinatore della Caritas, lascia l’abito talare e si candida a Sindaco. Non ci sorprende. Vi è una consolidata tradizione in Italia, specie nei paesi di provincia, di preti che fanno politica e, se non si rendono protagonisti di scelte eclatanti come De Donno, ancor peggio, operano nel sommerso, appoggiando ora questo ora quell’altro candidato a seconda delle convenienze e ogni domenica comiziano dall’altare durante l’omelia.
Sospetti. Hanno arrestato il titolare del famoso ristorante “Assunta Madre” a Roma. “Intestazione fittizia di beni e riciclaggio”. L’ “Assunta Madre” è uno dei ristoranti più importanti della Capitale: grande imbarazzo fra i vip, politici, attori, presentatori, che lo frequentano. Ma dico, uno che si chiama Jhonny Micalusi? Nemmeno Martin Scorsese avrebbe avuto tanta fantasia nel dare un nome ad uno dei protagonisti dei suoi film sulla mafia italo americana. E gli inquirenti ci sono arrivati solo ora? Nel suo ristorante, ospitava spesso cene di mafiosi. Aveva aperto delle filiali anche a Londra, New York, Parigi, e si apprestava ad aprirne in altre località. E certo, con quel nome, tutte le porte si spalancano, immagino. Jhonny Micalusi. Un nome parlante, il suo, e poi basta guardarlo in faccia: la copia esatta del boss protagonista de: I Soprano. Inquirenti, ma ci voleva tanto a capire che era un tipo losco, ah?
Tengo famiglia. Ai festival dell’Unità ormai non passano più Guccini ma Ruggeri. Enrico, dopo tanti anni di onorata carriera da outsider (gli si attribuivano da sempre simpatie di centro destra) si è convertito al Pd. Del resto Ruggeri ormai non vende più dischi, i suoi ultimi tre, quattro lavori sono stati ignorati dal pubblico e addirittura la storica reunion dei Decibel, il suo primo gruppo punk rock, che doveva essere un grande evento musicale, è passato sotto silenzio, anche perché il cd scritto per l’occasione non è entrato neppure in classifica. Allora ecco che Ruggeri, che in passato ha cantato perfino alla festa di Fratelli d’Italia, ora entra nel jet set dei cantanti di sinistra insieme agli storici De Gregori Guccini Fossati Ligabue, ecc. Dove non poté la musica poté la politica.

 

SAGGEZZA



“Il contadino: colui che ha più cultura
in campo colturale”.
Nicolino Longo

MUSICA A VILLA SIMONETTA




lunedì 28 giugno 2021

VOX POPULI
di Romano Rinaldi

 
Rinaldi in dialogo con un Fiorentino amareggiato.  
 
A seguito dei miei interventi a sostegno di una attenta valutazione storico-artistica e rispettosa dell’assetto territoriale e geologico per il recupero dei monasteri di Costa San Giorgio a Firenze, apparsi su Odissea il 10 e il 23 Giugno e i tanti altri articoli di esperti ben più qualificati del sottoscritto, in materia di arte, architettura e storia cittadina, mi pare interessante riportare uno scambio che ho avuto sulla questione con un fiorentino vero, anche se non più residente. Una persona a me molto vicina e che rappresenta una fonte sicuramente attendibile (ma non rivelabile), col rilancio di una “vox populi” che merita attenzione anche per i connotati di sconforto e rassegnazione, in una parola il pessimismo che sembra ormai pervadere quanti hanno a cuore la città di Firenze, di fronte a certe scelte degli amministratori.
 
M. Oramai “Florentia” non è più la mia città da tempo ma ciò non significa che non le sia legato affettivamente. Già dalle ultime visite ho potuto constatare alcuni segnali allarmanti. Il mercatino di San Lorenzo con i suoi “Barrocci” è totalmente in mano a stranieri: africani, cinesi, sudamericani, est europei, così come molti vecchi negozi tipici e i prodotti in vendita sono di qualità scadente o contraffatti. Si sente sempre meno parlare “Fiorentino”. Di contro stanno fiorendo “atelier”, lussuosissimi, delle grandi marche: Armani, Gucci, Prada, ecc., negozi dove nessun fiorentino “normale” si può avvicinare per le compere. È vero quanto evidenziato negli articoli di Odissea, stanno plasmando Firenze per i turisti come fosse un grande resort a scapito dei fiorentini, delle tradizionali attività artigianali ed anche dell’arte e del paesaggio della città. Hanno persino snaturato delle normative di legge che fino a poco tempo fa salvaguardavano il centro storico per quanto concerne le ristrutturazioni. Prima su un edificio in centro non potevi neanche piantare un chiodo!
 
R. Infatti, è ora che qualcuno si svegli e si ribelli per la salvaguardia del bene comune. Che non significa proprietà del Comune (e la sua Giunta), nonostante la pensino a quel modo da troppo tempo ormai a Palazzo Vecchio e purtroppo in molti altri palazzi comunali d’Italia.
Gli amministratori dovranno rendersi conto, prima o poi, che sono al servizio dei cittadini e non viceversa e devono occuparsi del bene comune per rendere la vita della comunità che amministrano più consona e adatta alle esigenze della popolazione residente che li elegge di tanto in tanto. E soprattutto nel rispetto delle leggi di salvaguardia del territorio e dei suoi beni di cui tutti in Italia si fanno un gran vanto.
 
M. In merito al degrado “mentale” dei potenti di Palazzo Vecchio, mi viene in mente un episodio avvenuto un paio di decenni orsono. La pavimentazione di Piazza della Signoria e delle strade adiacenti, costituita da spesse lastre della tipica pietra-macigno, quando diventava troppo consumata dal calpestio veniva rinnovata dagli scalpellini che in loco, seduti a terra, ricostituivano le scanalature per ridare tenuta alle suole delle scarpe. In una occasione “i cervelloni” decisero che era più moderno e pratico scalzare le pietre e trattarle in luogo idoneo. Vennero quindi prelevate e sostituite temporaneamente con pietre nuove, squadrate a macchina, ricavate da una nota cava. Trascorso qualche tempo, anzi molto, venne deciso di ripristinare la pavimentazione originale. E qui la sorpresa; gran parte delle pietre originali (del ‘700) era sparita. Le solite malelingue dissero che qualche assessore si era rifatto il vialetto della villa in campagna o le aveva messe in giardino. La citazione in giudizio da parte del procuratore di Firenze di varie persone incaricate di controllare e dirigere le lavorazioni per quello che doveva essere un restauro conservativo e si rivelò invece essere la posa in opera di una copia, quindi di un falso, non portò, per quanto posso ricordare, alla identificazione certa dei responsabili né ad alcuna condanna anche se i colpevoli dovevano essere ben noti agli “addetti ai lavori”. Anche in quel caso, mi sembra di ricordare, l’autorizzazione per procedere alla sostituzione del lastricato originale con pietre “false” veniva dagli stessi soggetti che ne avrebbero dovuto tutelare la conservazione ed il restauro. Quindi, per concludere se già in tempi non sospetti (si fa per dire) è potuto accadere un fatto del genere, a dispetto dei cittadini oltre che del buon senso e delle norme vigenti, ora mi aspetto di tutto, anche che trasformino Palazzo Pitti in un mega albergo superlusso!
 
R. Scommetto però che ti piacerebbe molto il ripristino della legalità. Magari col ricorso al “restauro conservativo” della gogna.
 
M. Sì, sì, questa l’è una bella idea. E mi piacerebbe vedere le facce de’ holpevoli esposte ne’ ceppi tutt’attorno a Palazzo Vecchio!

 

SU COSTA SAN GIORGIO
di Maria Grazia Messina*


  

Parlo da non fiorentina, ma con una percezione delle cose e il coinvolgimento di chi ha vissuto per tanti anni a Firenze e soprattutto lavorato nella consapevolezza del suo patrimonio storico e culturale.
Ho aderito a questa azione di denuncia per tre ragioni di immediata evidenza. La zona interessata, la Costa San Giorgio, offre ai miei occhi la testimonianza più forte della qualità specifica del tessuto urbano di Firenze, l’integrazione fra città e colline, la vegetazione della campagna che col suo respiro si incunea e si amalgama ai muri della città. L’intervento edilizio prospettato, ben altro da riuso o riqualificazione, compromette tale straordinario equilibrio sia nella contingenza, per la complessa cantierizzazione prevista, sia, evidentemente nella lunga durata. Soprattutto, esso costituisce un ulteriore, insopportabile tassello in un processo avviato di esclusiva gentrificazione del centro storico, tutto a discapito della maggioranza della popolazione residente. Un centro storico vivo, con storia e carattere antropologico spiccati, si sta facendo vieppiù una sorta di parco ambientale, fra natura, storia, cultura, a sola fruizione dei cosiddetti happy few, fra shopping mall e hotel a 5 o 6 stelle, con il valore aggiunto di qualche cipresso o del Pontormo di Santa Felicita.
Tale processo andrebbe controllato e gestito con lucidità e perspicacia, il Resort a Costa San Giorgio ne è uno dei tanti esiti, di particolare aberrazione.

*già docente di Storia dell’Arte Contemporanea
all’Università di Firenze
 
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DONAZIONI IN VENDITA
di Vittorio Maschietto*

Veduta di Villa Basilewski
 
Come urbanista, ho sempre considerato Firenze “città bella” ed ho posto grande attenzione ogniqualvolta si è parlato di sviluppi contemporanei, in nome di adeguamenti alla qualità urbana, ma purtroppo si sono sacrificati settori e funzioni di spazio pubblico, usando come grimaldello le esigenze della modernità. Questo progetto rappresenta senza dubbio una dose insopportabile di arroganza dell’interesse privato contro il bene pubblico. La “città bella” è nata condivisa e partecipata, sempre comunicata, un’opera aperta, insomma. Oggi invece Firenze si presenta “chiusa per affari privati in corso”, fatemelo dire, e chi la chiude sono gli stessi che la devono governare in nome dell’interesse comune! Un’ultima cosa: la vendita di Villa Basilewski dalla Regione ad un privato rimette in crisi tutte le donazioni di chi ama Firenze e non potremo più contare su questa importante risorsa.

*Urbanista