NON CI SONO PIÙ I
LIBERALI DI UNA VOLTA di
Alfonso Gianni
Sulle tassazioni delle ricchezze. Risulta francamente stucchevole il gioco di tirare per la
giacchetta la buon’anima di Luigi Einaudi che sembra animare, si fa per dire,
il dibattito politico economico attorno alla questione della tassa di
successione, a partire dalla ormai famosa, quanto timida, proposta avanzata dal
nuovo leader del Pd Enrico Letta. Vi sono i favorevoli che vorrebbero
dimostrare che anche Luigi Einaudi, fosse vivo, sarebbe d’accordo. Non mancano
i contrari che allineano fior di citazioni che dimostrerebbero l’opposto e peraltro
non rendono affatto merito all’illustre economista italiano, nonché tra i
presidenti della nostra Repubblica. Tra questi ultimi si segnala Corrado Sforza Fogliani che
nella pagina dei Commenti del Sole24Ore del 17 giugno riesce a
scrivere: “Non è fatto comune il considerare già un eroismo quello di riuscire
a conservare la fortuna ereditata?” Non contento dell’enfasi posta
sull’ardimento dell’ereditiere, l’autore cita una sentenza della Corte
costituzionale italiana e con maggiore sottolineatura di quella tedesca che 25
anni fa asserì che l’imposta di successione “non può pertanto vanificare o
rendere nulli il senso e la funzione del diritto ereditario, lasciando che i
beni di proprietà di una persona possano andare perduti con la morte della
stessa”. Ma l’autore del predetto articolo dimentica di dire che
in Germania tale imposta si situa sul 30%, in Spagna sul 34%, nel regno Unito
sul 40%, in Francia sul 45%. Mentre in Italia siamo fermi ad un’aliquota del 4%
che colpisce eredità e donazioni superiori ai 5 milioni di euro. In questo modo
nel 2018 il gettito dell’imposta sulle successioni è stato in Italia pari a 820
milioni (lo 0,05% del Pil), mentre in Francia è stato di 14,3 miliardi (lo
0,61% del Pil), in Germania di 6,8 miliardi, nel Regno Unito di 5,9 miliardi,
in Spagna di 2,7 miliardi. Tra i 36 paesi Ocse solo 12 non prevedono imposte di
successione.
Benedetto Croce
Qualche giorno fa un rapporto
Istat ci fa sapere che nel 2020 la povertà
assoluta in Italia è tornata a crescere e ora riguarda oltre 5,6 milioni di persone contro i 4,6
milioni dell’anno prima, raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio
delle serie storiche). Se l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si
conferma più alta nel Mezzogiorno
(9,4%, da 8,6%), la crescita più ampia si registra nel Nord dove la povertà familiare sale al 7,6% dal 5,8% del 2019. Per classe di età, l’incidenza di povertà
assoluta raggiunge l’11,3% (oltre 1 milione 127mila individui) fra i giovani (18-34 anni); rimane su
un livello elevato, al 9,2%, anche per la classe di età 35-64 anni (oltre 2 milioni 394 mila individui), mentre si
mantiene su valori inferiori
alla media nazionale per gli over 65
(5,4%, oltre 742mila persone). Come si può ben vedere i giovani non se la spassano
affatto nel nostro paese e, lo riconosce anche l’Istat, se non fosse
intervenuto quello straccio di “reddito di cittadinanza” la situazione sarebbe
ancora peggiore. Dell’eroismo di questi nella gara per la sopravvivenza bisognerebbe
dunque parlare, non certo di quello dei giovani ereditieri. Il tema delle
diseguaglianze sociali e reddituali all’interno delle società mature è del
resto una costante di tutte le ricerche più avanzate in materia. Non a caso
Thomas Piketty chiede che venga ovunque introdotta non solo una congrua imposta
di successione ma anche di una tassazione patrimoniale annuale sulle grandi
fortune. L’una cosa non è affatto alternativa all’altra. Anzi si completano in
un’ottica di giustizia fiscale e sociale il cui primo compito dovrebbe essere
quello di ridurre - per carità non certo fare sparire d’incanto! - le enormi
diseguaglianze che si sono sviluppate particolarmente nelle ultime crisi
economiche-finanziarie e pandemiche- economiche. E questo, sia detto qui solo
per inciso, dovrebbe - ma non è così -essere il compito del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Luigi Einaudi
Ma torniamo pure al pensiero
liberale. Se non altro per dire che tra liberalismo e liberismo la differenza è
assai consistente, anche se oggi viene dimenticata. Ne scrisse Benedetto Croce
nel 1927 in un breve saggio dal titolo Liberismo
e Liberalismo, che fu oggetto di una critica esplicita da parte di Luigi
Einaudi. Quest’ultimo considerava una “barzelletta” una posizione come questa
che Croce affermava esplicitamente: “ben si potrà, con la più sincera e
vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici
dell’astratta economia classificano come socialistici, e, con paradosso di
espressione parlare finanche […] di un socialismo liberale”. Non pretendiamo di fare di Croce un comunista e neppure
un socialista. La storia ci smentirebbe. Ma almeno di sottolineare che un
pensiero fondato sulla difesa della libertà dell’individuo dovrebbe essere
contrario al fatto che la sorte del medesimo è in gran parte predeterminata
dalla famiglia e dal paese in cui nasce. E che il rivendicarlo non è mai un
atto di eroismo, ma di ottusa insensibilità sociale.