Giovanni Brambilla si svegliò di
buon umore. La giornata si annunciava magnifica: le fessure dell’avvolgibile –
che aveva l’abitudine di non serrare in modo fitto perché la luce del mattino
potesse filtrare nella stanza – annunciavano il giorno e lo spandevano a
strisce lungo i bordi della bella e soffice coperta di lana che l’anziana madre
gli aveva lasciato in eredità dopo la sua dipartita da questo mondo. Un mondo a
cui Giovanni Brambilla si era adattato senza particolari difficoltà, con quel
naturale cedimento, con quell’arrendevole adesione come fa la forma al suo
stampo. Scostò le lenzuola, mise le gambe fuori dal letto e cercò con ambedue i
piedi le ciabatte che trovò subito, a memoria, come tutte le mattine nonostante
la luce incerta. Le allineava diligentemente appena finiva di mettere in ordine
la stanza, ad un lato del letto, ad una spanna o poco più dal comodino, avendo
cura di essere quanto più preciso possibile. Questa consuetudine risaliva ad
una pratica costante ereditata dall’anziana madre con cui aveva da sempre
convissuto. Non aveva mai voluto prendere moglie, anche se più volte era stato
sollecitato dagli amici e dalla stessa amata madre, man mano che gli anni
passavano. I bisogni fisici li consumava in albergo, alberghi modesti ma
decorosi e puliti, ad intervalli accettabili di tempo e soprattutto non
dispendiosi, che gli permettessero di tenere a bada quegli stimoli che, con
singolare espressione, una rivista scientifica in cui si era imbattuto, aveva
definito “i morsi della carne”. Fece alcuni movimenti per stirare gli arti e
mettere in moto la carcassa, come amava dire per civetteria, e finalmente si
mosse verso la finestra per allungare la mano alla corda dell’avvolgibile. Aprì
e lasciò che assieme al fresco del mattino polveri sottili, gas e sostanze
inquinanti d’ogni sorta, di cui la sua bella città era doviziosamente
provvista, attraversassero le cavità nasali e si depositassero nei suoi tessuti
e nel suo sistema circolatorio. In bagno fece le abluzioni necessarie con il
prezioso liquido proveniente dall’acquedotto comunale arricchito di cloro,
glifosato, azoto, fosforo, diossina, metalli pesanti e altri residuati che la
civiltà industriale metteva a disposizione, e poi si spostò in cucina per la
colazione. Il bel pane bianco di farine super-raffinate il cui grano proveniva
da terreni concimati da fanghi tossici, scarti industriali fra i più singolari
e prodotti dalle attività umane più diversificate e fantasiose, fu affettato e
disposto su un magnifico vassoio di ceramica, materiale refrattario ad ogni
riciclo e a qualsiasi reimpiego. Svitò il tappo del barattolo pieno di
marmellata, ricavata da frutta con zero vitamine e debitamente trattata con
massicce dosi di antiparassitari e irrorata da pesticidi di diverse marche, e
la spalmò. Non erano le sole preziose e gustose sostanze presenti
nell’amalgama. Conservanti, coloranti, zuccheri, e quant’altro, concorrevano a
farne un ottimo preparato. Scaldò il bricco con il latte proveniente da
allevamenti intensivi, come la carne che mangiava abitualmente per il pasto di
mezzogiorno a cui l’impiego di antibiotici conferiva un magnifico aspetto, e lo
accompagnò con una manciata di biscotti. Li pucciava come fanno i bambini.
Erano biscotti ricchi di burro, grassi, agenti lievitanti, aromi,
deliziosamente friabili. L’avocado e il kiwi che sbucciò per dare all’alito la
giusta freschezza, provenivano dall’altro capo del mondo. Non erano a
chilometro zero e lui non se ne preoccupò. I boeing che li avevano trasportati,
avevano riversato nell’atmosfera la giusta dose di C02, e aiutato ad
incrementare il buco dell’ozono, il cambiamento climatico, le piogge acide,
così salutari per le foreste, il patrimonio boschivo, la fauna che vi risiede. I
serbatoi di questi giganteschi uccelli meccanici davano una mano anche per
affrettare lo scioglimento dei ghiacciai, come gli scarichi degli autoveicoli a
benzina, le caldaie delle case, i combustibili con cui la civiltà proseguiva il
suo inarrestabile progresso. Si rasò con cura, scelse l’abbinamento giusto dei
colori e si vestì. Avrebbe sfoggiato una cravatta a pois che avrebbe fatto ben
risaltare la camicia e conferito alla giacca la giusta importanza. In strada il
traffico era come ogni mattina sostenuto e l’odore del carburante combusto
prendeva al naso e alla gola. Trasse la mascherina dal taschino interno della
giacca e protesse le vie aeree per l’intero tragitto che lo conduceva
all’ufficio. L’ascensore lo depositò al sesto piano e finalmente poté
immergersi nel pieno del lavoro, tra pareti a vetri opachi e luci perennemente
accese. La pausa arrivò puntuale alle 10,30 e il locale con la macchinetta del
caffè, posta a piano terra, si affollò di colleghi d’ambo i sessi. In un
battibaleno il contenitore dei rifiuti traboccò di bicchierini di plastica e di
linguette, anch’esse di plastica, tanto utili per mescolare lo zucchero al
caffè. Erano il simbolo più vistoso e pervasivo di una civiltà che sulla
plastica aveva costruito la sua fortuna, e che sarebbe durata in eterno. Era
così familiare quel materiale, così onnipresente, che si era diffuso in ogni
dove. Persino dentro i corsi d’acqua, i mari, gli oceani. Si era con il tempo
corroso e divenuto così polverizzato questo materiale, da averlo rinvenuto nei
posti più insospettati.
A mezzogiorno, se non optava per la carne, anche per Giovanni
Brambilla era d’obbligo ordinare una spigola alle nanoparticelle, o una orata
al mercurio, e così avvenne anche quel giorno. La accompagnò con delle verdure
grigliate che il percolato aveva arricchito delle sue preziose sostanze. Non
rinunciò alla frutta e si fece servire una coppa di splendide albicocche
provenienti dalla Terra dei fuochi. In quelle salubri e ubertose distese, da
anni bruciavano pneumatici, vernici, lastre di amianto, pellami, batterie,
carcasse di autoveicoli, e tanta, tanta plastica di ogni foggia e consistenza. La
sera non cenò, preferì rimanere leggero. Non voleva essere costretto ad alzarsi
in piena notte e ingurgitare strani e dannosi intrugli per digerire. Avrebbe
smarrito il sonno e non si sarebbe più appisolato. Era sicuro che la quantità
di metalli pesanti che aveva assorbito durante l’intera giornata, lo avrebbe
tenuto sazio fino al mattino, e si tranquillizzò. Si avviò direttamente alla
camera da letto e prima di infilarsi sotto le coperte, rivolse lo sguardo
commosso alla cornice che racchiudeva la foto di sua madre. L’aveva sistemata
lì di fronte sul comò, perché fosse il primo sguardo del mattino e l’ultimo per
terminare sereno la giornata. Gli era più facile poi spegnere la luce e
chiudere gli occhi per lasciarsi scivolare nell’oblio.