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venerdì 25 giugno 2021

VOGLIA DI PARTIRE 
di Maria Castiglioni


Alla Libreria delle Donne, 12 giugno 2021 di Gabriella Galzio.
 
  
Questo di Gabriella Galzio è un libro che definirei delicato, a cui occorre accostarsi con una certa finezza di ascolto e di animo, in quanto di animo o meglio di anima si tratta, propriamente di un viaggio dell'anima.
Lo dice bene l’ex ergo del libro con il detto Tuareg: quando arrivi, siediti e aspetta che l’anima ti raggiunga. È questo un tema ricorsivo nelle culture popolari: anche tra gli Incas del Sud America v’è questa attenzione ai tempi dell’anima che, racconta la tradizione, loro si fermano ad “aspettare” dopo le lunghe traversate delle Ande. Lo ricorda don Gino Rigoldi nel suo libro di meditazioni per la Pasqua, intitolato appunto Aspettando l’anima (Ed. Paoline, 1999). E Pasqua, pesah in ebraico, significa passaggio.
Questo di Gabriella è infatti un libro, “un romanzo di iniziazione dell’anima” (pag.42), di tanti passaggi interiori, dove ogni viaggio diventa un “passaggio”, di maturazione interiore, di avanzamento nella scoperta di sé, attraverso la rivisitazione del proprio passato, un passato ripercorso, paradossalmente,  attraverso la sua amnesia, la sua provvisoria dimenticanza. Ma andiamo con ordine.
Una donna e la sua anima, una donna e il suo viaggio interiore.
Anche nel libro “La potenza delle donne” di Paola Leonardi, presentato qui alla Libreria delle Donne la scorsa settimana, si narra di un percorso iniziatico dove l’accento, trattandosi di una rivisitazione autobiografica della vicenda storica del femminismo, è posto sulla dimensione intersoggettiva, mentre qui  l’accentuazione è posta sulla dimensione intra-soggettiva.
Quindi un confronto/dialogo che raggiunge anche i toni della sfida tra sé e sé: il primo passaggio ineliminabile e necessario per mettere in campo quella “voglia di partire”, che tanto spesso ci assale sotto forma della classica fantasia “mollo tutto e me ne vado”. Partire è innanzitutto - lo abbiamo scoperto col femminismo - un partire da sé, ma un sé bisogna pur averlo, ma adesso tra identità fluide, attraversamenti, riposizionamenti, ecc., finisce che non si sa più di che cosa si parla quando si dice Io o, nell’accezione che ne dà Jung, la sua forma psichica più estesa, il Sé, per l’appunto.
Quindi ricostruzione di un Sé è il tema di questo viaggio che si snoda attraverso tappe interiori che si raggiungono sostando e attraversando certi luoghi precisi, a cui Gabriella attribuisce una sua personalissima  connotazione simbolica, veri e propri  topoi dell'anima, dove qualcosa di trasformativo è accaduto.


Gabriella Galzio
(Archivio Odissea)

Tutti abbiamo i nostri topoi e sappiamo quanto questi influenzino e costituiscano uno degli elementi fondamentali, insieme a Logos, Ethos, Etnos e Genos (come insegna la Psicologia Transculturale) della nostra personalità. E sappiamo anche come i luoghi possano essere terapeutici, come possano essere, o diventare, luoghi che curano come recita il titolo di un recente libro di Paolo Inghilleri (I luoghi che curano, Ed. Cortina, 2021).
Dicevo del punto di partenza, della ricerca del Sé, come orizzonte espansivo dell’Io. A questo proposito così scrive Gabriella: “Sentivo di dover vivere quell’esperienza di temporanea latenza dell’Io che in molte culture c. d. primitive è considerata un momento psichico necessario alla formazione della personalità.
La cultura occidentale non basta più (lo “strappo necessario”), lo psicanalista lo si lascia (dopo aver pagato le sedute concordate ma che non si faranno) e il viaggio ha inizio, alla ricerca  di quella “dinamica archetipica interna” che Gabriella  connota subito come femminile, ispirata cioè al culto della fertilità, da lei rivisitato nell'accezione che ne dà Heider Gottner Abendroth, studiosa delle società matriarcali, e cioè come mysterium ciclico della vita, della morte e della rigenerazione. Gabriella parte, guidata da un sogno (il Sé che si rivela oniricamente) dove compare una tartaruga cosmofora (creatura fortemente simbolica in tutte le culture, specialmente greca e indiana) che punta verso il Mediterraneo orientale per poi riversarsi sul ripiano del tavolino di casa, proprio lì dove Gabriella incomincia ad ammonticchiare i libri per il viaggio, in uno stato di “beatitudine aurorale”.


Gabriella Galzio
(Archivio Odissea)

E il viaggio comincia, letterariamente, da un espediente, un classico della letteratura romanzesca: il ritrovamento di un giornale in una valigia, dove compare una lettera rivolta ai lettori, vero viatico a tutto ciò che seguirà dopo.
E sarà un viaggio salvifico se si pensa da dove la viaggiatrice era partita e che cosa aveva scelto di lasciare, quella nostra normalità “esserci, produrre, vendere” avvertita come un progressivo sfilacciarsi delle radici, come un suicidio, dove “si può invecchiare rimanendo larve”, avvizzendo e rimpiangendo.
La ricerca della propria autenticità comporta pagare un prezzo: vivere in uno stato apolide, di non appropriatezza per ricercare la propria verità in attesa che venga ciò che Gabriella definisce come: “il tempo della mia civiltà, della mia polis. Vero e proprio “ritorno a se stessi” (c’era un libro intitolato così di Guido Cavani, del 1960), questo viaggio inizia a ritroso - come intitola Gabriella i numerosi  piccoli capitoli che costituiscono le tre parti in cui il libro è articolato - ad indicare che non c’è nessuna vera partenza senza una preventiva discesa (la morte, prima tappa del Mysterium, o la nigredo dell’opera alchemica) dove si incontra quel “muro di impotenza”, più invisibile di quello di Berlino, (la prima, simbolica tappa) ma non meno duro e possente, che anche a noi tocca sfondare, andando oltre le “estetizzanti soluzioni di una Milano da bere  e la triste obsolescenza di certi riecheggiamenti della sinistra”.
Il cuore è gettato oltre il muro, il vero viaggio a ritroso ora può partire e sarà dispensatore di una ricchezza di emozioni, sensazioni, pensieri, evoluzioni.
La prima emozione inaugurale è il viaggio in kajak, sulle coste della Normandia, tra flutti e banchi di scogli frastagliati, cercando di evitare intrighi di alghe che afferrano la pagaia e rallentano l’andare. L’acqua tumultuosa, la lotta per avanzare, si profila l’albedo, la seconda trasformazione alchemica, che preannuncia l’incontro con la parte femminile di sé, quella annegata nel “folto esercito di giacche e cravatte” del lavoro alienante ormai alle spalle.
Tappa dopo tappa, Gabriella sente che guadagna “sicurezza e territorio”, come nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria a Galatina, o nella passeggiata di Gallipoli, dove provare “lo sconfinamento, l’assenza di limiti, lo spazio”.
In nave, sul canale di Sicilia, annota: “Da sola. Io e il mondo... le donne hanno paura di tutto, per fortuna sempre di meno.... E per dimostrare a sé stessa che la paura l’ha vinta, a Cala Pozzolana, rimane dentro il fondo del cratere, lasciandosi attraversare dalla paura, e uscendone più forte, una “fierezza senza oltraggio”, anche di fronte agli uomini.


G. Galzio
nel suo Salotto letterario

Fuori dal tunnel della paura c’è l’incontro con Afrodite, figura della bellezza.
Com’è possibile, si chiede Gabriella, che le donne siano state così alienate dalla bellezza, irretite dal corpo palestrato, salutista, medicalizzato, in una parola internato nella gabbia dei significanti maschili?
Ed ecco l’immersione negli hammam, negli harem, luoghi inviolabili di donne, che affondano la loro origine in epoca matrilineare, luoghi del corpo collettivo, madre corale a cui fare ritorno per rintracciare quella “fanciulla della razza nuova” di cui Gabriella ci parla nel suo testo poetico “La discesa alle Madri”, scritto 10 anni fa. Solo da qui, da questa nuova signoria che “smaesta” la mente occidentale e si ricongiunge a un coro di donne, di braccia salde in comunione (“orizzonte di genere” l’ha definito Luce Irigaray), è possibile procedere verso le “nozze sacre con l’uomo, che finalmente ricompongono la scissione dell'eros dal sacro, avvenuta con la patriarcalizzazione”. E qui si chiude anche la terza fase alchemica, la rubedo, con la rinnovata, auspicata ricongiunzione di maschile e femminile.
L’approdo del viaggio è anche il suo punto di partenza, Milano, piazza XXIV Maggio, il molo delle partenze dove l’acquisizione interiore del viaggio, la sovranità, si confronta ancora una volta con il vuoto per concludere, con una di quelle enunciazioni fulminanti che ci sorprendono fin dalle prime pagine, che “Reggere il vuoto è reggere questa sovranità”.
E l’invito con cui Gabriella si congeda, nella illuminante poesia del finale, è, voltairianamente, quello di coltivare segretamente il proprio giardino e di accogliere l’anima che viene a visitarci, l’anima che anima il mondo, la mistica Anima Mundi, perché si possa transitare (un’immagine che mi piace molto) dal giardino segreto alla città giardino.  
Per concludere una notazione sulla scrittura. Come avrete notato dalle numerose citazioni è, la scrittura di Gabriella, ottocentescamente descrittiva (un’attenzione quasi caduta in disuso con la civiltà dell’immagine), ma anche sensitiva, lucida e intuitiva, analitica e densa: procede per affreschi sempre più ariosi, luminosi, cangianti, come nella descrizione della sua salita alla montagna dorata di Linosa, “un piede scettico, l'altro rapito, che sta ad  indicare sia la misura della sua ricerca stilistica, sia l’alternarsi tra discese e risalite nel movimento di un eterno ritorno che non si avviluppa su sé stesso, ma si espande via via ed è cifra  dell’intero libro, fino al disvelamento finale (che dà conto dell’amnesia iniziale) e che lasciamo a voi scoprire.