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venerdì 30 luglio 2021

FENOMENOLOGIA DEL POLITICO CON LO ZAINETTO
di Paolo Vincenti

 
Non so ancora chi voterò alle prossime elezioni politiche, ma so per certo chi non voterò. Non voterò mai il politico con lo zainetto. Non si possono vedere questi neo deputati e neo senatori fedeli adepti del nuovismo, reduci del renzismo, del grillismo, e insomma di tutti gli “ismi” che infestano la società italiana, questi emergenti che la riffa della fortuna ha portato agli onori, ma la inarrestabile ruota porterà presto agli oneri della piccola storia, insomma questi recordmen dell’attivismo, che girano in bicicletta per le strade di Roma.Ricordo che, quand’ero al Liceo, il professore di filosofia veniva a scuola la mattina pedalando allegramente. Oggi molti docenti lo fanno, ma a quel tempo non era ancora consueto. Così il prof destava le battute salaci e le risa di scherno di noi ragazzi impudenti perché ritenevamo in qualche modo poco consono, all’alto ruolo, il mezzo usato. Sbagliavamo naturalmente. Si sa che a quell’età qualsiasi pretesto è buono per metterla in berta e burletta. Però, un deputato o un senatore che, occhiali da sole, zainetto in spalla, entra in bicicletta al Parlamento, no! Dove sono finite le vituperate auto blu? Eppure (ricordate: “venghino signori venghino!”?), l’ “asta tosta” di Renzi “Teomondo Scrofalo” qualche anno fa è andata quasi deserta. Dice, sono stati votati proprio perché scardinano le regole, rompono con il passato, hanno il favore della gente. Va bene, ma io ripenso che la fortuna è una corsara e il popolo oggi insegue, domani persegue. Infatti, non voglio essere profeta di sventura, ma già molto sta succedendo. Poi detesto il politico che cinguetta tutto il giorno. Passi se abbaia, ruggisce, grugnisce, ma cinguettare no! Il mio politico deve parlare dalla televisione o dalla radio, scrivere sul giornale, comiziare nelle piazze, ma lasci la gestione dei new media al suo staff, se ne ha uno. Inoltre, non voterò mai il politico che inizia i suoi discorsi dicendo: “care elettrici e cari elettori”. Questo è un punto fermo per me. 



Ruffiani, farisei, si sente lontano un miglio l’odore smielato della moina, dell’affettazione. Basta con queste ipocrisie linguistiche per accattivarsi il favore dell’elettorato femminile. Questa prassi, di anteporre il genere femminile a quello maschile, è ormai dilagante, in tutte le cariche pubbliche e a tutti i livelli. Ho sentito addirittura un amministratore di condominio che iniziava la riunione esordendo con: “care condomine e cari condomini”. I politici 2.0, ancor più le donne che gli uomini, esprimono la volontà di rompere gli schemi persino nell’abbigliamento, sfidando le regole sul decoro imposte da certi luoghi istituzionali come le Camere. Il loro ribellismo di facciata vorrebbe lisciare il pelo all’arrabbiatura della gente (la quale è incazzata per ben più drammatiche evidenze), e non infrange il luogo comune, ma anzi finisce con l’onorare quel santuario della convenzione borghese che vorrebbe demolire. Entrare in jeans in Parlamento o indossando magliette con improbabili scritte non è da ribelli, è da scemi. Chi scrive avrà indossato giacca e cravatta, che detesta, due, tre volte in tutta la vita, ma est modus in rebus, ed è una questione di rispetto per i poveri sarti che cuciono gli abiti “che fanno il monaco”, i quali rischiano di restare senza lavoro. Diversamente dal governante lezioso e politically correct, ma parimenti detestabile, è il politico rissoso, volgare, che espone cartelli infamanti e triviali nelle aule parlamentari, mima con gesti osceni l’atto o gli organi sessuali, si azzuffa e si picchia a sangue, scatena risse, pestaggi e “sceneggiate napoletane”, sotto gli occhi vitrei delle telecamere, dei commessi parlamentari e degli studenti in gita scolastica (per questi ultimi credo ormai che il Parlamento sia una delle mete più gettonate: ci vanno con più entusiasmo che allo zoo o al circo, perché lo spettacolo offerto dagli onorevoli babbuini e bertucce è  di gran lunga più esilarante). Ma il politico che non sia una macchietta, un personaggio da avanspettacolo, dovrebbe saper dominare le passioni, vincere la rabbia per gli insulti ricevuti da qualche scalmanato collega e mantenere un certo contegno. Non deve far comandare il cuore, insomma, ma la ragione. Non mi piace quello che, passando da una carica ad un’altra superiore, è vendicativo. Come dice B. Gracian, scrittore spagnolo del Seicento, il politico dovrebbe essere come Luigi XII di Francia che Gracian porta a paradigma della gentilezza della nobiltà francese. Infatti quello, che da duca era stato molto ingiuriato, una volta divenuto re, trasformò la vendetta in generosità, affermando “il re di Francia non vendica le offese fatte al duca D’Orleans!”: ma vai a spiegare questo grande detto ai nostri piccoli e rancorosi politici. Non mi piace il politico che è innamorato del suo ruolo di oppositore e spara a zero sul sistema di cui pure fa parte. C’è chi si trova talmente a proprio agio, come censore e moralizzatore, che sguazza nel putridume, pur di continuare a svolgere quel compito, vede sempre il male anche nel bene e se proprio non riesce a trovar motivo di concionare, leticare, è capace di inventare e di gabellare una buona azione per qualcosa di squallido e oscuro, pur di fare il Momo maledico e irriverente. Ma anche in questo caso, la puzza di affettazione si sente lontano un miglio. Non si può perdonare il politico che ruba su un appalto milionario, peggio se l’appalto riguarda la Sanità, ma non si può nemmeno perdonare quello che fa la cresta sugli scontrini del ristorante. Come può un politicuccio micragnoso governare una città, una regione o la nazione? 



Il buon politico deve pensare alla grande e agire di conseguenza.  Ecco, bisogna riconoscere che il vituperato Renzi, con la sua demagogica e autodistruttiva operazione di rottamazione, ha contribuito a svecchiare la politica italiana. Oggi la classe dirigente è costituita da gente mediamente più giovane anagraficamente. Ad un certo punto, è sembrato davvero che alla strategia di Renzi perfettamente si attagliasse quanto il suo illustre concittadino Machiavelli scriveva nel “Principe”, a proposito della Fortuna: “perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano”. Ma il Botero, nei suoi Detti memorabili, attribuisce al Marchese di Marignano, cioè Giovanni de’ Medici, questa frase: “alcuni, scottati si dolgono che le manchi in costanza quel che ha troppo in femminilità… non solo ha l’instabilità della donna, ma la leggerezza della giovinetta nel mostrarsi benigna ai giovani”. In effetti Renzi è esemplarmente restato vittima della Fortuna. Quel che voglio dire è che oggi il fattore anagrafico è diventato un alibi che serve a coprire inadempienze, deficienze. “Stanno sbagliando, sì però sono bravi, solo hanno poca esperienza”.  Detesto questo giovanilismo che finisce ad impillaccherare serietà, competenza, studio, rigore di alcuni statisti del passato (anche se pochi) davvero degni di questo nome. Dice: “preferisco che siano giovani e belli, se proprio devo farmi prendere per il culo!” Eh no, il mio orgoglio si ribella! Io, se proprio devo esser gabbato, preferisco farmi turlupinare da un sessantenne, settantenne, che ne sappia molto più di me, piuttosto che da quattro mocciosi rampanti.
 

ESISTE UNA QUESTIONE DEMOCRATICA A FIRENZE? 

 
Lo chiede a Enrico Letta un’associazione indipendente fiorentina, lamentando la gestione Nardella della città Unesco.
 
Lo aveva scritto su “Odissea” l’ex senatore Pancho Pardi nel messaggio inviato alle autorità politiche cittadine, a proposito della variante urbanistica iperturistica in piena area Unesco, in Costa San Giorgio, definita “scelta irresponsabile” e accompagnata da quella che è apparsa “la più ipocrita negazione delle esigenze partecipative”. Infatti, “la partecipazione, inutilmente formalizzata con legge regionale, va bene solo se è rigorosamente finta. Costruita ad hoc con interlocutori compiacenti, come i commensali manzoniani che si limitavano ad annuire”.
Tre settimane fa, il 6 luglio, l’associazione ecologista Idra proprio questo tema aveva sottoposto all’attenzione del segretario nazionale (Enrico Letta) dello stesso partito al quale appartiene il sindaco (Dario Nardella) che guida la giunta di Palazzo Vecchio. Oggetto della missiva, una “richiesta di verifica del tasso di democraticità nel comportamento del Sindaco di Firenze Dario Nardella”.
“Desideriamo segnalarLe - così il presidente di Idra Girolamo Dell’Olio nella nota inviata a Enrico Letta - un’apparente anomalia nel comportamento del sindaco di Firenze Dario Nardella, e della sua Giunta, se raffrontato all’accezione che generalmente si attribuisce al termine ‘democratico’, parte integrante del nome del partito di cui Ella è segretario”.


Letta e Nardella

Nella lettera si documenta la vicenda urbanistica che interessa un quadrante prezioso del Centro storico Unesco di Firenze. In particolare, l’infelice avallo accordato all’ennesima variante turistico-ricettiva (all’86%) proprio a ridosso dell’area ambientale e monumentale più estesa e fragile della città, quella compresa fra Palazzo Pitti, il Giardino di Boboli e Forte Belvedere.
“Non è il merito della questione che desideriamo qui sottoporre alla Sua attenzione”, precisa però Dell’Olio a Letta. “Ciò che preoccupa è il metodo con cui il Sindaco di Firenze si rapporta (o, per meglio dire, non si rapporta) con la popolazione residente (e sempre più residuale!) nel momento in cui essa esprime in via formale, attraverso il deposito di centinaia di firme raccolte ai sensi di una Legge regionale, e dunque accompagnate dalla pubblicità dei dati personali, un’istanza di riflessione, di discussione, di dibattito, di confronto. Non sono bastate 677 firme di residenti nel quartiere Oltrarno a convincere il Sindaco Democratico di Firenze dell’opportunità di accogliere la richiesta quanto meno di un momento di incontro, di rispondere in prima persona – o per interposto Assessore – all’istanza di dialogo che proviene dalla cittadinanza. Non sono bastate 7 richieste di contatto trasmesse alla Giunta a nome di questa porzione di popolazione attiva. Non sono bastate oltre 600 adesioni di intellettuali e liberi cittadini a un manifesto che sobriamente ribadisce la richiesta di aprire un dibattito pubblico. Non è bastata una fitta maratona oratoria civile svoltasi il 28 maggio scorso sotto la casa del governo della città, Palazzo Vecchio, da allora progressivamente arricchitasi di contenuti. Non sono bastate 14 precedenti lettere [ma nel frattempo è stata recapitata ieri in giunta la ventiduesima, ndr] accompagnate da importanti pareri formulati da esponenti anche di alto rango della cultura locale e nazionale”.
Sulla scorta della circostanziata documentazione di “questo lungo e deprimente tentativo di contatto”, scrive Idra al segretario nazionale del PD, “Ella potrà agevolmente apprezzare lo spessore della delusione civile che vive necessariamente una parte della città in relazione a questo episodio, non isolato peraltro, di modalità discutibile di amministrazione della cosa pubblica. Le chiediamo in particolare se Ella ritiene che appartenga alla deontologia di una forza politica che al proprio nome associa un’aggettivazione così importante la possibilità di annoverare fra quelle coerenti con la propria ‘ragione sociale’ pratiche simili di governo e di relazione con la popolazione. Confidiamo di poter essere messi al corrente degli esiti della verifica che qui Le chiediamo cortesemente e rispettosamente di operare”.
Ad oggi, nessun riscontro. Vani i tentativi di contatto con qualcuno in grado di dare informazioni al riguardo presso la sede nazionale romana del PD in Via Sant'Andrea delle Fratte: referenti in ferie, o addirittura un disco fisso che chiede di richiamare.
Idra - Firenze

IL PENSIERO DEL GIORNO



“A volte, è nella più semplice persona
che si trova la complicazione in persona”.
Nicolino Longo

giovedì 29 luglio 2021

GIUSTIZIA. LA CONTRORIFORMA
di Nicola Gratteri


Nicola Gratteri

Il pensiero del giudice Gratteri (e di una marea di cittadini italiani, compresa la nostra) sulla proposta del processo penale.
 
La proposta di riforma del processo penale recentemente approvata dal Consiglio dei Ministri, come ho già detto e nuovamente ribadisco, non avrà né l’effetto di ridurre i tempi della giustizia, né riuscirà a risolvere le criticità collegate alla qualità dell’attività giurisdizionale.
Gli effetti saranno esattamente contrari a quelli che sulla carta si vogliono raggiungere.
Andiamo per ordine. Uno dei punti qualificanti della Riforma Cartabia è l’improcedibilità dell’azione penale, che prevede l’annullamento della sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi precedenti (art. 14 bis del progetto di riforma) trascorsi rispettivamente due anni o un anno nell’ambito del giudizio di appello o di Cassazione. 
Si tratta di una disposizione che avrà come effetto solo quello di spazzare via un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta anche sul piano general preventivo e di sicurezza per i cittadini di questo paese. Il motivo è molto semplice: con questa riforma, a tutti, nessuno escluso, converrà presentare appello e poi ricorso in cassazione non fosse altro per dare più lavoro, ingolfare ulteriormente la macchina della giustizia e giungere così alla improcedibilità.
Pertanto, diversamente da come affermato da chi sostiene questa riforma, non solo centinaia di sentenze andranno al macero, ma ci sarà un aumento smisurato di appelli e ricorsi in cassazione.
A questa visibile e certa conseguenza nessuno, e ribadisco nessuno, ha detto come si potrà porre rimedio. 
Peraltro, come ben detto dalla ANM di Catanzaro, questa riforma avrà l’effetto di vanificare le risorse umane ed economiche investite fino a quel momento, oltreché a frustrare le legittime aspettative di giustizia dei cittadini, con pesanti ricadute - in termini di credibilità del sistema-giustizia e di diffusa  impunità-responsabilità che non derivano certo dalla improduttività del personale giudiziario amministrativo e delle forze dell’ordine nonostante le ormai note carenze di organico; con evidente e concreto pregiudizio del diritto dei cittadini di essere giudicati in modo  corretto.
Ma non è tutto. Ci saranno una diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancora di più conviene delinquere, e un annullamento della qualità del lavoro. Fissare una tagliola con un termine così ristretto, senza neanche tenere conto della recente modifica dell’art. 603 c.p.p. e della ricorrente necessità di rinnovazione dell’istruzione in appello, vuol dire non assicurare che tutto venga adeguatamente analizzato con la dovuta attenzione.
Nessuna spiegazione, peraltro, trova una previsione di tal specie che prescinda totalmente sia dal momento in cui è stata emessa la sentenza di primo grado sia dal momento di commissione del reato.


Marta Cartabia

Ma molte altre sono le proposte che preoccupano di questo disegno di legge, quale ad esempio la previsione di meccanismi procedurali che consentirebbero all’indagato e alla p.o. di venire a conoscenza degli atti relativi alle indagini preliminari - scaduto il termine entro il quale il Pubblico Ministero debba determinarsi in ordine all’azione - che non tenendo conto della complessità delle attività investigative avrebbe l’effetto di frustrare l’ulteriore corso del procedimento.
Ma ciò che veramente desta maggiore preoccupazione è che non sono state prese in considerazione ben altre possibilità che, invece, porterebbero ad una effettiva velocizzazione dell’attività, anche a costo zero. Infatti, se da un lato non si può più prescindere dalla necessità di risolvere il problema della carenza di organico dei magistrati e del personale amministrativo, intervento che certamente richiede un impegno economico, o quello, egualmente non più rinviabile, di una rivisitazione della geografia giudiziaria così non è per molte altre possibilità.
Faccio qualche esempio. Depenalizzare ipotesi di reato cd. bagatellari, per i quali forse è più adeguata una sanzione amministrativa, piuttosto che quella penale; un effettivo e reale potenziamento dei riti alternativi, che invece sono del tutto disincentivati dalla previsione della cd. “improcedibilità” e, soprattutto, una imponente modifica del sistema delle impugnazioni.
È possibile eliminare il divieto di reformatio in peius; è possibile aumentare le ipotesi di inammissibilità degli appelli, laddove manifestatamente pretestuosi; è possibile escludere alcune ipotesi di appello; è possibile, ancora, introdurre un appello a critica vincolata.
A queste proposte ne potrei aggiungere tante altre tutte tese ad una effettiva velocizzazione del processo, ma lasciare inalterato il sistema delle impugnazioni (in appello e poi in cassazione), per poi “fissare” un termine tagliola, non produce velocizzazione dei processi, semplicemente “taglia” il numero dei processi.
Un’ultima cosa, infine, mi pare necessario chiarire. Come è stato rilevato da acuti commentatori alla base della riforma vi è evidentemente l’idea secondo cui il tempo eccessivo attualmente impiegato per la celebrazione dei giudizi di appello e di Cassazione sia correlato alla scarsa produttività dei magistrati. Questo dato di partenza non solo è errato, visto che tutte le statistiche elaborate da commissioni internazionali ed indipendenti sulla giustizia, attestano che i magistrati italiani, anche quelli dei gradi superiori, sono i più produttivi di Europa, ossia quelli che concludono più procedimenti e scrivono più sentenze e proprio la reazione della “categoria” dimostra quanto affermo.
Per i giudici di appello, e ancor di più per quelli in cassazione, sarebbe molto più semplice chiudere i processi con una “improcedibilità”, piuttosto che scrivere una sentenza di svariate pagine. I magistrati quindi, sia ben chiaro, non hanno nessun tipo di privilegio da difendere nell’opporsi a questa riforma, è il senso di “ingiustizia” che ci spinge ad agire
.

TRA LA FOLLA E IL POPOLO
di Franco Astengo

 
"Ora abbiamo non solo la difesa primaria del posto di lavoro dai licenziamenti avvenuti e minacciati, ma la volontà di ritessere una tela strappata. Un fatto nuovo, che ha il profumo dell’antico, quando quelli che erano considerati gli ultimi sapevano legare attorno a sé le forze più vive della società. E creare un popolo."
Alfonso Gianni conclude con questa bellissima frase un suo "commento" apparso online sul "Lunedì Rosso" del Manifesto.
"Creare un popolo" però, aggiungiamo, con un punto interrogativo.
Siamo stretti, infatti, tra il "popolo" e la "folla". Il "popolo" sa di poter lottare per una causa precisa: quello di difendere la classe dalle ingiustizie, sommamente da quelle imposte dalle logiche imperanti del profitto in tempi come questi di incapacità di porre freno alle disuguaglianze con un "Capitale" (sempre più impersonale e inafferrabile) che punta alla guerra tra i poveri come arma per riaffermare il proprio dominio. La folla invece indistintamente, protesta contro il destino che ci costringe a vivere in un modo diverso da quello che giustamente Marco Revelli ha definito "il diritto al proprio personale capriccio".
Dobbiamo essere consapevoli che la destra sta mordendo per riuscire a tenere assieme "popolo" e "folla" e farne genericamente "la gente" come piedistallo per correre pericolose avventure.
Nel 1945, al primo consiglio nazionale del PCI nell'Italia riunificata del 25 aprile, Longo disse " al Nord il partito è una "folla". Ebbene fu la capacità di introdurre pedagogia di massa e mediazione politica che fece in modo, tra enormi contraddizioni e difficoltà immense, si riuscisse a creare un popolo. Così fu introdotto nella "nostra" cultura politica il Gramsci del "Principe", delle "casematte", dell'egemonia, dell'intellettuale organico. La via difficile dello studio da coniugare all'agire politico.
L'invito allora, in questo momento così complicato, è quello di ritrovare una soggettività che sappia unire lettura delle contraddizioni sociali, cultura, prospettiva politica per contribuire studiando e agendo a ricostruire un popolo.

 

FESTINA LENTE
di Paolo Vincenti

 
Evviva! Finalmente, il “Frecciarossa” anche a Lecce. Ora si può arrivare a Milano in sei ore e mezzo rispetto alle nove che ci impiega mediamente il Frecciabianca e alle tredici dell’Espresso. Oh, miracoli della modernità, meravigliosa macchina del progresso che corre inarrestabile, oh, forza del riscatto meridionale! E che, forse eravamo da meno rispetto a Bari?  Gnornò. Adesso anche noi potremo sfrecciare rossi verso la grande “Milàn”, dove il successo ci attende, anche noi potremo fare un sacco di “sghei”. Avanti così, la prossima battaglia sarà per avere un secondo aeroporto in provincia di Lecce, perché Brindisi è troppo distante per chi parte da Leuca. Vero che la statale 275 finalmente a quattro corsie aiuterà ad accorciare i tempi, ma non è possibile che gli abitanti del tacco d’Italia debbano sempre pagare lo scotto di essere Finis terrae. L’alta velocità ci collegherà col resto d’Europa. Basta con la vecchia storia dell’Italia a due tempi, il gap fra il nord e il sud del Paese sarà finalmente colmato.  Velocità: è l’imperativo categorico di questo nostro oggi. La rapidità è madre della buona sorte.  Se ancora conta meditare a lungo, non è però perdonabile indugiare quando si passa all’azione. Occorre sveltezza, prontezza di riflessi, sicurezza, animo, ci vuole ardire. Meglio una riforma pasticciata che nessuna riforma, come gli ultimi governi succedutisi hanno dimostrato. Quel che conta è fare le cose, con un occhio al consenso elettorale. Una rapida decisione ed una ancora più rapida esecuzione meritano l’applauso, molto di più di una decisione lungamente sofferta. Anche se ragionare a lungo porterebbe quasi sicuramente un utile divisamento, un felice esito, e bruciare le tappe, adottare repentine risoluzioni, invece, potrebbe portare ad un esito mediocre, far esporre al fallimento, tuttavia sempre meglio non sprecare il tempo, perché il rischio, riserbandolo, che passi infruttuoso, oggi come oggi, è fumo negli occhi per tutti.  Si vorrebbe sostituire al “Veni vidi vici” di Cesare, il “vici veni vidi” degli attuali governanti. Via allora, più veloce della luce, ecco che sfrecciano tutti i supermen della modernità, i Sisifi del fare, i mercuriali businessmen europei, gli sprinter del nuovo che avanza, i promotori della rivoluzione 4.0. E chi ricorda il motto “Festina lente”, cioè “affrettati adagio”, che Svetonio attribuisce all’Imperatore Augusto, oppure “adelante con juicio”, cioè “avanti con prudenza”, dai manzoniani “Promessi Sposi”, o è un vecchio trombone, oppure un brontosauro nostalgico e romantico, un sognatore che pensa troppo e sbaglia tutto.  Su un vecchio numero di “Repubblica Cultura” compariva una bella intervista di Fabio Gambaro all’antropologo Marc Augè, “Elogio della lentezza ai tavoli di un bistrot”, in cui l’autore francese parla della bellezza dei bistrot parigini come luoghi di incontro, in cui intrecciare relazioni sociali, leggere un libro, scrivere o semplicemente osservare lo spettacolo umano della gente che vi passa, potendosi permettere il lusso di prendersi il tempo che si vuole, di non avere fretta.  Ma che a nessuno salti in mente di condividere la posizione di Augè. Rischierebbe di passare per brontosauro.
 

La poesia
SFOGLIANDO IL GIORNALE

 

Parole dissonanze
parole come vespe contro il vetro del nulla
ride la morte
dietro la pubblicità
calpestate le stelle
in cieli di sangue
veleno nei ruscelli
guerre sulle vette immacolate
nei mari
morti assassinati
orrore di un mondo mefitico
ove vengono stuprati
angeli bambini
persino su Internet.
Sono solo una povera vecchia
ma che ci sono venuta a fare qui?

Luciana Vitale

                                                                                                  

mercoledì 28 luglio 2021

LA DESTRA ILLIBERALE È PERICOLOSA
di Vincenzo Rizzuto



Ancora una volta la Destra illiberale in Italia procura sull’intero corpo sociale guasti, ritardi e sventure con la sua ignoranza, rozzezza e populismo, con cui organizza sulle piazze crociate anche contro il vaccino, così come si faceva nel ‘600, contro la peste, dando la caccia ai presunti untori. Ma le sfilate dei no-vax di oggi, con alla testa i capi-popolo della Destra, non so perché, mi ricordano anche la ‘marcia su Roma’, finalizzata alla distruzione di quel poco di democrazia che assicurava lo Stato monarchico negli anni ‘20.
Anche nei nostri giorni, mentre i maggiori magnati del globo terracqueo se ne vanno a spasso per turismo di alto bordo nello spazio stellare, affidando la loro vita alla tecnica più evoluta di razzi e navicelle interplanetari, migliaia di persone si trascinano o vengono trascinate nelle piazze a manifestare contro quel poco di ragione e di scienza, con cui l’uomo di tutti i tempi ha cercato e cerca di difendersi dalle malattie e dalle forze avverse della natura: è un po’ come se l’uomo rifiutasse la sua stessa ragione e quel poco di divino che essa rappresenta.
È uno spettacolo, questo, davvero deprimente, uno di quegli aspetti negativi, eppure umani, che mi fanno imbestialire e sentire il bisogno di ululare al vento, come altre volte ho ricordato nelle mie ‘stupide’ riflessioni.
E allora spasmodicamente mi chiedo: ma come è possibile che, di fronte ad oltre 130.000 morti che il virus si è portato via solo da noi, ci siano ancora persone, e addirittura partiti politici, che cavalcano la stupida pretesa di rifiutare controlli e vaccinazione. A costoro non bisogna stancarsi di chiedere quale altra via ha l’umanità intera per difendersi dalle pestilenze, che hanno colpito interi popoli nei secoli passati, quando, cioè, l’uomo non utilizzava appieno quel poco di divino, rappresentato, ripeto, dalla ragione che è in lui. La verità è anche data dal fatto che stiamo assistendo da troppo tempo a mancanza di sufficiente chiarezza nella politica dei governi che si sono avvicendati, i quali, di fronte ad una situazione così grave e delicata, invece di informare l'opinione pubblica nei modi più appropriati, spesso forniscono contenuti del tutto ondivaghi e contraddittori di maghi e fattucchieri di ogni risma: una mistura pericolosa e deleteria che ha contribuito enormemente ad intossicare in profondità una parte consistente della opinione pubblica.
Ma quello che fa più paura è vedere, in quelle medesime piazze della irrazionalità, anche uomini ‘cosiddetti di scienza’, come docenti, medici e quant’altro si voglia, che in coro con la Destra, e qualche volta anche della ‘Sinistra della miseria’, gridano: ‘no vax’ e ‘no green pass’, invocando così un ritorno all’indietro, ai tempi in cui un semplice dente cariato faceva impazzire. 
E non capisco nemmeno prese di posizione da parte di ‘pensatori’ come Massimo Cacciari e l’amico Marco Travaglio che, cavalcando in parte l’onda lunga della medesima miserabile protesta di piazza, tuonano contro l’obbligatorietà del green pass e della vaccinazione, appoggiandosi alle varie dichiarazioni di virologi come Fauci quando affermano che la contagiosità non viene meno anche fra i soggetti vaccinati. Questi stessi amici però dimenticano di dire che, a prescindere dalla contagiosità, chi non si vaccina rischia cento volte di più la morte e che, attualmente, oltre al vaccino non abbiamo altro rimedio contro la pandemia, se non pannicelli caldi e pratiche magiche.


Massimo Cacciari

Il buon ‘accademico di nulla accademia’, Antimo Negri, che Cacciari ha avuto come ‘maestro’ insieme a me, (ma io con infinita modestia), che cosa avrebbe detto del ‘Regime logico-gnoseologico’ da cui è governato il suo vecchio discepolo? Certamente avrebbe dissentito in nome della razionalità e del buon senso! A tutta questa mia perplessità si potrebbe obiettare che, ogni uomo, (quindi anche i filosofi) non è tutto ragione ma anche bestialità; e anche questo è sacrosanta verità, ma allora diciamo chiaramente che la storia non insegna proprio niente e che ogni volta bisogna ricominciare tutto daccapo. Ma forse è la solita storia di chi, in nome dell’ideologia accecante, rifiuta anche l’evidenza scientifica, anche quando tutto questo comporta la morte, così come, finalmente, ha affermato, senza mezzi termini, anche il capo del Governo Mario Draghi, che in questo caso condivido pienamente nella forma e nel contenuto.

  

 

      

GIUSTIZIA PER CHI?
 


Di fronte ai rischi della riforma della giustizia (la cosiddetta "riforma Cartabia"), PeaceLink esprime forti preoccupazioni e prende posizione con questo comunicato stampa nazionale. Abbiamo sempre considerato la magistratura come un potere indipendente a cui rivolgerci quando i decisori politici hanno ignorato i diritti inalienabili dei cittadini e non hanno tutelato la vita e l'ambiente. I decisori politici, dopo non aver eseguito - a volte anche colpevolmente - i propri doveri di tutela dei diritti dei cittadini, adesso limitano persino la magistratura a cui i cittadini spesso affidano la tutela di quei diritti disconosciuti e calpestati: il diritto alla salute, alla vita, alla sicurezza e alla legalità.
Questa riforma toglie deliberatamente potere alla magistratura e di fatto decreterà la morte di tanti processi in cui spesso sono coinvolti politici di dubbia moralità. Per noi è un fatto inaccettabile e entra in contrasto anche con l'articolo 13 della Carta di Nizza in base alla quale agisce la CEDU (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo): "Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale".  
Chiediamo pertanto che venga pubblicato il seguente appello nazionale.
Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
 
Appello alla società civile

Una riforma che favorirà l'impunità a molti inquinatori, alle cosche mafiose e alla malapolitica.

 
PeaceLink si associa al grido di allarme che proviene dal mondo della magistratura ed esprime forti timori rispetto alla riforma della giustizia. Se non siete d'accordo sulla riforma della giustizia condividete questo testo.
 
PeaceLink esprime forti timori rispetto alla riforma della giustizia e si associa al grido di allarme che proviene dal mondo della magistratura. Dietro la foglia di fico di una riforma moderna e di alta civiltà giuridica, si garantirà di fatto l'impunità a molti inquinatori, alle cosche mafiose e alla malapolitica che usa lo Stato per interessi privati. La riforma non dà più strumenti alla magistratura ma li toglie, restringendone persino l'autonomia. Di fronte a questo grave tentativo di una parte della politica di approfittare di giuste istanze per garantire l'impunità per sé e per il proprio elettorato di riferimento occulto, occorre reagire e fare sentire la voce della società civile democratica e impegnata per la difesa dei valori della Costituzione.
 

GENIO E COMPORTAMENTO
di Gabriella Galzio

Vittorio Alfieri

L’opera deve essere la quintessenza del suo autore.
Vittorio Alfieri
 
Interessante la riflessione che apre l'articolo di Marchesini, anche per me che amo il Barocco del Bernini sarebbe impensabile distruggerne le opere d'arte, o la cappella Sistina o le tante bellissime chiese edificate in piena controriforma; quindi concordo che non dovrebbe essere la bellezza delle opere d'arte ad essere bersaglio di furia iconoclasta. E tuttavia, è innegabile che in una società di massa come la nostra, e non più elitaria come una volta, il principio di autorità in senso assoluto è stato messo in discussione; oggi chi detiene una qualche attribuzione di autorità è chiamato a rispondere, che sia un artista, un politico o un cardinale, la sua non è più un'autorità indiscussa, come non lo sono più i suoi privilegi; dalla legittimazione divina dell'impero ai giorni nostri la democrazia nei secoli ha fatto qualche passo avanti, e forse questo controllo sociale dal basso dovrebbe essere un deterrente per le figure di potere a esercitarlo correttamente. Preservare sì la bellezza del barocco, ma ricordare anche che quelle opere sono state espressione di una controriforma; continuare sì ad ammirare le opere rinascimentali, ma ricordare anche che il nostro Rinascimento si è nutrito delle nuove ricchezze coloniali d'oltremare; che dietro lo sfarzo dei vincitori, c'è spesso una storia non scritta dei vinti. E nella nuova sensibilità contemporanea che intende il personale come politico, il bravo regista Polanski dovrà fare i conti come uomo, se maschilista e violentatore. L'apprezzamento della dimensione estetica dell'opera oggi richiede di coniugarsi con una nuova distanza critica rispetto all'etica dell'autore o del committente, per non dimenticare che "le cattedrali che non siamo/ i monumenti che non siamo/ siano vestigia del passato siano monito/ della grandezza di pochi a rapina dei più" (da: Un'altra storia di Gabriella Galzio). Rispetto all'impunità del Genio, preferisco tornare al magistrale insegnamento di Saffo che celebrava il buono e il bello.

martedì 27 luglio 2021

OPERAI A CAMPI BISENZIO
di Alfonso Gianni 
 
 

Erano in tanti sabato scorso a Campi Bisenzio. Davvero molti ed era tempo che non si vedeva una manifestazione così. Davanti c’era un’unica parola secca e determinata, in campo rosso: insorgiamo. Senza la retorica dei punti esclamativi. Infatti non è un auspicio, è una comunicazione di un dato di fatto. Come a dire: sta a voi decidere ora cosa fare. Gli operai della Gkn, licenziati via mail – la modernizzazione del vecchio ad nutum – in 422 della fabbrica madre e in 80 delle ditte in appalto, dettaglio non secondario, hanno deciso di insorgere contro la decisione della proprietà, il fondo britannico Melrose, che rincorre i fasti della globalizzazione in crisi: chiudere qui per aprire altrove. Non si sa dove. Si conosce invece l’intenzione di fare gravare interamente sul costo del lavoro, azzerando gli occupati e cancellando uno stabilimento, le conseguenze della contrazione mondiale in atto nel settore automobilistico. La chiusura a Campi Bisenzio viene presentata come “indifferibile” e l’utilizzo degli ammortizzatori sociali impossibile. Chi voleva le prove che l’avviso comune tra Governo e Sindacati, con l’intervento determinante di Confindustria, non avrebbe tappato il vaso di pandora dei licenziamenti, ne ha avute fin troppe. Il paragone con il caso Bekaert, l’azienda belga che produceva rivestimenti in acciaio per pneumatici e che tre anni fa ha trasferito la produzione da Figline Valdarno nell’Europa dell’Est, è d’obbligo. E si teme che così possa finire anche per la Vitesco, azienda tedesca di iniettori per motori termici, 950 lavoratori in quel di Pisa, 750 dei quali già considerati come esuberi. Intanto la riforma degli ammortizzatori sociali attesa per il 31 luglio, cui pareva appeso l’avviso comune e che è prevista dallo stesso Pnrr, seppure non vincolata a termini perentori, sembra scivolare all’autunno, quando si discuterà la legge di bilancio, visto che allo stato attuale mancano le risorse nonché le modalità per utilizzare gli ammortizzatori nelle imprese con meno di cinque addetti, uno dei tratti più innovativi dell’intervento legislativo. La chiusura di un’azienda che produce componentistica per l’80 per la Fca e il resto per prestigiose marche tedesche, nonché per Ferrari e Maserati, mette a nudo l’assenza di una qualunque politica industriale nel Pnrr, che ci rende indifesi di fronte alle scelte delle multinazionali. Ma ieri è successo qualcosa di nuovo. Migliaia di persone di sono mosse dallo stabilimento di Campi Bisenzio per toccare le altre realtà produttive. Ha ragione la segretaria generale della Fiom: “non è uno sciopero, ma una manifestazione che dà il senso che questa sta diventando una vertenza simbolo”. L’hanno compreso in molti. Altrimenti non avremmo assistito al dispiegarsi in modo tangibile di una viva e orgogliosa solidarietà. Al grande corteo erano presenti lavoratori della Whirlpool di Napoli, di aziende di Milano e di Bologna, esponenti di primo piano delle istituzioni comunali e regionali. Dopo diverso tempo si è riacceso attorno ad una lotta operaia il senso della partecipazione di tanti giovani e di intellettuali. Valga per tutti l’opera grafica che Zerocalcare ha voluto dedicare a questo conflitto. Si percepisce che quando sei di fronte a un muro, fatto dalla decisione autodefinentesi irremovibile della multinazionale, alla non volontà del governo di continuare il blocco dei licenziamenti, all’assenza della politica dal conflitto sociale, solo l’allargamento a livello sociale e popolare del sostegno e della solidarietà, può permettere di incrinare se non abbattere del tutto quel muro. Il successo della manifestazione di ieri non è un caso isolato. Questa volta la miccia è stata accesa forse dai meno attesi, i lavoratori della logistica, invisibili quanto determinanti nel processo di circolazione delle merci. Con le loro lotte necessariamente aspre, che sono costate dolore, sangue e morte hanno riaperto il conflitto sociale nei luoghi più strategici del moderno sistema capitalistico. Ora abbiamo non solo la difesa primaria del posto di lavoro dai licenziamenti avvenuti e minacciati, ma la volontà di ritessere una tela strappata. Un fatto nuovo, che ha il profumo dell’antico, quando quelli che erano considerati gli ultimi sapevano legare attorno a sé le forze più vive della società. E creare un popolo. Che è sempre l’esito di un processo sociale e politico.

IL PENSIERO DEL GIORNO



“Alimentari: una volta costavano più del dovuto,
per via del valore aggiunto. Oggi, per via dei veleni aggiunti”.
Nicolino Longo

lunedì 26 luglio 2021

L’OPERA È L’AUTORE
di Luca Marchesini

Gian Lorenzo Bernini
 
Parigi, febbraio 2020. Césars du cinéma. Il premio, come miglior regista, viene assegnato a Roman Polanski per il film J’accuse (titolo italiano: L’ufficiale e la spia). A Polanski: nonostante i suoi trascorsi giudiziari! Un’attrice e una regista, indignate (in quanto donne, cittadine o semplicemente individui non è dato sapere), abbandonano la sala. Seguono trascinanti manifestazioni di piazza, cartelli in cui, con geniale ironia, si deplora che un riconoscimento prestigioso sia stato conferito al miglior violentatore. Contestazioni sacrosante, indignazione sacrosanta! Perché non si può separare l’opera d’arte dall’autore e dai suoi comportamenti. Se proprio una critica si deve muovere a tali proteste è di essere state troppo timide; di non essersi spinte oltre quel caso particolare. Mi permetto quindi di fornire qualche suggerimento volto a ovviare a tale lacuna. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio: una vita turbolenta, aveva anche ammazzato uno. Nonostante questo, i suoi dipinti sono esposti nelle più importanti gallerie. Scandaloso. Propongo di rimuoverli al più presto. Per riempire i vuoti, si potrebbero sempre acquistare, a prezzi modici, certi quadretti che si trovano su qualsiasi bancarella; naturalmente, dopo aver accertato l’integrità morale dell’autore. Emblematico poi il caso di Gian Lorenzo Bernini, che passa per un grande artista, mentre mandò un sicario a sfregiare la sua amante: armiamoci dunque tutti di picconi e dinamite e diamoci da fare contro le sue orribili (perché sue) opere. E che dire della letteratura e della poesia. Solo per citare un esempio: Dante Alighieri, a torto portato in palma di mano (tanto da essere spesso indicato per antonomasia semplicemente come il Poeta), a parte l’accusa, che gli fu rivolta, di peculato (mai provata; però dovrebbe sempre valere il principio di colpevolezza, come per le molestie), fu un sostenitore dell’origine divina dell’autorità imperiale. Al rogo, dunque, la Commedia nonché le altre opere minori, e via ogni suo scritto dalle antologie scolastiche. Dalle quali suggerisco altresì di bandire, insieme con altri poeti maledetti, quel trafficante d’armi di Rimbaud, di cui tutti ricorderemo almeno la poesia Vocali. A tal proposito, onde evitare l’accusa di limitarmi alla facile pars destruens senza proporre dal canto mio alcuna valida alternativa, suggerisco di sostituire, nei testi antologici, il suddetto componimento con un altro, di argomento consimile, uscito dalla mia penna e che propongo qui di seguito ai lettori.
 
Finisce con la a
la gran stupidità
e invece con la e
il piccolo bebè
che fa tanta pipì
(a posto anche la i).
Finisce poi con o
e inizia anche con o
la congiunzione o,
cioè l’alternativa,
del dubbio deprecabile
compagna inseparabile.
Davanti alla u,
io penso alla virtù
(e anche un po’ a Me too).
Venendo ora alle tinte,
la rosa può esser rosa
ovver d’altro color,
bianca o gialla, ma rossa
esprime meglio amor.
Il bruco striscia bruno
non visto da alcuno;
il prato è tutto verde,
il cielo invece è blu
ed il bigio cuculo
sul ramo fa cucù.
 
Mi sembrano versi carini, molto orecchiabili; ma, soprattutto, ed è questo che conta, il loro autore, cioè io, non ha mai ucciso nessuno, non ha mai trafficato armi e, più in generale, ha la fedina penale immacolata. Sono simili circostanze legate all’autore a rendere immortale un’opera d’arte, non certo il nitore formale, la profondità di pensiero che ne emerge, la finezza del sentire e consimili corbellerie!

DEMOCRAZIA E SINISTRA COSTITUZIONALE
di Franco Astengo
 


Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha accompagnato la promulgazione dell'ultimo "decreto sostegni" con una lettera al Parlamento che ci richiama ad un messaggio di natura costituzionale di cui può valere la pena di riprendere la sostanza: “Il monito è forte e chiaro. E arriva dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che dopo aver firmato la legge sui “sostegni bis”, ha accompagnato la promulgazione con una lettera al Parlamento e al governo in cui, in sostanza, contesta l’eccessivo uso di emendamenti con norme fuori tema, facendo anche un elenco di esempi relativi alla legge. Nella missiva inviata ai presidenti di Senato e Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, e al premier Mario Draghi, il Capo dello Stato individua le forme costituzionalmente corrette della legiferazione d’urgenza. Tra i punti critici segnalati da Mattarella, c’è il ricorso ormai abituale alla prassi del maxiemendamento su cui il governo pone la questione di fiducia”.
Le parole del Capo dello Stato arrivano in un momento nel quale:
1) appare davvero esagerato il quadro complessivo di prolungamento della facoltà d’emergenza concessa al governo per via della straordinaria situazione sanitaria;
2) di quasi totale assenza di riflessione sui devastanti effetti che hanno avuto le diverse leggi elettorali fondate sulle liste bloccate;
3) di mutamento di natura funzioni, ruolo, dei partiti; la prospettiva di riduzione nel numero dei parlamentari e quindi di ulteriore difficoltà nell'accesso alle istituzioni di una pluralità di sensibilità politico - culturali renderà ancor più permeabile il sistema al micidiale cocktail formato da lobbismo, corporativismo, localismo che ha mandato in crisi l'intero assetto delle nostre istituzioni rappresentative, al centro come in periferia.
Sarebbe il caso di ricordare ancora le funzioni fondamentali assegnate al Parlamento dalla Costituzione e che via via sono andate perdute:
Riassumendo possiamo così reinterpretare le cinque funzioni fondamentali del Parlamento:
 
1). La funzione d’indirizzo politico, inteso come determinazione dei grandi obiettivi della politica nazionale e alla scelta degli strumenti per conseguirli, in specificazione dell’attualizzazione e dell’opposizione - dai diversi punti di vista - del programma di governo;
 
2). La funzione legislativa, comprensiva dei procedimenti legislativi cosiddetti “duali” che richiedono cioè la compartecipazione necessaria del Governo o di altri soggetti dotati di potestà normativa;
 
3). La funzione di controllo, definita come una verifica dell’attività di un soggetto politico in grado di attivare una possibile attività sanzionatoria;
 
4). La funzione di garanzia costituzionale, da interpretarsi come concorso delle Camere alla salvaguardia della legittimità costituzionale nella vita politica del Paese;
 
5). La funzione di coordinamento delle Autonomie, sempre più complessa da attuare in un sistema che, nelle sedi di raccordo esistenti sia a livello internazionale che infranazionale tende a privilegiare il dialogo tra esecutivi.
 
È il caso di andare a fondo sul tema della fragilità del sistema proponendo un'analisi autonomamente elaborata da sinistra e non riferita alla stretta quotidianità del gioco politico.
La responsabilità maggiore di questa fragilità spetta  alla leggerezza con la quale il sostanziale sfrangiamento delle forze politiche sorte dopo la crisi dei partiti di massa ha fatto sì che si raccogliessero di volta in volta messe di consensi ottenuti sulla base di opzioni meramente demagogiche e attraverso logiche del tipo di "scambio politico", in luogo dell'appartenenza o dell'opinione (è toccato al PD(R), poi al M5S, ancora alla Lega, adesso sembra il turno di Fratelli d’Italia in un quadro di esagerata volatilità elettorale).
 Gli esiti dell'effimero sfondamento attuato dal M5S con le elezioni del 2018 stanno pesando enormemente sullo spostamento d'asse in corso: la debolezza della struttura sistemica che ne è derivata ha aperto la strada ad una strisciante modifica costituzionale, riferita alla forma di governo.
L'esecutivo in carica sta svolgendo il compito di promuovere un'ulteriore torsione del sistema in senso presidenzialistico e di garantire alle grandi concentrazioni della finanza capitalistica l'egemonia sui due grandi obiettivi di transizione (ambientale e digitale), nel quadro di un recupero della strategia atlantica.
Nel sistema politico italiano, intanto, siamo di fronte all'acutizzarsi del fenomeno della demagogia trasformistica.
Una demagogia trasformistica che si è accompagnata alla crescita delle diseguaglianze e alla sparizione della middle-class: un quadro di impoverimento generale che ha causato il formarsi di una sorta di alleanza tra il “ventre molle” della borghesia e l’individualismo competitivo.
Un pasticcio che alla fine, ha assunto la veste di una domanda di tipo corporativo (ben emersa fin dalla fase più acuta dell'emergenza sanitaria) con la perdita di ruolo nell’insieme dei corpi intermedi di mediazione e la perdita di senso del concetto di rappresentatività politica.
La destra sta interpretando questa fase come contraddistinta da una complessità sociale dalla quale origina un ulteriore "eccesso di domanda".
Un fenomeno da fronteggiare attraverso forme di "democrazia protetta", sul modello di alcuni paesi dell'Est e realizzata attraverso un taglio netto del rapporto tra politica e società.
L'acutezza delle contraddizioni in campo rende inefficaci le zone intermedie e le vocazioni maggioritarie a base centrista: il solo contrasto possibile a questo stato di cose potrà arrivare soltanto da una ripresa di ruolo della Sinistra.
Una ripresa di ruolo della Sinistra da realizzarsi in forme nuove ma solidamente ancorate alle parti più alte della sua tradizione.
Andrebbe così rinnovata una proposta politica che potrebbe essere avanzata da una "Sinistra Costituzionale".
La costruzione di un soggetto di "Sinistra Costituzionale" potrebbe servire a rispondere sia pure parzialmente alla domanda di soggettività avanzata da quella parte dell'elettorato coerente e responsabile che si è pronunciato per il "NO" nel referendum del settembre 2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari. Da quel "no" sarebbe stato necessario ripartire per porre il tema della rappresentatività attraverso una identità di democrazia costituzionale. Una sinistra fondata sulla democrazia costituzionale deve tornare centrale nel sistema come ipotesi politica complessiva ponendosi in alternativa all'idea della "democrazia protetta", della governabilità intesa quale fine esaustivo dell'azione politica, della formula elettorale maggioritaria.