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lunedì 12 luglio 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


L’agricoltura.
 
Il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura non modificò, di fatto, le tecniche per la formulazione delle parole, in quanto le nuove tematiche vennero rese, con gli stessi simboli, come metafore del grembo.
Quando i greci coniarono (ghe ghes) γ γς: terra, suolo, si avvalsero di questa perifrasi: dal generare il legare produce, ad indicare che la terra è come il grembo materno, dove si generano tutti i frutti. Con γρός: terra da pascolo, campagna, che, tra l’altro, rimanda anche a (agra) γρα: caccia, dissero: è il luogo dove trovo da vivere: dove vado a caccia (tendo trappole), dove pascolo, dove trovo quanto è indispensabile. I latini se ne servirono per coniare ager agri, che divenne il campo da coltivare, dove avviene il generare dallo scorrere (che è l’incubazione dei semi), attraverso le fatiche. Da ager fu dedotto agricola, che è un deduttivo logico (è ciò che nasce dall’ager) e che indica: colui che fatica, nei campi, coltivandoli. Probabilmente, da questo cola furono dedotti il verbo colo: coltivo e il sostantivo colono. Gli italici coniarono contadino, dedotto da contado, come piccolo agglomerato di campagna, dove vivevano gli addetti ai campi.
I latini coniarono terra (inizialmente tenra), la cui perifrasi si può tradurre a senso: è come il grembo, mentre alla lettera: da dentro il tendere lo scorrere, che è l’incubazione, genera/fruttifica. I poeti latini utilizzarono tellus telluris (in origine: tenlus): dentro l’ingravidamento, lega (attecchisce) e, passato il tempo, fruttifica. Da tellus fu dedotto tellurico. I latini coniarono anche rus ruris: campagna, ad indicare il luogo dove, faticando (legando) nei campi, ci si procura quanto serve per vivere; quindi, dedussero: rurale, rustico, rusticano, anche rude e, molto probabilmente, rozzo.



I latini utilizzarono, ai primordi della loro civiltà, arvum, che rimanda, senza ombra di dubbio, a (aroo) ρόω: aro, semino, coltivo, in latino aro aras, per cui l’arvum si caratterizza per la prima fatica agricola dell’intero ciclo: l’aratura. Utilizzarono anche campus: campo, probabilmente, avvalendosi di (chamai) χαμ(αί): a terra, perifrasi da rendere: passa dal rimanere l’andare a generare. Pertanto, il campo divenne il luogo per tirare a campare, in quanto il campicello di Cincinnato richiedeva molta fatica e scarsa resa. L’omologo di χαμαί, in latino, fu humi, quindi: humus: terra, terreno, suolo, che è il luogo dove incuba il seme per poter fruttificare. Inoltre, dal verbo hum-eo: sono bagnato furono dedotti hum-us, hum-or, hum-idus, hum-ilis: basso, oscuro, da poco e umettare. Mi preme sottolineare il significato, finanche spregiativo, assegnato dai latini a umile e a umiltà. L’umiltà, come valore e come virtù, appartiene alla civiltà cristiana, che recupera ed esalta gli ultimi della scala sociale, anche perché senza il vile humus non ci sarebbe fruttificazione.
Inoltre, i greci per indicare uno spazio chiuso, recintato, per il pascolo o per ricavare del cibo, coniarono (chortos) χόρτος, che è il luogo dell’incubazione, che tende per fruttificare. I latini ricalcarono questo simbolo, formando (orto) hortus, in cui la χ, aspirata muta, si trasformò nella muta h. Da orto furono dedotti: ortaggio, ortica, urticante ed altri ancora. Nel mio dialetto c’è un detto: orto, uomo morto, a voler significare che l’orticello richiede cure infinite. Ho fatto questa citazione, perché ος/us si traduce letteralmente: c’è il mancare, come fruttificazione e come fatica dell’ortolano. In realtà, i greci definirono il giardino anche κήπος, come il grembo che fruttifica.
I greci coniarono (speiro) σπείρω: semino, da cui (sperma) σπέρμα: seme, ma anche (sporà) σπορά: germe, sementa, per cui in italiano: le spore e sporadico.
Bisogna ricordare che il sigma di queste tre parole indica il mancare, da cui nasce la vita animale e vegetale. Inoltre, nel mio dialetto, c’è una efflorescenza, una sorta di grosso asparago, denominata: a spurchia, che, se si sviluppa, ammorba il campo di fave, in quanto si tratta di una pianta parassita; sicuramente è un dedotto da (a-sporos) -σπορος: non seminato, che nasce da sé; infatti, questa pianta nasce da sé.
A ribadire che anche la riproduzione vegetale è metafora del grembo, si ricorda la radice di sem-en sem-inis: seme, germe, origine, che rimanda a (sema) σμα, che, per i greci, era il segno, identificato, inizialmente, in quello della gravida. Il contadino latino ragionò così: c’è il segno della gravida, in quanto c’è stato il seme.



I latini coniarono anche: sero seris, sevi, satum, serere: semino, pianto, da questa perifrasi: dallo scorrere il mancare, che indica la dissoluzione del seme per poter fruttificare. Il seme radica (mette radici), in latino: radicor radicaris, da cui: radix radicis, che, è ciò che si evince dal radicare.
Da ricordare che in greco (radix radicos) άδιξ άδικος significò: ramo, che potrebbe essere lo sviluppo aereo della pianta, di contro a quello sotterraneo. Pertanto, le due parole sono il risultato dell’interpretazione della stessa perifrasi o si tratta di parole omofone/omografe. I greci per indicare radice si avvalsero di (riza) ίζα, mentre con (rizoma) ίζωμα indicarono l’insieme dell’apparato radicale. Inoltre, le radici si propagano. Questo verbo (propagare) fu dedotto da: (pegnumi / pagnumi) πήγνυμι /πάγνυμι: conficco, in quanto le radici conficcate si propagano, poi, da propagato si ebbe il sostantivo propagazione. Anche propaggine fu dedotta da questo verbo greco.
Il concetto di pianta fu dedotto dai greci dal sollevamento del grembo; infatti, da φύω: nasco coniarono τό φυτόν: pianta, albero, che è ciò che si riscontra dentro (όν) il sollevarsi (τ) di ciò che nasce (φυ). I latini coniarono arbor arboris: legando, si sviluppa in altezza, con il passare del tempo, adottando una perifrasi simile a quella dei greci.
Gli italici utilizzarono pi-anta, che rimanda a un prestito greco (anthos) νθος: fiore, dedotto, a sua volta, da (antheo) νθ-έω: fiorisco, a voler dire: è quella che genera il fiore oppure: è quella che fiorisce. Dalla radice νθ (si genera dentro il crescere), il contadino greco elaborò il concetto di fioritura. Da questo lemma fu dedotta, in italiano, antologia, come raccolta di fiori.
I latini dissero flos floris: è il flusso della linfa, generato dal mancare, che, legando, produce il fiore, dal quale, poi, si genera il frutto. I latini mitizzarono il fiore, deducendone Flora.
Per quanto riguarda foglia, i greci si servirono della radice φυ di φύω e dissero φύλλον, ad indicare quella che nasce quando scorre abbondante la linfa. Nel mio dialetto: u fullone è la tana, logicamente sotterranea, fatta di fogliame. Folia dei latini potrebbe rimandare a φυλ, in quanto la υ dei greci spesso si trasforma in o aperta, come, per esempio, μύλη: mola, macina, da cui molitura, molare, immolare, demolire. Comunque, folia/foglia ha una perifrasi molto simile a quella della parola greca. I latini coniarono anche frons frondis: fronda, foglie, la cui perifrasi suona così: è ciò che attecchisce per poi venir meno, da cui la fronda in politica, come quella parlamentare contro il Mazzarino.  Da fronda si ebbe sfrondare.


Dal fiore, si passò, dal punto di vista logico, ad elaborare il concetto di frutto. I greci lo definirono: κάρπος, che ha un processo come la creatura: è ciò che nasce dopo che è passato il tempo stabilito (le stagioni). I latini se ne servirono per formare: carpo carpis, carpsi, carptum, carpere: colgo, assaggio, gusto (il frutto), mentre gli italici se ne servirono per coniare l’avverbio: carponi, che è la posizione di chi raccoglie i frutti per terra e per dedurre, dal participio passato carptus, lo scarto, quello del frutto bacato. I latini, inoltre, dedussero, da carpo, excerpo, da cui Dante, nel canto di Pier delle Vigne, disse: “Perché mi scerpi?”.
I latini da fruor ricavarono fruitus sum e/o fructus sum: me ne sono servito, ho goduto di. In realtà, la vera radice di fructus è frug, da scrivere alla greca φρυχ: è ciò che fa nascere lo scorrere del passare, che, nella metafora del grembo, è ciò che si forma, gradualmente, durante l’incubazione. Con l’aggiunta di tus, si disse: il legare (la creazione come crescita) genera il tendere (la spinta). Da questa radice frug fu dedotta la parola frugs (frux) frugis, che sono le biade: cereali, messi, con questa perifrasi: dopo il processo di formazione nasce ciò che raccolgo per il nutrimento. Poi, per indicare com’è il pasto a base di cereali, il contadino latino coniò: frugale. Altri, poi, dedussero fruscìo (in dialetto: fruscio), rumore provocato dagli animali che masticano le biade, mentre, nel mio dialetto, con un’espressione piena di tenerezza, si denominano gli animali che si allevano: fruscul’, quelli che si nutrono di biade. A tal proposito, mi piace ricordare un detto del mio paese: i fruscul’, sarvann’ u vattesim’ (a parte il battesimo), sono come noi.
Infine, per citare un termine greco usato in questi ultimi anni: clone, che indica il rametto che serve, in agricoltura, per l’innesto, si ricorda che discende da (klao) κλάω: tronco, spezzo da cui κλάδος: ramo (quello che, talvolta, spezzo), quindi κλαδεία: potatura. I latini dalla radice κλάδ
, che rimanda all’albero potato drasticamente, dedussero clades: rovina, flagello, sconfitta. Questo per indicare, ancora una volta, come si modifica il significato della radice.