L’agricoltura. Il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura
non modificò, di fatto, le tecniche per la formulazione delle parole, in quanto
le nuove tematiche vennero rese, con gli stessi simboli, come metafore del
grembo. Quando
i greci coniarono (ghe ghes) γῆγῆς: terra,
suolo, si avvalsero di questa perifrasi: dal generare il legare produce,
ad indicare che la terra è come il grembo materno, dove si generano tutti i frutti. Con ἀγρός: terra
da pascolo, campagna, che, tra l’altro, rimanda anche a (agra) ἄγρα: caccia,
dissero: è il luogo dove trovo da vivere: dove vado a caccia (tendo trappole),
dove pascolo, dove trovo quanto è indispensabile. I latini se ne servirono per coniare
ager agri, che divenne il campo da coltivare, dove avviene il
generare dallo scorrere (che è l’incubazione dei semi), attraverso le fatiche.
Da ager fu dedotto agricola, che è un deduttivo logico (è ciò che
nasce dall’ager) e che indica: colui che fatica, nei campi,
coltivandoli. Probabilmente, da questo cola furono dedotti il
verbo colo: coltivo e il sostantivo colono. Gli italici
coniarono contadino, dedotto da contado, come piccolo agglomerato
di campagna, dove vivevano gli addetti ai campi. I latini coniarono terra
(inizialmente tenra), la cui perifrasi si può tradurre a senso: è
come il grembo, mentre alla lettera: da dentro il tendere lo scorrere,
che è l’incubazione, genera/fruttifica. I poeti latini utilizzarono tellus
telluris (in origine: tenlus): dentro l’ingravidamento, lega
(attecchisce) e, passato il tempo, fruttifica. Da tellus fu dedotto tellurico.
I latini coniarono anche rus ruris: campagna, ad indicare il
luogo dove, faticando (legando) nei campi, ci si procura quanto serve per
vivere; quindi, dedussero: rurale, rustico, rusticano,
anche rude e, molto probabilmente, rozzo.
I latini utilizzarono, ai
primordi della loro civiltà, arvum, che rimanda, senza ombra di dubbio,
a (aroo) ἀρόω: aro,
semino, coltivo, in latino aro aras, per cui l’arvum si
caratterizza per la prima fatica agricola dell’intero ciclo: l’aratura. Utilizzarono
anche campus: campo, probabilmente, avvalendosi di (chamai) χαμ(αί): a
terra, perifrasi da rendere: passa dal rimanere l’andare a generare.
Pertanto, il campo divenne il luogo per tirare a campare, in
quanto il campicello di Cincinnato richiedeva molta fatica e scarsa resa.
L’omologo di χαμαί, in latino, fu humi, quindi: humus: terra,
terreno, suolo, che è il luogo dove incuba il seme per poter
fruttificare.Inoltre, dal verbo hum-eo: sono bagnato
furono dedotti hum-us, hum-or, hum-idus, hum-ilis: basso,
oscuro, da poco e umettare. Mi preme sottolineare il
significato, finanche spregiativo, assegnato dai latini a umile e a umiltà.
L’umiltà, come valore e come virtù, appartiene alla civiltà cristiana, che
recupera ed esalta gli ultimi della scala sociale, anche perché senza il vile
humus non ci sarebbe fruttificazione. Inoltre, i greci per
indicare uno spazio chiuso, recintato, per il pascolo o per ricavare
del cibo, coniarono (chortos) χόρτος, che è il luogo
dell’incubazione, che tende per fruttificare. I latini ricalcarono questo
simbolo, formando (orto) hortus, in cui la χ, aspirata muta, si
trasformò nella muta h. Da orto furono dedotti: ortaggio, ortica,
urticante ed altri ancora. Nel mio dialetto c’è un detto: orto, uomo
morto, a voler significare che l’orticello richiede cure infinite. Ho fatto
questa citazione, perché ος/us si traduce letteralmente:
c’è il mancare, come fruttificazione e come fatica dell’ortolano.
In realtà, i greci definirono il giardino anche κήπος, come il grembo che
fruttifica. I greci coniarono (speiro)
σπείρω: semino, da cui (sperma) σπέρμα: seme, ma anche (sporà)
σπορά: germe, sementa, per cui in italiano: le
spore e sporadico. Bisogna ricordare che il
sigma di queste tre parole indica il mancare, da cui nasce la vita
animale e vegetale. Inoltre, nel mio dialetto, c’è una efflorescenza, una sorta
di grosso asparago, denominata: a spurchia, che, se si sviluppa, ammorba
il campo di fave, in quanto si tratta di una pianta parassita; sicuramente è un
dedotto da (a-sporos) ἄ-σπορος: non seminato, che
nasce da sé; infatti, questa pianta nasce da sé. A ribadire che anche la
riproduzione vegetale è metafora del grembo, si ricorda la radice di sem-en
sem-inis: seme, germe, origine, che rimanda a
(sema) σῆμα, che, per i greci, era il segno,
identificato, inizialmente, in quello della gravida. Il contadino latino
ragionò così: c’è il segno della gravida, in quanto c’è stato il seme.
I latini coniarono anche: sero
seris, sevi, satum, serere: semino, pianto,
da questa perifrasi: dallo scorrere il mancare, che indica la
dissoluzione del seme per poter fruttificare. Il seme radica (mette
radici), in latino: radicor radicaris, da cui: radixradicis,
che, è ciò che si evince dal radicare. Da ricordare che in greco
(radix radicos) ῥάδιξῥάδικος
significò: ramo, che potrebbe essere lo sviluppo aereo della pianta,
di contro a quello sotterraneo. Pertanto, le due parole sono il risultato dell’interpretazione
della stessa perifrasi o si tratta di parole omofone/omografe. I greci per
indicare radice si avvalsero di (riza) ῥίζα, mentre con (rizoma) ῥίζωμα
indicarono l’insieme dell’apparato radicale. Inoltre, le radici si
propagano. Questo verbo (propagare) fu dedotto da: (pegnumi / pagnumi) πήγνυμι/πάγνυμι: conficco,
in quanto le radici conficcate si propagano, poi, da propagato si
ebbe il sostantivo propagazione. Anche propaggine fu dedotta da
questo verbo greco. Il concetto di pianta
fu dedotto dai greci dal sollevamento del grembo; infatti, da φύω: nasco
coniarono τό φυτόν: pianta, albero,
che è ciò che si riscontra dentro (όν) il sollevarsi (τ) di ciò che nasce (φυ). I latini
coniarono arbor arboris: legando, si sviluppa in altezza, con
il passare del tempo, adottando una perifrasi simile a quella dei greci. Gli
italici utilizzarono pi-anta, che rimanda a un prestito greco (anthos) ἄνθος: fiore,
dedotto, a sua volta, da (antheo) ἀνθ-έω: fiorisco, a voler dire: è
quella che genera il fiore oppure: è quella che fiorisce. Dalla
radice ἀνθ (si
genera dentro il crescere), il contadino greco elaborò il concetto di
fioritura. Da questo lemma fu dedotta, in italiano, antologia, come
raccolta di fiori. I
latini dissero flos floris: è il flusso della linfa, generato dal
mancare, che, legando, produce il fiore, dal quale, poi, si genera il frutto. I
latini mitizzarono il fiore,deducendone Flora. Per
quanto riguarda foglia,i greci si servirono della radice φυdi φύωe dissero φύλλον, ad indicare quella
che nasce quando scorre abbondante la linfa. Nel mio dialetto: u fullone
è la tana, logicamente sotterranea, fatta di fogliame. Folia dei latini
potrebbe rimandare a φυλ,
in quanto la υ
dei greci spesso si trasforma in o aperta, come, per esempio, μύλη: mola,
macina, da cui molitura, molare, immolare, demolire.
Comunque, folia/foglia ha una perifrasi molto simile a quella della
parola greca. I latini coniarono anche frons frondis: fronda, foglie,
la cui perifrasi suona così: è ciò che attecchisceper poi venir meno,
da cui la fronda in politica, come quella parlamentare contro il
Mazzarino.Da fronda si ebbe sfrondare.
Dal
fiore, si passò, dal punto di vista logico, ad elaborare il concetto di frutto.
I greci lo definirono: κάρπος,
che ha un processo come la creatura: è ciò che nascedopo che è
passato il tempo stabilito (le stagioni). I latini se ne servirono per formare:
carpocarpis, carpsi, carptum, carpere: colgo,
assaggio, gusto (il frutto), mentre gli italici se ne servirono
per coniare l’avverbio: carponi, che è la posizione di chi raccoglie i
frutti per terra e per dedurre, dal participio passato carptus, lo scarto,
quello del frutto bacato. I latini, inoltre, dedussero, da carpo, excerpo,
da cui Dante, nel canto di Pier delle Vigne, disse: “Perché mi scerpi?”. I
latini da fruor ricavarono fruitus sum e/o fructus sum: me
ne sono servito, ho godutodi. In realtà, la vera radice di fructus
è frug, da scrivere alla greca φρυχ: è ciò che fa nascere
lo scorrere del passare, che, nella metafora del grembo, è ciò che si forma,
gradualmente, durante l’incubazione. Con l’aggiunta di tus, si disse: il
legare (la creazione come crescita) genera il tendere (la spinta).
Da questa radice frug fu dedotta la parola frugs (frux) frugis,
che sono le biade: cereali, messi, con questa perifrasi: dopo
il processo di formazione nasce ciò che raccolgo per il nutrimento. Poi,
per indicare com’è il pasto a base di cereali, il contadino latino coniò: frugale.Altri, poi, dedussero fruscìo (in dialetto: fruscio), rumore
provocato dagli animali che masticano le biade, mentre, nel mio dialetto, con
un’espressione piena di tenerezza, si denominano gli animali che si allevano: fruscul’,
quelli che si nutrono di biade. A tal proposito, mi piace ricordare un detto
del mio paese: i fruscul’, sarvann’ u vattesim’ (a parte il battesimo),
sono come noi. Infine,
per citare un termine greco usato in questi ultimi anni: clone, che
indica il rametto che serve, in agricoltura, per l’innesto, si ricorda
che discende da (klao) κλάω:
tronco, spezzo da cui κλάδος: ramo (quello che, talvolta,
spezzo), quindi κλαδεία:
potatura. I latini dalla radice κλάδ, che rimanda
all’albero potato drasticamente, dedussero clades: rovina, flagello,
sconfitta. Questo per indicare, ancora una volta, come si modifica il
significato della radice.