Mi
arriva, in queste «giornate buie, desolate che incombono» su di noi tutti, appena
pubblicata, l’ultima raccolta di poesie di Francesco Curto Versi sfusi (Morlacchi
Editore, 2021). Ed è uno spiraglio di luce, un leggero soffio di speranza, un
invito all’ottimismo. La
poesia ha il potere immenso di illuminare la via; ancora di più quando, come
nel nostro caso, il poeta Le testimonia una fedeltà che dura da cinquanta anni.
Era il 1968 quando a Cosenza usciva Liriche,
prima smilza raccolta di giovanili componimenti. Da allora con intervalli più o
meno lunghi la presenza di Curto è stata una costante nel panorama italiano
della poesia, così come ricorrenti sono stati i temi forti e canonici delle sue
liriche: l’amore, la memoria, il dolore e la ribellione, l’impegno politico e
la passione civile. In
Versi sfusi li ritrovo quasi tutti,
ma quello che mi colpisce è il considerevole numero di poesie, testimoni di una
sofferta e lucida riflessione sull’arduo ‘mestiere’ del poeta e il fortissimo,
dolente sensus finis, già individuato
da un critico (Allegrini). Senza
volere togliere nulla al piacere dei suoi lettori ricostruirò il manifesto di
poetica che questa raccolta rivela, a partire dall’incipit dell’ultima poesia, dettagliatissimo testamento per l’amato
nipotino, «Ti lascio Lorenzo un sacco di parole». Che detto così potrebbe
rinviare a un’immagine negativa di parole raccolte e affastellate; e che invece
scopriamo essere pieno di rappresentazioni belle e rasserenanti: «una montagna
di sogni», «nuvole e miliardi di stelle / La compagnia sincera di un albero / E
tutte le albe e i tramonti», «tutto il tempo di una vita», «la mia fantasia in
libertà / e il pensiero che non possono imprigionare», «una vita da costruire
con i tuoi sogni»; per non tacere della chiusa, «Ti lascio questi versi sfusi /
impastati col vento e il lievito della speranza per il futuro», che richiama
alla memoria i montaliani porcospini che «s'abbeveranoadunfilo
di pietà». Al fatto che le poesie qui raccolte siano state
scritte non pensando di farne una raccolta organica è senza dubbio ascrivibile
il mutevole porsi nei confronti della poesia e del suo ‘essere poeta’, la consapevolezza della
crisi del ruolo e, di contro, l’incrollabile fede nella funzione del poeta e la
‘necessità’ di affidare alle parole il proprio vissuto. Non a caso il termine
“parola” ricorre più volte nel nostro testo, diventando cura e salvezza (Quando la parola rompe gli argini) o
irrefrenabile urgenza creativa «Quando il verso urge e bussa alle mie labbra /
Io apro volentieri il cuore e non me ne vergogno». Le sue sono «parole giuste»,
parole che parlano al cuore, capaci di «incantare e fare sognare le stelle». Ai suoi studi classici si può addebitare l’esibita (o
inconsapevole?) intertestualità proprio riguardo a questo argomento. Così può
essere «il poeta cieco» (Omero) che scrive «quello che gli detta il cuore» (Dante);
può, addirittura, negare di esserlo poeta «Mi dicono poeta ma io che poeta non
sono / Sono soltanto un semplice rumore / Dentro un groviglio che si fa
parole»; è uno degli «stupidi» poeti che «stupefatti piangono per un fiore»; può,
ed è l’aspetto che più si confà «al nonno folle / e un po’ bislacco» di
Lorenzo, «essere vivo dentro la follia», cantare «la luna piena», scrivere
poesie … e ancora farla la «poesia parlando con la luna / come fanno i pazzi». Quest’ultima connotazione (poesia = follia) è solo una
faccia della medaglia. L’altra ci consegna l’immagine di una poesia impegnata, di
denuncia, di vibrante sdegno (Voglio
rompere il mio silenzio, Un mondo
urlato di rabbia, A Greta Thunberg,
Macina la vita questo tempo senza pietà),
di una mai sopita fierezza del poeta, che non è voluto scendere a compromessi e
che se da un lato è rimasto «solo al buio per tenersi stretti i sogni», dall’altro è certo che i poeti pur essendo
«custodi inermi in un mondo in rovina» sono «il lievito che farà scoppiare la
pace». È un uomo profondamente inquieto quello che affida ai
versi le sue ansie quotidiane, la sua rabbia per la realtà malata di un «tempo
fallace» (Sono l’uomo di questo tempo
fallace, Abbiamo fallito le
rivoluzioni), i ricordi che vuole disseppellire con forza e che dovrebbero
aiutarlo a recuperare i sogni perduti (Riavvolgere
la vita). E può anche succedere, potenza delle parole della
poesia, di emergere da un doloroso vuoto e ritrovare viva nel sogno la madre
che non c’è più (Ho un vuoto dentro pieno
di domande) o di scavare ancora più a fondo e recuperare, non a caso in
dialetto calabro, quadri di vita paesana e sensazioni giovanili non certo
rasserenanti: il vento del «Muccunu» che morde come un cane idrofobo, il
cuscino stretto per proteggere il sonno (Jiami
culli pezze allu cudu e alli piedi due zaricchie). Alle immagini di una natura leopardianamente dolente -
il vento che morde e si lamenta, il raggelante «lago disperato» in cui si tuffa
il pino che «piange lacrime di resina» - fanno da contraltare le belle
istantanee della luna, silenziosa compagna, delle stelle, da toccare e da
lasciare in eredità, di una nevicata inattesa di petali rosa di pesco o di
«uccelli felici / che progettano nidi dove custodire l’amore» (Ti aspetto per capire le tue attese di
freddo). Non sono molte le poesie che inducono alla speranza in
giorni migliori; ma È fiorita la forsizia
gialla timida, un retablo di
rinascita - il «verde tenero del salice», «le pratoline» che occhieggiano «qua
e là», il vento che ora «lieve» gioca «a nascondino tra le foglie» -, lo è in
modo intenso e consolante, anche per la presenza del piccolo Lorenzo con il
quale il poeta auspica di potere tornare a giocare. Per il bambino che si affaccia alla vita, purtroppo in
«questo tempo / rotto e vuoto del coronavirus», dominato più che mai da ansie e
paure, vengono composte le poesie più lunghe, ‘canzoni’ dei nostri giorni. Io canto per Lorenzo, che offre un
quadro lucido e sofferto della pandemia, e A
Lorenzo, con cui gli consegna quel che di meraviglioso e negativo c’è nel
mondo. E soprattutto la speranza che possa «[…] cambiare strada e il mondo /
sfidare l’incognito con coraggio» e che possa costruirsi una vita con i suoi
«sogni». Per concludere non resta che parlare dell’altro tema
forte che caratterizza e percorre questi versi sfusi e che profondamente sento
anche mio. Corrono
veloci questi ultimi anni, nella brevità dei suoi cinque versi,
racchiude e nello stesso tempo esplicita la dolorosa percezione che si ha,
raggiunta una certa età, della fine ormai vicina, quando ormai «invisibile la morte ci tiene compagnia»,
quando si è «smarrito il cuore nella nebbia / E le certezze non sono che
fantasmi» (La sera chiude il giorno).
Dove la fine del giorno, il perdersi nella nebbia, i fantasmi delle certezze
dei tempi andati possono essere letti come una turbata prefigurazione della
morte. Il poeta sente che il sottile filo della vita si può
spezzare da un momento all’altro e che è arrivato il momento di fare un
bilancio della sua esistenza. In Saldi di
fine stagione brevi sogni confusi, nel tentativo ultimo di pareggiarlo
questo bilancio, alterna immagini di decadenza del corpo e paura della morte
con altre che parlano di un desiderio mai sopito di recuperare nei saldi di
fine stagione (leggasi vita) «parole antiche», che lo aiutino a ritrovare «una
musica lieve» che sia balsamo per il «cuore afflitto»; di riuscire a respirare
ancora «[…] tra le vecchie emozioni / di quel passato veloce una boccata d’aria
fresca / prima di morire impreparato secco di paura». Nonostante Curto affermi di essere pronto per l’ultimo
viaggio, «il più leggero», voglio chiudere questo scritto con altri suoi versi
che parlano sì di un allontanarsi dalla riva, di un ritorno impossibile, di un
orizzonte che sfuma e che, tuttavia, ce lo mostrano nell’atto di guardarlo,
questo orizzonte, sia pure da una prospettiva diversa, con i suoi occhi vividi,
ancora curiosi, ancora aperti alla vita.