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martedì 20 luglio 2021

POETI
di Maria Di Venuta
 


Mi arriva, in queste «giornate buie, desolate che incombono» su di noi tutti, appena pubblicata, l’ultima raccolta di poesie di Francesco Curto Versi sfusi (Morlacchi Editore, 2021). Ed è uno spiraglio di luce, un leggero soffio di speranza, un invito all’ottimismo. 
La poesia ha il potere immenso di illuminare la via; ancora di più quando, come nel nostro caso, il poeta Le testimonia una fedeltà che dura da cinquanta anni. Era il 1968 quando a Cosenza usciva Liriche, prima smilza raccolta di giovanili componimenti. Da allora con intervalli più o meno lunghi la presenza di Curto è stata una costante nel panorama italiano della poesia, così come ricorrenti sono stati i temi forti e canonici delle sue liriche: l’amore, la memoria, il dolore e la ribellione, l’impegno politico e la passione civile.
In Versi sfusi li ritrovo quasi tutti, ma quello che mi colpisce è il considerevole numero di poesie, testimoni di una sofferta e lucida riflessione sull’arduo ‘mestiere’ del poeta e il fortissimo, dolente sensus finis, già individuato da un critico (Allegrini).
Senza volere togliere nulla al piacere dei suoi lettori ricostruirò il manifesto di poetica che questa raccolta rivela, a partire dall’incipit dell’ultima poesia, dettagliatissimo testamento per l’amato nipotino, «Ti lascio Lorenzo un sacco di parole». Che detto così potrebbe rinviare a un’immagine negativa di parole raccolte e affastellate; e che invece scopriamo essere pieno di rappresentazioni belle e rasserenanti: «una montagna di sogni», «nuvole e miliardi di stelle / La compagnia sincera di un albero / E tutte le albe e i tramonti», «tutto il tempo di una vita», «la mia fantasia in libertà / e il pensiero che non possono imprigionare», «una vita da costruire con i tuoi sogni»; per non tacere della chiusa, «Ti lascio questi versi sfusi / impastati col vento e il lievito della speranza per il futuro», che richiama alla memoria i montaliani porcospini che «s'abbeverano ad un filo di pietà».
Al fatto che le poesie qui raccolte siano state scritte non pensando di farne una raccolta organica è senza dubbio ascrivibile il mutevole porsi nei confronti della poesia e del suo ‘essere poeta’, la consapevolezza della crisi del ruolo e, di contro, l’incrollabile fede nella funzione del poeta e la ‘necessità’ di affidare alle parole il proprio vissuto. Non a caso il termine “parola” ricorre più volte nel nostro testo, diventando cura e salvezza (Quando la parola rompe gli argini) o irrefrenabile urgenza creativa «Quando il verso urge e bussa alle mie labbra / Io apro volentieri il cuore e non me ne vergogno». Le sue sono «parole giuste», parole che parlano al cuore, capaci di «incantare e fare sognare le stelle».
Ai suoi studi classici si può addebitare l’esibita (o inconsapevole?) intertestualità proprio riguardo a questo argomento. Così può essere «il poeta cieco» (Omero) che scrive «quello che gli detta il cuore» (Dante); può, addirittura, negare di esserlo poeta «Mi dicono poeta ma io che poeta non sono / Sono soltanto un semplice rumore / Dentro un groviglio che si fa parole»; è uno degli «stupidi» poeti che «stupefatti piangono per un fiore»; può, ed è l’aspetto che più si confà «al nonno folle / e un po’ bislacco» di Lorenzo, «essere vivo dentro la follia», cantare «la luna piena», scrivere poesie … e ancora farla la «poesia parlando con la luna / come fanno i pazzi».
Quest’ultima connotazione (poesia = follia) è solo una faccia della medaglia. L’altra ci consegna l’immagine di una poesia impegnata, di denuncia, di vibrante sdegno (Voglio rompere il mio silenzio, Un mondo urlato di rabbia, A Greta Thunberg, Macina la vita questo tempo senza pietà), di una mai sopita fierezza del poeta, che non è voluto scendere a compromessi e che se da un lato è rimasto «solo al buio per tenersi stretti i sogni», dall’altro è certo che i poeti pur essendo «custodi inermi in un mondo in rovina» sono «il lievito che farà scoppiare la pace».
È un uomo profondamente inquieto quello che affida ai versi le sue ansie quotidiane, la sua rabbia per la realtà malata di un «tempo fallace» (Sono l’uomo di questo tempo fallace, Abbiamo fallito le rivoluzioni), i ricordi che vuole disseppellire con forza e che dovrebbero aiutarlo a recuperare i sogni perduti (Riavvolgere la vita).
E può anche succedere, potenza delle parole della poesia, di emergere da un doloroso vuoto e ritrovare viva nel sogno la madre che non c’è più (Ho un vuoto dentro pieno di domande) o di scavare ancora più a fondo e recuperare, non a caso in dialetto calabro, quadri di vita paesana e sensazioni giovanili non certo rasserenanti: il vento del «Muccunu» che morde come un cane idrofobo, il cuscino stretto per proteggere il sonno (Jiami culli pezze allu cudu e alli piedi due zaricchie).
Alle immagini di una natura leopardianamente dolente - il vento che morde e si lamenta, il raggelante «lago disperato» in cui si tuffa il pino che «piange lacrime di resina» - fanno da contraltare le belle istantanee della luna, silenziosa compagna, delle stelle, da toccare e da lasciare in eredità, di una nevicata inattesa di petali rosa di pesco o di «uccelli felici / che progettano nidi dove custodire l’amore» (Ti aspetto per capire le tue attese di freddo).
Non sono molte le poesie che inducono alla speranza in giorni migliori; ma È fiorita la forsizia gialla timida, un retablo di rinascita - il «verde tenero del salice», «le pratoline» che occhieggiano «qua e là», il vento che ora «lieve» gioca «a nascondino tra le foglie» -, lo è in modo intenso e consolante, anche per la presenza del piccolo Lorenzo con il quale il poeta auspica di potere tornare a giocare.
Per il bambino che si affaccia alla vita, purtroppo in «questo tempo / rotto e vuoto del coronavirus», dominato più che mai da ansie e paure, vengono composte le poesie più lunghe, ‘canzoni’ dei nostri giorni. Io canto per Lorenzo, che offre un quadro lucido e sofferto della pandemia, e A Lorenzo, con cui gli consegna quel che di meraviglioso e negativo c’è nel mondo. E soprattutto la speranza che possa «[…] cambiare strada e il mondo / sfidare l’incognito con coraggio» e che possa costruirsi una vita con i suoi «sogni».
Per concludere non resta che parlare dell’altro tema forte che caratterizza e percorre questi versi sfusi e che profondamente sento anche mio.
Corrono veloci questi ultimi anni, nella brevità dei suoi cinque versi, racchiude e nello stesso tempo esplicita la dolorosa percezione che si ha, raggiunta una certa età, della fine ormai vicina, quando ormai «invisibile la morte ci tiene compagnia», quando si è «smarrito il cuore nella nebbia / E le certezze non sono che fantasmi» (La sera chiude il giorno). Dove la fine del giorno, il perdersi nella nebbia, i fantasmi delle certezze dei tempi andati possono essere letti come una turbata prefigurazione della morte.
Il poeta sente che il sottile filo della vita si può spezzare da un momento all’altro e che è arrivato il momento di fare un bilancio della sua esistenza. In Saldi di fine stagione brevi sogni confusi, nel tentativo ultimo di pareggiarlo questo bilancio, alterna immagini di decadenza del corpo e paura della morte con altre che parlano di un desiderio mai sopito di recuperare nei saldi di fine stagione (leggasi vita) «parole antiche», che lo aiutino a ritrovare «una musica lieve» che sia balsamo per il «cuore afflitto»; di riuscire a respirare ancora «[…] tra le vecchie emozioni / di quel passato veloce una boccata d’aria fresca / prima di morire impreparato secco di paura».
Nonostante Curto affermi di essere pronto per l’ultimo viaggio, «il più leggero», voglio chiudere questo scritto con altri suoi versi che parlano sì di un allontanarsi dalla riva, di un ritorno impossibile, di un orizzonte che sfuma e che, tuttavia, ce lo mostrano nell’atto di guardarlo, questo orizzonte, sia pure da una prospettiva diversa, con i suoi occhi vividi, ancora curiosi, ancora aperti alla vita.