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giovedì 30 settembre 2021
PIETRE DI INCIAMPO
È stato difficoltoso persino per me, che mi ci sono messo di buona volontà, inciamparvi
e individuarle. Impossibile, inoltre, riuscire a fotografarne alcune per
segnalarle agli amici. Insomma, una esperienza frustrante e che per molti versi
mi ha indispettito e irritato. O si trova il modo di sistemarle in maniera tale
che uno se le possa trovare davanti in tutta lo loro evidenza, oppure è meglio ricoprirle
col nero del catrame dell’asfalto. Come era nero il regime che ne ha messo a
morte gli uomini e le donne e che noi abbiamo trasformato in inutili pietre.
RIFORME. I RICCHI NON PAGANO MAI
di
Alfonso Gianni
Cosa c’è dietro la riforma che ancora non c’è?
Era atteso in Parlamento entro
il 31 luglio di quest’anno. Così resta scritto nel Piano nazionale di ripresa e
resilienza. Poi il disegno di legge delega di riforma fiscale è stato rimandato
di settimana in settimana e ancora oggi nessuno può scommettere che sia
realmente in dirittura d’arrivo. La riforma fiscale non è tra quelle che il
Pnrr considera di contesto o “abilitanti”, ma di “accompagnamento” alla
realizzazione degli obiettivi generali e quindi “parte integrante della
ripresa”. A sottolinearne la rilevanza era stato lo stesso Presidente del
Consiglio quando, nel suo discorso sulla fiducia, aveva paragonato il lavoro da
fare, nella sua portata e nel metodo, a quello compiuto nei primi anni Settanta
dalla Commissione guidata da Cesare Cosciani e Bruno Visentini. Poi si scoprì
che quei passi erano stati copiati da un editoriale di Giavazzi di qualche
tempo prima. Una scelta poco raffinata, ma che non scalfiva l’enfasi posta sul
tema. Al quale evidentemente Mario Draghi intendeva legare la sua credibilità
nel paese e soprattutto in Europa. Il continuo via vai fra le Commissioni
parlamentari che adottarono un testo - davvero pessimo - che avrebbe dovuto
facilitare l’opera del governo nella stesura definitiva e il gruppo di esperti
messo in piedi dal Mef mostra che non siamo di fronte a qualche tecnicalità o
al pericolo di incorrere nel rischio dell’eccesso o di carenza di delega, ma ad
uno scontro politico di tutta rilevanza. Lo si è visto nei giorni scorsi con
l’alzata di scudi della destra di governo e di opposizione al solo apparire
della ipotesi di inserire nella legge delega la riforma del catasto. Eppure in
questo caso è giusto dire che “ce lo chiede l’Europa”, visto che al primo punto
delle Raccomandazioni rivolte all’Italia già nel 2019 compariva esplicitamente
la richiesta di “riformare i valori catastali non aggiornati”. Nelle intenzioni
degli “esperti” si tratterebbe di sostituire il metro quadrato al vano come
unità di misura; di scovare le “case fantasma” grazie all’aerofotogrammetria,
che già ha rivelato l’esistenza non registrata di 1,2 milioni di unità
immobiliari; quindi di avvicinare gradualmente le rendite ai valori di mercato.
Ma una misura del genere avrebbe sconvolto i sonni della proprietà edilizia, il
cui peso nella storia politica e sociale del nostro paese è ben noto. Non a
caso già Matteo Renzi, quando era Presidente del Consiglio, bloccò un decreto
attuativo sul catasto già pronto. Ora l’intervento è stato addirittura
preventivo. Non a caso, visto che alla revisione del catasto è legata
un’efficace tassazione patrimoniale. Negando in partenza la prima si renderebbe
meno credibile la seconda. Con buona pace di quanto stava scritto sull’abito
bianco indossato da Alexandria Ocasio-Cortez sul red carpet del Met Gala di
New York. La legge delega dovrebbe
basare il nuovo fisco su un sistema duale, nel quale la tassazione progressiva
verrà limitata ai redditi da lavoro, mentre quella proporzionale riguarderà interessi, dividendi, plusvalenza,
affitti, rendite, redditi figurativi del capitale. Su tutti questi si
applicherà una percentuale fissa che dovrebbe coincidere, secondo quanto emerso
nella discussione parlamentare, con la più bassa delle aliquote progressive che
si applicheranno ai redditi da lavoro e da pensione. Nella delega non ci
saranno indicazioni precise su aliquote e scaglioni, che saranno definiti nei
successivi decreti attuativi. Ma è proprio qui che si concentra buona parte
dello scontro di classe in atto, più implicito che esplicito visto che chi sta
più in basso è privo di rappresentanza politica. L’alleggerimento del carico
fiscale sul lavoro dipende da come saranno disegnati scaglioni ed aliquote. Non
a caso nel 1974 il sistema tributario era costruito su un arco di aliquote che
andavano dal 10% al 72%. Da allora scaglioni e aliquote sono diminuiti
drasticamente e questo ha concorso in modo incisivo all’enorme trasferimento di
ricchezza a favore dei già più ricchi. Ciononostante le destre non hanno
rinunciato ai loro progetti di flat tax e
di riduzione a tre delle aliquote. Ma anche senza arrivare a tanto se si
intervenisse sul terzo scaglione - ove si concentrano i redditi della ambita
classe media - una riduzione dell’aliquota favorirebbe proporzionalmente di più
coloro che si trovano nella parte alta dello scaglione che non quelli che si
trovano nella parte bassa. Ovvero, ai valori attuali, chi si avvicina più ai 55
mila euro che non ai 28 mila, poiché per questi ultimi una riduzione agirebbe
solo su una parte minimale del loro reddito. Nel contempo pare non si proceda
ad alcun intervento sull’Iva, tagliando in partenza i progetti di una lotta
efficace all’evasione, mentre si parla della sparizione dell’Irap. Proprio
quest’ultima potrebbe essere anticipata nella legge di bilancio con il rischio
che la famosa riforma si riduca solo a questo o poco altro, ovvero che
l’antipasto si mangi le altre portate. Non si tratterebbe di mancanza di
risorse, ma di una perversa volontà politica cui Draghi non pare voglia opporre
resistenza. Anzi. Sta di fatto che una riforma considerata essenziale per la
ripresa, - mentre si celebrano le magnifiche sorti del “rimbalzo” economico -
ancora non c’è e per ciò che se ne sa è cosa prudente non attendersi il meglio.
ARTE
Associazione GaEle presenta: ALL'ORA DEL TÈ
L'arte di Yve Janssens Poucet
Personale alla Piccola Galleria del Disegno a Cuvio
(VA),
via XXV Aprile n. 22
2 Ottobre ~ 16 Ottobre 2021
2 Ottobre ore 17 inaugurazione
La mostra sarà visitabile su prenotazione telefonando
ai numeri in calce. Presente in Galleria il manufatto realizzato da GaEle
Edizioni in edizione limitata, con piccole opere di Yve Janssens Poucet.
Sia l'atto del camminare che l'atto del fermarsi hanno
qualcosa in comune. È dalla notte dei tempi che l'Essere Umano ha mosso i
primi passi per esplorare terre sconosciute, l'Ignoto ha sempre rivestito
un'attrazione magnetica e irresistibile, che può condurre a ritrovarsi o perdersi. Il Viaggio, materiale o dentro se stessi è un momento
di crescita personale, filosofico, che permette l'evoluzione dell'Umanità, creando
interconnessioni culturali: "Più si conosce, più si ama. Più si ama,
più si conosce", grazie anche alla calzatura importante non solo
esteticamente, che ci accompagna, ci protegge, ci permette di calpestare
strade, idealmente oltrepassare e valicare confini. Le tappe di questo Viaggio
sono momenti per soffermarsi e ritemprarsi per altrettanti scambi culturali.
Il Thè può essere simbolo di sosta, di ricreazione
dello spirito, di riflessione. Infatti la storia del Tè è antichissima quanto quella
del rito per la sua preparazione nel Mondo, dalla Turchia alla Russia, dal
Marocco all'Inghilterra, dal Giappone all'India. Inizialmente l’infuso di Camellia sinensis
veniva utilizzato a scopi medicinali. Poi, con il tempo, la bevanda iniziò a
essere talmente apprezzata che gli uomini decisero di portare le foglie nei
viaggi, condividerle, farle conoscere. Il Thè così iniziò ad assumere
concezioni differenti, a essere preparato secondo riti che cambiavano a seconda
dei luoghi e dei popoli che incontrava, diventando anche scambio culturale,
momento conviviale.
Associazione GaEle propone un'ideale unione di tutto
ciò, la calzatura e la bustina del Tè, dipinta dalla mano di Yve Janssens Poucet,
realizzando in tiratura limitata 57 esemplari di piccoli libri che contengono
un'opera dell'artista.
Yve Janssens Poucet, nata a Leuven, in Belgio, fin da
bambina è sempre stata intrigata dai colori e la vita le ha dato la possibilità
di esplorarli sia con l'acquerello che con l'acrilico. Le piace rappresentare momenti
della vita quotidiana adattandoli alla sua immaginazione. Da tanti anni risiede
in Italia.
Per info e prenotazioni:
3336644334 ~ 3285768391
mercoledì 29 settembre 2021
NOTA AL DIZIONARIO MARX ENGELS di Carlo Sini
Marx ed Engels
Il
filosofo Carlo Sini sul volume a cura di Fulvio Papi
nella
recente edizione Hoepli.
Un
Dizionario è ovviamente un esercizio di scrittura alfabetica a partire dalla
immaginaria “cosa” che ne è oggetto: le parole ridotte a lemmi. Che le parole
possano essere isolate e tradotte in segni grafici linearmente progressivi,
cioè alfabeticamente intesi, dipende appunto dall’averle tra-scritte secondo
una logica precisa di scrittura, ovvero secondo un esercizio “materiale” della
mano, dell’occhio, del supporto, dell’inchiostro, della compitazione e della
lettura sonora o silenziosa e così via. Per un soggetto precocemente alfabetizzato
tutto questo è facile dimenticarlo o non diventarne mai neppure adeguatamente consapevole.
È la pratica della scrittura, con la sua logica operativa, che produce
“letteralmente” parole-lemmi e l’illusione di “significati” in sé delle parole,
“ontologicamente” o realisticamente intesi. Il fatto di scrivere è assunto
infatti come un modo per costruire parole-cose oggettive, costanti,
collettivamente e universalmente condivise, sottraendole alla interpretazione
arbitraria o, come si dice, “soggettiva”. Per esempio, come è di fatto
accaduto, scrivere le leggi che governano la vita di una comunità per evitare
che, con la scusa della tradizione, del “si è sempre fatto così”, alcuni
prepotenti ne pieghino di volta in volta il senso a loro vantaggio. L’esito
effettivo di questa iniziativa di scrittura non è evidentemente l’astratto
riconoscimento di un significato “oggettivo” delle norme viventi, operanti
quotidianamente in una comunità: un significato che non è mai esistito prima astrattamente in sé. È appunto il
lavoro della scrittura che produce di
fatto l’idea di una oggettività permanente dei significati in quanto
scritti e come tali riconosciuti “politicamente” dai lettori: questo il suo
pregio e anche il suo limite. Di fronte all’arbitrio sfacciato la legge scritta
è un riparo efficace, ma anche limitato. Anzitutto perché lo scritto non parla
da sé ed esige interpretazioni, come si dice, “discutibili”; e poi perché le
condizioni di vita cambiano ed è la stessa azione della legalità “scritta” a
contribuire a promuovere il mutamento.
Marx ed Engels |
Il filosofo Carlo Sini nel suo studio
In
linea generale le scritture sono mappe operative seguendo le quali certi esiti
dell’azione risultano garantiti. La linea azzurra sulla destra dice che, in
quella localizzazione, troverete un fiume: contateci. Perché, come, a qual
fine, con quali emozioni, speranze e timori quanto al fondo sostanziale della
vostra esperienza di cammino è del tutto cancellato: non è affare della mappa.
Anche il dire della parola orale stabilisce a suo modo una intesa intersoggettiva,
e in questo senso una comunicazione “sociale”: «Se tieni la destra, troverai un
fiume, che, in questa stagione, è abbastanza guadabile…». A questa trasmissione
confidenziale la scrittura aggiunge l’irresistibile e peculiare effetto-pretesa
della “oggettività” e della “realtà in sé”: così è scritto perché la cosa sta così. Salvo errore e salvo
inganno, ovviamente. La scrittura “sospende” il corpo vivente del locutore e
gliene assegna un altro: il corpo grafico impersonale, universale, oggettivo,
con la relativa credenza epistemologicamente
fondata.
C’è
insomma una differenza rilevante tra “che cosa ha detto in verità” (per esempio Marx) e “che cosa ha scritto in verità”. Nel primo caso siamo
affidati a una memoria vivente (a partire dalla memoria dello stesso Marx, che
potrebbe manifestare dubbi, oscillazioni, addirittura errori); nel secondo caso
disponiamo invece di una memoria “strumentale” con le sue tracce oggettive
(dallo scritto ad altri sistemi “tecnici” di registrazione). È facile allora
ravvisare tutti i meriti della scrittura (in ogni senso intesa), legati alla
sua funzione conoscitivo-analitica, sulla quale funzione non è lecito dubitare.
Per esempio possiamo render noto quante volte e dove Marx ha scritto nelle sue
opere la parola ‘essenza’, in quali contesti e in quali relazioni (cosa di cui
lui stesso non ha certo memoria né coscienza) ed è ovvio che il saperlo apre a
considerazioni importanti.
Tuttavia
il sapere mostra la sua grande efficacia nel “che” (universale, impersonale e
verificabile: “il sole spunta per tutti a Oriente”), ma nel contempo mostra
anche l’estrema fragilità circa il “che cosa”, il “come” e il “perché”, ovvero
in relazione a ciò che spesso indichiamo con l’espressione “il contesto”, che
appunto non è affatto un testo, ma qualcosa cui alludiamo con espressioni come
“il vissuto”, “l’esperienza vivente”, “l’interpretazione personale”, “il mondo
circostante” ecc. Qualcosa infine che sta nel più profondo del dire, e
conseguentemente dello scrivere, e che nel dire incontra sempre e soltanto la
sua imperfetta e irresolubile manifestazione contingente; ovvero, come diceva
Peirce, la sua mobile interpretazione e il suo rimando illimitato o infinito.
Il filosofo Fulvio Papi alla scrivania
Nelle
sue considerazioni introduttive al Dizionario
Fulvio Papi ne fornisce una consapevolezza tanto profonda quanto rara e
preziosa. Ricorda il desiderio che fu primo motore di tutta l’impresa:
combattere il “marxismo popolare” del sessantottismo ignorante, ideologicamente
rozzo e primitivo, approssimativo e violento: ho vissuto quei tempi e comprendo
bene ciò a cui Papi allude, sebbene ovviamente a modo mio, ma quanti oggi sono
in grado di farlo? Papi sa anche bene che i suoi stessi collaboratori e
compagni di lavoro vissero a loro modo il grande e virtuoso progetto e che
questa situazione accompagna irrimediabilmente ogni azione collettiva. Le
nostre azioni accadono, diceva Nietzsche, in una atmosfera vaga, incerta,
opaca, e così le “mode” culturali imperscrutabilmente cambiano: nella nuova
esplosione di interessi verificatasi dopo il Sessantotto nei confronti di
Heidegger, dell’ermeneutica ecc., che cosa hanno veramente detto o scritto Marx
ed Engels cade fuori dalla domanda generale vivente, non provoca più polemiche
culturali e politiche, scontri di idee al calor bianco e così via. Nell’insieme
uno spettacolo piuttosto desolante, che negli ultimi decenni, con la
progressiva trasformazione della cultura in esibizione mass-mediale, sembra
essere sempre più diffuso.
Ma
che cosa infine è una parola, nella sua astrazione intellettualistica e
sostanza immaginaria? Forse il punto d’incontro e di emergenza di innumerevoli
vicende, di incalcolabili storie, di azioni e reazioni contingenti e costanti
in continuo movimento. Il Capitale di
Marx analizza e descrive un sistema produttivo, dei rapporti sociali e delle
conseguenze politico-economiche; ma nel frattempo, osserva Papi, nel suo tempo
e successivamente nascono nuove tecnologie, efficaci e potenti; nascono nuove
figure, nuovi ruoli lavorativi, quindi altre e impreviste relazioni tra nuovi
ceti sociali, quindi riflessi economici e politici partoriti dalla mutata
situazione, nuovi modi della contesa pubblica, con conseguenze anche nella vita
privata e nelle relazioni di genere, di cui la comprensione sociale proposta
dal Capitale è stata certo un fattore
innovativo a sua volta rilevante… Bene, non dobbiamo allora dire lo stesso a
proposito del progetto di un Dizionario? Non nasce anch’esso da situazioni e
interessi storicamente e quotidianamente mutevoli? Non è uno strumento di
produzione della cultura che ha una sua storia, che ha avuto una nascita
precisa in un mondo storico definito, e che forse un giorno morirà? Così
possiamo imparare a comprendere le profonde avventure di un libro, quelle della
nascita e oggi quelle della sua ripetizione a distanza di 38 anni. Il mondo è
cambiato e così gli autori e il senso collettivo delle parole: Papi ne è
lucidamene consapevole. Ma qualcosa della prima emozione vivente, con il suo
politico intendimento, è tuttora presente al fondo della trasformazione. Vorrei
ricordarlo con le parole stesse di Fulvio Papi, che sono in proposito
perfettamente adeguate (e per me largamente illuminanti e pienamente condivisibili).
«In
generale credo occorra liberare la considerazione della tradizione marxista
dalle affettività troppo violente. Abbassare il tono emotivo è utile anche per
sopportare con chiarezza intellettuale quell’enfasi delle congiunture che,
sull’onda di opinioni di massa, decidono morti, superamenti e resurrezioni di
autori, dottrine e teorie (spesso degne della più alta considerazione, per
ragioni profondamente diverse). L’oggettività di un dizionario potrebbe forse
aspirare a una terapia della volgarità. Rendere controllato e controllabile il
rapporto con un lessico dovrebbe educare al sospetto sull’uso delle parole. In
questo senso particolare il dizionario è un’opera critica» (Op. cit., p. XIX).
Dizionario
Marx Engels
A
cura di Fulvio Papi
Hoepli
Ed. 2021
Pagg.
412 € 37,90
PER IL PROFITTO SI MUORE OGNI GIORNO
di Michele Michelino
Il capitalismo continua a uccidere, altri operai sono stati uccisi
sul posto di lavoro. Un
rituale che avviene ogni giorno.
Le chiacchiere e i proclami sulla sicurezza di
governo, padroni e sindacati confederali in Italia non impediscono la mattanza
di operai. La modernità del capitalismo basata sullo sfruttamento sempre più
intensivo dei lavoratori provoca ogni giorno morti, feriti e invalidi, come
nell’Ottocento. Due operai sono morti intossicati
all'interno del Campus dell'università Humanitas di Pieve Emanuele.
Si chiamavano Emanuele Zanin di 46 anni e Jagdeep Singh di 42
anni. Sono morti mentre cercavano di caricare una cisterna di azoto liquido
usato nei laboratori dell'Ateneo e per alimentare l'impianto antincendio. Entrambi
lavoravano per la ditta "Autotrasporti Pe" di Costa Volpino che
lavora in subappalto per la monzese Sol Group spa. La nuova legge del
governo draghi su appalti e subappalti ha già cominciata a produrre vittime. Ora come sempre mentre le
famiglie piangono la loro morte, si aprirà l’ennesima inchiesta della procura
di Milano con l’ipotesi di omicidio colposo e dell’ATS per verificare se ci
siano stati errori nella manovra, mancanze strutturali o responsabilità di chi
non ha fornito ai lavoratori i Dispositivi di Protezione Individuali e collettivi. L'azoto liquido per il
raffreddamento dei frigoriferi che custodiscono farmaci o reperti biologici può
raggiungere una temperatura di 200 gradi sotto lo zero.
Come sempre in questi
casi si sprecano le lacrime di coccodrillo delle istituzioni. L’Humanitas ha espresso “profondo
cordoglio e vicinanza alle famiglie delle due vittime”, il Pd scrive sui social
che "Non si può e non si deve morire di lavoro, nessuno dovrebbe perdere
la vita mentre lavora”, intanto invece di spendere qualche euro in
prevenzione si continua a mandare i lavoratori a macello.
Questa società che per il profitto
distrugge gli esseri umani e la natura è una società barbara e inumana che
merita di essere distrutta dalle fondamenta.
I morti sul lavoro sono delitti contro
l’umanità e verrà il giorno in cui padroni governi e sindacati complici
pagheranno caro, pagheranno tutto.
martedì 28 settembre 2021
LUTTI NOSTRI
di
Ettore Buccianti
Paolo Maria Di Stefano
Paolo
Maria Di Stefano, “il Gentiluomo”, come lo chiamavo io per i suoi baciamano
d’altri tempi, la sua signorilità, la sua classe, si è spento giovedì 23
settembre al Policlinico di Milano, città dove aveva a lungo vissuto, nella sua
casa di via Verdi difronte al Teatro alla Scala. Il giorno prima io mi ero
operato all’occhio destro, ed ero praticamente “fuori gioco”. Paolo era nato a
Reggio Emilia il 13 novembre del 1936, ma aveva studiato a Perugia dove si era
laureato in giurisprudenza col massimo dei voti. A Perugia, il capoluogo umbro
dove sarà seppellito, si era trasferito con la famiglia per seguire il padre
magistrato, e ne aveva conservato l’accento. Saggista, narratore, amante della
fotografia e autore di ottimi versi, di lui mi piaceva fondamentalmente la sua
sottile e bonaria ironia. Avremmo dovuto fare ancora tante cose insieme, ma il
Covid si è messo di traverso. Ci ha impedito più volte, e per lui era un
impegno d’onore, vederci con le rispettive signore, la mia e la sua carissima
Liana Macoggi, figlia del noto pianista, perché c’erano delle crêpes in sospeso
che ci aspettavano. E ci ha impedito di fare un incontro a Santa Margherita
Ligure su uno dei suoi ultimi libri. Aveva perso la sua unica e promettente
figlia giovanissima, con la quale mantenne per tutta la vita un dialogo così
intenso, che io stesso mi ero convinto che davvero lo spirito di Alessandra
aleggiasse attorno a lui e a Liana. Anche per questa dolorosa fedeltà Paolo e
Liana mi sono cari. [Angelo Gaccione]
Paolo Maria Di Stefano |
Milano.
La scomparsa improvvisa di Paolo Maria Di Stefano lascia gli amici addolorati
per la perdita di una persona di grande cultura e sensibilità. I lettori di
“ODISSEA” hanno più volte incontrato la sua firma su articoli stimolanti e mai
banali. Era un polemista, ma con garbo: difendeva le sue idee cercando il
sostegno di argomentazioni valide e rinunciando a scontri dialettici
improduttivi. I temi erano trattati da Paolo in profondità con l’aggiunta di
arguzia ed il ricorso ad elementi documentali che traeva dalla vastità delle
sue conoscenze.
Paolo
è professionalmente nato come uomo d’azienda ed ha ricoperto importanti
incarichi nel settore della comunicazione, per poi passare ad approfondire lo studio delle tematiche di Marketing con la pubblicazione di numerosi libri e
l’insegnamento in varie Università. Aveva cercato di utilizzare le tecniche di
marketing anche nel settore politico con grande innovazione e intraprendenza.
Sono da ricordare anche i suoi articoli per la rivista on line “Storia in
network” che trattavano argomenti di storia contemporanea con rara competenza
ed imparzialità.
Primeggiava
tra i suoi interessi la fotografia, con immagini raffinate e molto pittoriche.
I suoi libri erano sempre dedicati alla memoria di Alessandra, la figlia unica
prematuramente scomparsa a soli 27 anni. La ragazza si era brillantemente
laureata in architettura svolgendo una tesi sul tema costruttivo del “ponte”.
Un argomento che sarebbe, poi, diventato d’attualità con la vicenda del ponte
Morandi, ma il termine ha anche un significato allegorico di unione tra mondi e
persone. Paolo non aveva mai rinunciato a mantenere vivo il ricordo di questo
ponte ideale con Alessandra. Anche noi vogliamo che il ponte ci tenga in
collegamento con Paolo e continueremo a ricordarlo con il più grande affetto.
DRAGHI E LA CONFINDUSTRA
di Alfonso Gianni
Draghi vuole cambiare la storia del nostro Paese.
Il discorso tenuto da Draghi
agli imprenditori riuniti da Confindustria ha avuto un indubbio successo che ha
un preciso significato politico su cui conviene riflettere. Non avendo un
applausometro è difficile stabilire se la standing
ovation che i 1170 invitati alla Assemblea nazionale della Confindustria
hanno tributato a Mario Draghi, abbia superato o meno, per durata e intensità,
gli applausi riservati ad altri presidenti del consiglio in occasioni passate.
Come, per esempio, quelli che hanno accompagnato l’affermazione di Berlusconi
nel 2017 al convegno dei giovani industriali a Capri, quando definì gli
imprenditori “eroi”. Non è la prima volta che i partecipanti alle assise
confindustriali applaudono Draghi. Era già accaduto dieci anni fa, come ha
ricordato Bonomi, quando “l’uomo della necessità”, secondo lo stesso capo di
Confindustria, era presidente della Bce.
Ma questa volta l’accoglienza a Draghi ha significato un
salto di qualità nei rapporti fra Confindustria e governo. Non erano così caldi
all’inizio. L’associazione padronale aveva adottato una tattica più insidiosa,
cercando di disarticolare la nuova maggioranza, ministero per ministero, quasi
a costruirsi una propria interfaccia governativa. Risultò evidente quando gli
strali confindustriali si concentrarono con successo sul timido tentativo del
ministero del lavoro di prorogare il blocco dei licenziamenti. Il gioco diventò
scoperto quando Confindustria riuscì a modificare il testo dell’avviso comune
fra Governo e Sindacati al punto da toglierne qualsiasi efficacia.
Il fatto che l’ovazione nei confronti di Draghi sia
partita prima ancora che il Presidente del Consiglio prendesse la parola mostra
appunto che non si è trattato di un fatto emozionale, ma politicamente
orchestrato.
Il discorso di Draghi si è limitato, nella sua prima
parte, a riprendere elementi noti, cavalcando la corsa del Pil previsto al 6% a
fine anno, ma con minore enfasi rispetto ad altri. Ha ricordato che si tratta
di un rimbalzo dalla situazione molto grave (-8,9%) del 2020 e che per parlare
di ripresa bisogna aspettare l’anno che viene, sapendo che “tra i dipendenti,
tre quarti dei nuovi occupati” sono con contratto a termine e che “nel 2020,
più di due milioni di famiglie erano ancora in condizione di povertà assoluta”.
Ma “il rafforzamento dell’economia passa attraverso l’apertura dei mercati”,
confermando un’impronta ordoliberista per cui l’intervento pubblico, non
eccessivo, deve soprattutto accogliere le logiche private della profittabilità.
Con conseguente esaltazione del ruolo delle imprese.
Ha certamente ragione Landini nel lamentare che su
questioni cruciali il Presidente del Consiglio non abbia speso parola o quando
lo ha fatto, di sfuggita, l’abbia fatto male. Sulla scottante questione delle
multinazionali: silenzio. Sull’aumento delle bollette energetiche solo
l’impegno ad eliminare per l’ultimo trimestre gli oneri di sistema. Parole di
circostanza sulla transizione ecologica. Sul Mezzogiorno ci si accontenta del
40% degli investimenti e a un semplice cenno alle aree interne. Sulla riforma
fiscale, il cui testo ancora non c’è, Draghi ha confermato che il governo non
intende alzare le tasse, il che equivale a rassicurare sull’assenza di
qualsiasi patrimoniale.
Ma il senso politico del
suo discorso arriva alla fine. In cauda
venenum. Draghi proclama l’esigenza di “una prospettiva economica
condivisa” che subito identifica con quella di “patto sociale” lanciata da
Bonomi. Il che raccoglie le perplessità di Landini nel dopo assemblea, visto
che il “patto” non è sostanziato da proposte precise e naturalmente
l’entusiasmo del segretario della Cisl fautore del ritorno della concertazione.
Per farlo Draghi rovescia letteralmente il senso della storia sociale e
politica del paese. Per lui la ricostruzione post-bellica era dovuta alle buone
relazioni tra le parti sociali, cancellando le lotte durissime, i reparti
confino, i corpi di operai e contadini lasciati inerti sul terreno dopo le
cariche della polizia. Mentre considera la stagione che diede vita allo Statuto
dei diritti dei lavoratori e alle uniche riforme che il paese ha conosciuto,
come quella in cui “col finire degli anni ’60” avremmo assistito “alla totale
distruzione delle relazioni industriali”. Il protagonista della ricostruzione
di allora, il conflitto sociale e politico non solo viene fatto sparire, ma
colpevolizzato di un degrado sociale che invece ha tutt’altri tempi e cause.
Invece levatrice di una nuova narrazione sarebbe “la virtù dell’impresa… di cui
l’Italia andrà fiera”. Quella virtù, come invece ben sappiamo, che è causa
delle basse retribuzioni, della precarietà, del divario crescente Nord-Sud,
dell’aumento della povertà, della insistenza di avere tutti al lavoro in piena
pandemia, malgrado sia stata e tutt’ora venga ampiamente foraggiata dal denaro
pubblico. Che distanza fra i Campi Bisenzio della Gkn e l’Eur della
Confindustria. Realtà antagoniste. Nella seconda vincono Draghi e Bonomi. Nella
prima no. Come ben si vede il conflitto sociale che si vorrebbe cancellare
dalla storia del passato e per il futuro è ben presente. Come fattore di
progresso civile ed economico.
DIFENDERE IL PATRIMONIO E LA STORIA
di Richard Hall*
Scenario di Costa San Giorgio
Firenze
Sydney. Dapprima della
pandemia di Covid 19, a partire dal 2006, vengo in viaggio a Firenze quasi ogni
anno, per restarci ogni volta da uno a tre mesi. Per me l’Oltrarno è un posto
molto speciale. In un caso ho abitato con mia moglie per tre mesi in Piazza
Santa Felicita. Una delle mie passeggiate predilette, che ho fatto tante volte,
parte da Viale Galileo, prosegue per Via San Leonardo fino a Forte Belvedere e
a Porta San Giorgio, e raggiunge Piazza Santa Felicita scendendo lungo Costa
San Giorgio accanto a Villa Bardini, alla Casa di Galileo Galilei e alla Chiesa
di San Giorgio alla Costa. Molte ore ho trascorso nel Giardino di Boboli e nel
Giardino Bardini, e più mostre ho visitato dentro Villa Bardini. È una parte
unica, questa, e incontaminata, della città di Firenze. Le strade strette e
ripide sono la materializzazione della Firenze medievale e rinascimentale, e
raccontano le tante storie di quei tempi e di quella cittadinanza. È una zona
abitata ancora da Fiorentini e, ad oggi, è immune dagli sviluppi che hanno
trasformato altre parti della città. Per i residenti attuali, e per coloro che
abitano il territorio fiorentino, essa rappresenta un continuum col loro
“patrimonio storico e culturale”.
L’indotto delle trasformazioni urbanistiche proposte
in quest’area ne cambierà per sempre i connotati, aprendo un varco a quelle
condizioni che hanno modificato altre parti di Firenze. L’accesso pubblico ai
beni restaurati non è in grado di controbilanciare le conseguenze negative
dello scollamento dal patrimonio culturale che un processo del genere
determinerebbe.
Sono certamente d’accordo col riutilizzo di questi
siti storici che da tempo non sono più fruiti. Ma - come avviene con
successo in molte altre città - il recupero di questi luoghi dovrebbe
salvaguardare il patrimonio e la storia. E a beneficiarne dovrebbero essere
quanti più cittadini possibile piuttosto che uno sparuto numero di
visitatori facoltosi.
*Ingegnere Consulente, Sydney, Australia
Firenze