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domenica 12 settembre 2021

VESTA E L’OLTREPO
di Gabriella Galzio

 
Al volgere del millennio James Hillman, allievo di Jung e uno dei maggiori pensatori del Novecento, tenne a Milano una conferenza memorabile che suonò quasi come un monito. Metteva in guardia dal seguire in modo unilaterale le spinte mercuriali della nostra epoca verso una sempre più accesa dinamica e accelerazione a rischio di sbandare. Per questo raccomandava di recuperare quella polarità psichica complementare all’alato Mercurio che va sotto il più riservato nome di Vesta. Come l’uno faceva la spola tra la casa e il mondo, l’altra presidiava la centratura, l’intima quiete della casa. E quanto fosse importante il ruolo della Dea in quelle civiltà geocentriche (greca e latina), è dato dal suo essere presidio tra due fuochi: del focolare domestico e del fuoco pubblico. In un’epoca, la nostra, dove la casa come dimora di affetti e centro di stabilità rischia di svuotarsi di sostanza e anima, quel monito, più che passatista – il ritorno alla vestale del focolare -, suonava avveniristico. Per me fu la conferma e la rilettura di una scelta, fatta dieci anni prima, di trovare radicamento in una casetta in pietra di torrente tra le colline dell’Oltrepò pavese. Prima ancora della casa avevo scelto una piccola valle, quella “valle del fare anima” di cui parlava il poeta romantico John Keats; mi si era aperta dinanzi inattesa: una verde vallata a perdita d’occhio come un’eco di silenzio. Fu lì che decisi di radicarmi, di trovare casa. Venivo da un passato di sradicamento – scuole straniere, frequente cambio di residenze e abitazioni – e andavo incontro a un futuro professionale più che mercuriale, direi sconnesso: sull’onda dei progetti Esprit dell’Unione europea venivo scagliata dall’azienda nelle varie capitali europee - andata e ritorno in giornata - costretta a prendere l’aereo con la stessa disinvoltura con cui si prende l’autobus. Ed ecco che quella rustica casetta in pietra di torrente era diventata il mio rifugio, la mia tana, la salda centratura nell’occhio del ciclone. Nel tempo era diventato un rito: passato il Po’, mi lasciavo alle spalle la civiltà urbana e i suoi travagli; lasciata la strada nazionale battuta dai motori della pianura, mi addentravo tra le colline silenziose talvolta nella luce dorata del tramonto… di soglia in soglia lasciavo il mondo civilizzato per tornare a sintonizzarmi con le sonorità naturali, la grazia degli animali del bosco, il respiro degli alberi. Senza accorgermene sono passati trent’anni, compendiati forse in un libro di poesia, Breviario delle stagioni, quasi un libro di preghiera in versi per propiziare la sacralità del tempo ciclico e la dimensione contemplativa che la illumina - dove Vesta è vestale del “tempo che sa di tempio”.