Il
Racconto CAPELLI D’ANGELO* di
Alessandra Paganardi
Illustrazioni di Max Hamlet Sauvage
Il
turno di notte è sempre stato il mio preferito. Soprattutto d’inverno, quando
il vapore di condensa sopra le risaie le fa sembrare piccole insospettabili
fabbriche di vita: come fossero stagni, o alveari visti da lontano. Mi
ricordano le ghiacciaie cariche di gelati, alte e massicce, di quando ero
bambina: si aprivano dall’alto e sprigionavano nebbia fresca e buona, che già
da lontano profumava di vaniglia e cioccolato e ci diceva di correre al bancone
del bar, di afferrarla sopra un cono variopinto, di morderla finalmente dal
vero. Da
giovane volevo diventare infermiera. Se non ci sono riuscita è stato per un
insieme di circostanze: non sono mai stata brillante negli studi e ho un carattere
schivo e orgoglioso, disadatto all’ambiente ospedaliero, che per molti aspetti
somiglia un po’ a una gerarchia militare. A metà del secondo semestre, ancor
prima di sostenere gli esami fondamentali, mi dimisi dall’internato e chiesi di
diventare ausiliaria. Fui assunta subito, forse proprio grazie alla mia
preferenza per il turno di notte. A volte è una vera fortuna amare ciò che
nessuno ama. Il
lavoro mi piaceva. Intabarrata in un bel camicione informe color blu, che
sembrava fatto apposta per un’obesa cantante di gospel, mi sentivo efficiente e
persino graziosa. Lavoravo dalle dieci di sera alle sei di mattina, avevo
pochissimi rapporti con il personale e non dovevo portare il caffè a nessuno.
Giravo con il carrello delle pulizie, lasciandomi dietro quel sentore d’alcool
denaturato ed acido fenico che cominciavo lentamente ad amare e che mi
accompagnava anche fuori, penetrando nella pelle come una fragranza originale e
tutta mia.
Non
essendomi mai sposata, dovendo provvedere unicamente alle mie singole esigenze
di riposo sindacale, trovavo del tutto naturale prendere ferie nei periodi meno
richiesti dell’anno. Forse proprio questa flessibilità, unita alla mia
sorprendente mancanza d’ambizione, ha finito per rendermi con l’andare del
tempo assai bene accetta ai dirigenti. Pochi mesi prima che l’ospedale venisse
completamente ristrutturato e ingrandito mi fu proposta una riconversione di
carriera per poter svolgere la professione attuale. Presto compresi che era
proprio questo il lavoro che avrei voluto fare da sempre e forse tutto, per vie
misteriose, mi aveva condotto fin lì: l’iscrizione al corso, i malumori, la
rinuncia al diploma, la decisione di restare comunque all’ombra di una corsia,
nella pianura bagnata di nebbia e di risaie dove sono nata e dove tutto sembra
scontato, tranquillo, anche le temperature estreme d’inverno e d’estate - e a
non saperlo non lo crederesti possibile in questa piatta foschia orizzontale,
stesa sulla vita come una tiepida coperta all’uncinetto sulla febbre di un
ammalato. Quando
mi fu affidata Grazia avevo incominciato il nuovo impiego da meno di due anni.
Fino allora avevo vestito molti vecchi, parecchi adulti morti di tumore, rari
bambini idrocefali e qualche cerebroleso senza età. Era da poco passata la
mezzanotte, il turno sembrava tranquillo e stavo cominciando ad assopirmi. Mi
svegliò il rumore del montacarichi, giusto il tempo per non farmi trovare impreparata
ad accogliere il barelliere. Avrei dovuto capire dal suo volto che stava
portandomi qualcosa di speciale. Non mi fu chiaro di che cosa si trattasse,
finché non notai il lenzuolo appena rigonfio sopra la barella, come se
nascondesse qualcosa di piccolo e compatto, appena avvertibile. Le parole del
portantino mi colsero a tal punto senza sorpresa che quasi non le sentii, come nella
scena di un film privo di sonoro: «Tredici anni. Tumore cerebrale. I genitori
si sono barricati in casa e non sono voluti tornare per rivederla. Non hanno
lasciato vestiti, hanno detto di pensarci noi e di non chiamarli fino a
domani…è il loro modo per elaborare. So che puoi pensarci tu». Ci
penso io, balbettai senza suono: no, non chiedevo mai come si erano chiamati i
miei assistiti, ma in quel momento decisi, non so perché, che lei sarebbe stata
Grazia, un nome davvero improponibile per una millenial. Forse lo scelsi proprio perché non poteva essere il suo,
come si usa cambiare il nome secolare per uno pseudonimo d’arte, o in seguito
ad una conversione religiosa.
Se
la morte è ciò che rimane di qualcosa o di qualcuno, non potei fare a meno di
chiedermi che cosa restasse di una tredicenne, che aveva trascorso ammalata
quasi metà dei suoi anni. Nulla, si sarebbe detto, pochissima vita, quasi
nessun ricordo. Invece basta rovesciare la prospettiva comune per capire che di
Grazia rimaneva l’intero, tutto ciò che il tempo non era ancora riuscito a
guastare. Era sufficiente guardarla per capire. Ho visto cadaveri di tutti i
tipi, ma in quella morte c’era qualcosa di terribilmente semplice e intatto: lo
si vede soltanto nei lattanti in procinto di svegliarsi, quando avvertono il
morso acerbo del cibo primordiale che è venuto loro meno. Forse perché in lei
nessuna possibilità, se non la vita stessa, era mai riuscita a diventare
impossibile, Grazia personificava la morte con una nettezza tremenda, che
annullava ogni residuo di sentimentalismo e suscitava soltanto una venerazione
calma, assoluta. La venerazione non si compra e non si ottiene per forza di
volontà: è un miracolo che arriva da solo, come la bellezza. L’idea
di dover scegliere un vestito per quella ragazzina mi sconcertava. L’avevo
fatto altre volte per qualche clochard
arrivato in fin di vita all’ospedale, o per parecchi malati anziani e senza
figli, che non avevano pressoché più nessuno al mondo. Avevo sempre fatto del
mio meglio, ma ora la situazione si presentava diversa: non potevo fallire.
Sarebbe stato come se un soprano stonasse l’acuto finale di una grande opera. Nella
saletta attigua allo stanzone di lavoro, adibita all’origine a spogliatoio e
doccia per il personale, avevo allestito una specie di guardaroba dell’Eden.
Sono panni e monili che i parenti, a volte, regalano per gratitudine a noi
inservienti, affinché li possiamo utilizzare un’altra volta in caso di bisogno:
è un modo insolito e delicato per ricordare il loro caro. Questi vestiti,
appartenuti a generazioni diverse, davano alla morgue l’aspetto decoroso e gentile di una cappella ex – voto. Lasciai
un attimo sola Grazia ed entrai nel mio piccolo santuario. La memoria era già
corsa a un abitino da Cresima appartenuto alla nipotina di una deceduta. Non
ricordavo la taglia, ma non sarebbe certo stato difficile adattarlo alla figura
irrealmente sottile di Grazia, sulla quale l’età ormai pubere, trovando come
predecessore e antagonista la devastazione del male, era passata senza chiasso,
lasciando dietro di sé il rigoglio discreto di certe rose nane di serra.
Mi
sfilai gli orecchini d’argento. Me li aveva lasciati mia madre: avevano una
montatura alquanto appariscente, di quelle antichizzate e un po’ barocche che
sembrano mimare un rosone, ma non erano di dimensioni eccessive, neppure se
pensati su di un volto ben più esile del mio. Al centro, incastonati nelle
spire del rosone, riposavano due piccoli turchesi tondi. Sotto quelle palpebre,
chiare e sottili come la prima pelle di un neonato, gli occhi di Grazia non
potevano che essere stati azzurri. Due pietre di colore simile sarebbero state
gli interpreti discreti di quello sguardo: come quando una mamma, all’uscita di
scuola, intuendo la stanchezza e il malumore del proprio bambino, non gli pone
più domande e per tranquillizzarlo incomincia ad imitarne accenti ed
inflessioni, a parlare al posto suo. Scelsi
infine una bandana azzurra, blu e bianca, con disegni vagamente etnici.
Realizzava un singolare contrasto con l’abito da cerimonia, che da solo, su una
deceduta preadolescente, avrebbe facilmente rischiato di riprodurre la retorica
stucchevole del vestito da sposa, con l’annesso, macabro simbolismo del bacio
della morte. Mentre la sistemavo dietro le orecchie, meravigliata di quanto avessi
fatto in fretta a condurre il lavoro, qualcosa mi colse impreparata. C’era, in
prossimità del foro occipitale, un ciuffo di capelli risparmiato dalla
chemioterapia, lungo fino alle scapole e biondissimo, che non avevo notato
subito per via della luce del neon. Sembrava cresciuto in quelle ultime ore,
tanto era delicato e luminoso: sembrava uno di quei ciuffi di cereali selvatici
che a volte s’incontrano nelle zone semidesertiche. Li distingui dai cespugli
d’erba arida non per il colore, ma per la morbidezza di piuma che le minuscole
cariossidi, anche osservate da lontano, vantano rispetto all’invidiosa fame che
le assedia.
Portavo
con me il portaritratti apribile d’oro intarsiato, altra eredità di mia madre,
che avevo già deciso di regalare a mia nipote Martina per la sua prossima
Comunione. Ci aggiungerò qualcos’altro, mi dicevo sempre, ma non riuscivo mai a
scegliere un monile che non fosse troppo distante dal mondo di una piccola
donna tanto diversa da me. Quella
notte, un’ora prima di smontare dal mio turno di notte, mentre la fetta di
nebbia marzolina intravista dal finestrone del seminterrato mi avvertiva che
l’alba non era più così lontana, decisi il dono aggiuntivo da mettere nella
custodia cava del portaritratti. L’aprii e vi sistemai l’esile ciuffo di
capelli, dopo averli annodati con due fili di cotone, perché nulla andasse
smarrito. A
mia nipote avrei detto di conservarli con cura, perché erano capelli d’angelo:
sin dalla nascita ognuno ha il proprio custode, che cambia continuamente
insieme con il suo padrone. Certamente Martina non ha creduto alla mia storia,
ma io non volevo che ci credesse: volevo soltanto provare ad offrirle, con il
mio dono, l’ultima fiaba vera. Non so dove sia finito l’angelo di Grazia, o i guardiani
di tutti i bambini che non sono diventati adulti. Ma forse questa fiaba servirà
a far capire a una donna di domani che anche gli angeli, se davvero ci seguono
come la nostra ombra migliore, devono essere capaci di morire.