Autostima e pari dignità per uscire dal patriarcato. Ho passato la giornata di
ieri a cercare di recepire segnali di cambiamento. Forse quello più
significativo è stato, a partire dal linguaggio, che alcuni uomini intervistati
cominciano a distinguere "uomo" e "maschio", segno che
iniziano a guardarsi dentro e dall'esterno, e a recepire che siamo sì un'unica
specie, ma articolata in due sessi, con buona pace della retorica
universalistica della parola "uomo". Quanto a retorica poi, le somme
istituzioni hanno dato il loro rinforzo allo status quo: il papa che s'indigna
sulla violenza contro le donne dimentica il papa che dà delle assassine con
tanto di sicario alle donne che abortiscono (a casa mia si chiama violenza morale);
e il presidente della repubblica dimentica che gli alti vertici delle
istituzioni (compresa la presidenza della repubblica) sono maschi, con qualche
eccezione riservata a femmine di fatto "cooptate", e questo
banalmente perché le attuali istituzioni sono state concepite da maschi sulla
base di valori maschili spacciati per universali. Rare sono state le analisi
del fenomeno della violenza contro le donne che avessero la profondità di campo
dell'analisi di una intera civiltà, quella patriarcale. Non è mai stato fatto
cenno, ad esempio, all'obbligo della patrilinearità (riconoscibile anche dal
cognome, quello del padre è "obbligatorio", mentre quello della madre
è solo "opzionale") che affonda le sue radici storiche nella
destituzione della legittima matrilinearità, dorsale naturale di ogni ulteriore
aggregazione in clan; quale migliore ricatto per soggiogare le donne, se non
togliere loro i figli (assetto riproduttivo) e sottrarre loro i beni (assetto
produttivo)?! Quello che avviene ancora oggi a tante donne vittima di violenza,
che subiscono per timore che venga fatto del male ai figli o non hanno la forza
di andarsene perché non dispongono dell'indipendenza economica, è la
ricapitolazione filogenetica della storia patriarcale, dal "rape"
delle origini (in inglese la parola "rape" porta l'ambivalenza di
significare "ratto" e "stupro") all'odierno stupro di
guerra. E sì, perché c'è un nesso tutto patriarcale che salda insieme stupro,
come "dominio" del maschio sulla femmina, e guerra, come
"dominio" del maschio sul maschio. E allora varrebbe la pena che i
maschi si interrogassero seriamente sulla loro aggressività (vedi per esempio
il tentativo dello psicanalista Luigi Zoja nel suo nuovo libro Centauri,
l'origine della violenza maschile), ma anche che le donne stanassero il
"basista interno" che le consegna al loro carnefice là fuori. Perché
è indubbio che in 4000 anni di patriarcato uomini e donne hanno introiettato
questa violenza - chi come vittima, chi come carnefice - rafforzata in taluni
casi anche dai vissuti familiari, dalle forme più "blande" della
misoginia a quelle più violente del femminicidio. E allora quello che mi sento
di dire è di incoraggiare le donne a coltivare l'autostima, la propria e quelle
delle altre donne, in un progressivo rinforzo personale e collettivo che
estrometta dalla loro psiche quel pericoloso "basista interno" e
le sottragga al "dominio", per edificare insieme una civiltà fondata
sull'amore che non può prescindere dalla "pari dignità".