Cari miei ascoltatori, quanti siete dalle rive
dell’Arno alle sponde lontane di Austria e di Russia, dove risuonò la mia voce,
cari, mi siete tutti cari, se a questa donna e al suo strano destino volete
dedicare un po’ del vostro tempo e del vostro affetto. Dissero di me molto, quand’ero
in vita, o piuttosto molto sparlarono e sparsero lodi e malignità. Sì, è vero,
feci rumore, e di ciò a conti fatti non mi rallegro, perché nel troppo
chiacchierare la verità rischia di essere confusa e tirata di qua e di là. Ora
che sono un’ombra inconsistente, senza amici che mi facciano onore, senza la
protezione di partiti che di me facciano una bandiera, pure senza più
l’avvenenza che attirava su di me gli occhi di uomini ricchi e potenti, laici e
religiosi, posso spogliarmi di corone e panoplie, e parlarvi di me guardandomi
allo specchio. Io stessa non mi raccapezzo più fra i racconti, le polemiche, le
fandonie e le leggende che sono cresciute intorno a me. Si coniò per alcuni
dossier persino il titolo di ‘Corilleide’, con l’intento poco cortese di
offendere non solo me ma Virgilio e la sua epica. Ecco, scivolando pian piano
mi son presentata e ho fatto il mio nome. Sono Maria Maddalena Morelli, sposata
Fernández, passata agli annali d’Italia col nome arcadico di Corilla Olimpica,
un nome davvero bello e sonoro, non vi pare? Nacqui a Pistoia e dicono alcuni
biografi che fin da piccolina fossi affascinata dalla poesia, ma io a dire il
vero non ho ricordo di quel che raccontano, che cioè di sera mi nascondessi sotto
il tavolo intorno al quale si riunivano gli adulti a parlare di poesia e a
leggere versi. Ma deve essere senz’altro vero che avvertissi una sorta di
richiamo misterioso verso un destino più forte di me. Era un destino al quale
non potevo sottrarmi, ne avvertivo il piacere sensuale che pervadeva le mie
carni di fanciulla e stordiva il mio cervello, quando la formulazione di un
pensiero prendeva forme ritmiche, sonore, ondose come l’altalenare di una culla
che assopisce. Ed era già allora dolce perdermi nello scioglimento dei sensi e
della ragione.
Era il Settecento, secolo, come vostri
contemporanei più di me colti hanno bene spiegato, sensista, razionalista,
riformatore, ma ancora legato a strutture sociali radicate, dove il potere era
saldamente nelle mani di re e cardinali, baroni e famiglie sedicenti nobili,
dove alla donna era consentito lo spazio ridotto imposto da regole dinastiche o
da fortunate contingenze. C’erano donne pittrici, che si fecero onore, c’erano
imperatrici illuminate, c’erano poetesse di un certo valore, ma non c’era
ovviamente l’ascesa sociale di tutto il genere. Io feci parte di quel ristretto
numero di donne che godettero di privilegi, benessere, fama, amori, e di tutto
quanto la vita o la fortuna poteva concedere a essere umano. Ma fu tutta mia la
conquista e la difesa della libertà, libertà soprattutto di costumi. Ammetto
che fui in questo spregiudicata, ma su ciò il pentimento è l’ultima cosa che mi
passa per la testa. Libertà mi fu cara, certo, ma la pagai anche con la lontananza
per tutta la vita da mio figlio, rimasto col padre dopo il precoce divorzio e
morto giovane. Fui amica di personaggi potenti e illustri, e non
rimproveratemi, alla luce di ideologie che non erano del mio tempo, di non aver
avuto né attenzione né empatia per le classi più deboli dei poveri, dei
contadini e degli operai, e di non aver avuto ideali patriottici o sociali. Il
mio agone, la mia felicità e il mio tormento, se qualche volta ci furono, si
consumarono tutti all’interno della poesia. Fu poesia essenzialmente di amore,
ma non rifuggii dall’ékphrasis di nobili dipinti, da momenti di
religiosità e al contrario da tentazioni pornografiche, dal panegirico di
grandi donne e di grandi uomini, e una volta pronunciai pubblicamente un’alta
lode di Galilei, a rischio di essere attaccata dal Sant’Uffizio, e peccato che
quel che dissi si è perso e nessuno ne abbia conservato parola. Una volta mi
feci travolgere dalla tempesta del ditirambo erotico, ma fu solo uno
sconvolgimento momentaneo. E mai lasciai la strada maestra della struttura
metrica ordinata e classicamente regolata. In questo mi soccorsero non una
volta con correzioni e suggerimenti i miei amici classicisti, primi fra gli
altri Giuseppe Maria Pagnini e Giovanni Cristofano Amaduzzi (non dimenticate,
ve ne prego, il contributo che alle lettere del nostro Paese hanno dato i
classicisti, anche se qualcuno per avventura poté essere, come siete venuti in
uso di dire, conservatore o reazionario).
La mia carriera cominciò come dama di compagnia
di una gran signora a Napoli. Ma ben presto presi a volare per altri lidi e a
peregrinare per corti e città italiane, dovunque trovassi persone incuriosite e
affascinate dalla mia crescente fama. Diventò quasi una moda seguire le mie
esibizioni in pubblico, nelle quali recitavo e cantavo versi improvvisati, talora
con accompagnamento musicale, spesso inventati lì per lì su tema proposto dal
pubblico. Un tedesco innamorato dell’Italia e residente a Roma ha trascritto
l’aria sulla quale ho eseguito molte mie improvvisazioni. Ah, ecco dimenticavo
di informare chi non lo sapesse, che a quei tempi l’improvvisazione poetica era
molto diffusa e, oltre a me, sono esistite altre e famose improvvisatrici, che
in vita non avrei per gelosia citato per nome, ma che ora invece mi è dolce
ricordare per quella solidarietà femminile che oltre il tempo si affina e si
ingentilisce diventando rimembranza e rimpianto della dolce vita: due per
tutte, la lucchese Teresa Bandettini, vocata in Arcadia Amarilli Etrusca, e la
livornese Fortunata Sulgher Fantastici. Molto si è insinuato di malevolenza
sulla rivalità fra me e loro. Ma, credetemi, furono solo gare fra cigni, e
oltre la gara fu bello che la cetra passasse di mano fra la maestra invecchiata
e la giovane ambiziosa. Io ebbi ai miei piedi cavalieri e cardinali,
poeti e grandi studiosi dell’antichità, il famoso tipografo Bodoni, musici come
Pietro Nardini, il bibliotecario della Laurenziana di Firenze, Angelo Maria
Bandini. Mi apprezzarono e mi premiarono le imperatrici Maria Teresa d’Austria
e Caterina di Russia. Ci fu chi creò l’associazione dei Cavalieri Olimpici e
chi per avermi troppo lodata contro gli intrighi della corte papale assaggiò le
prigioni vaticane. Dopo molto girovagare, presi stabile dimora a Firenze,
stipendiata dallo Stato Toscano come poetessa di corte, accudita da una mia
affezionata nipote, visitata da celebrità di passaggio, ospite del piccolo e
geniale Mozart, eppure afflitta dai fastidi delle donne di casa, comprese le
domestiche superbe e irrispettose. Quando morii, furono celebrati funerali di
stato dall’occupante francese generale Miollis, ma Vittorio Alfieri, che si
trovava in città, si barricò in casa, per estremo mascolino dileggio.
Ho detto poco fa che ho ceduto al soffio
impetuoso di Dioniso in un ditirambo. Ma il mio vero dio fu Apollo. Sotto la
sua ispirazione i miei versi furono tutti regolari, e proprio mi è difficile
capire come ai vostri tempi, miei cari, voi leggete, stampate, comprate e
adorate sedicenti poeti e poetesse che non sanno distinguere un endecasillabo
da un settenario, che vanno a capo come il caso gli ditta dentro, magari
finendo un verso con un “che”, che loro stessi non sanno se sia pronome o
congiunzione. Apollo fu il mio protettore segreto e fui tutta sua, anche se
strabica come Venere e un po’ grassottella, in omaggio a un poeta medievale che
sostenne francamente essere i carnea
membra del tutto adatti al carnis
officium. Se non credete alla mia consacrazione al tempio di Apollo,
leggete la Corinna ovvero l’Italia di
Madame de Staël, dove sia chiaro e detto una volta per tutte, che Corinna sono
esattamente io, Corilla. Madame ha voluto vedere nella mia persona
l’incarnazione della Pizia, la sacerdotessa di Apollo che, sotto il suo
invasamento, al pallido lume della luna, davanti alle rovine campane delle
gloriose antichità pagane, pronuncia le sue profezie e riversa versi di una
bellezza divina e poi crolla spossata come morta. Corinna è l’Italia, sì, terra
di stracci e di poesia, terra di poeti e di poetesse, terra dove dalle
cateratte dei cieli e dalle ferite del suolo emerge una energia che è ispirazione,
entusiasmo, esaltazione, invasamento, indiamento. Lingue malediche hanno
insinuato che le due coronazioni poetiche che hanno sancito la mia gloria
immortale, in Arcadia e in Campidoglio, siano state usurpate e che i temi di
improvvisazione mi furono detti in anticipo dal Custode di Arcadia, Nivildo Amarinzio.
Amici di me più accorti mi hanno suggerito di avvalermi su ciò della facoltà di
non rispondere. Dirò però con tutta convinzione che il mio mestiere non fu,
come lo definì un famoso poeta cesareo, maraviglioso
e inutile. Inutile no, maraviglioso
sì. Non so se la poesia sia ancora una sorgente
di acqua fresca e pura che scorre per le vene della terra italica, che fu il
mio paese. Non so se mai risorgerò, come ho letto in un antico poeta che
assicurava secoli fa che multa renascentur
quae iam cecidere. Su questi problemi resto una povera donna, bisognosa di
sostegno. Intanto sto qui negli inferi, luoghi melanconici, abitati da
peccatori e da amanti infelici. Qualcuno mi ha sussurrato che si aggira per i
corridoi e per le aule dove si può decidere, che si avvicina la chiusura di
questi inferi, perché giuridicamente costruiti male su presupposti ingiusti.
Chissà che una volta non possa vedere più spirabil aere. A voi che mi avete
ascoltato raccomando una vita onesta, libera, illuminata dalla luce della
poesia. È possibile. E qualche volta pensate a me, alla vostra Corilla.