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venerdì 31 dicembre 2021

LA ZONA D’OMBRA
di Angelo Gaccione
 


È un’idea fallace credere di conoscere davvero qualcuno. Intendo dire conoscerlo profondamente, nelle sue pieghe più recondite, nei suoi anfratti più nascosti, nei suoi abissi più insondabili. In verità noi non conosciamo per intero nessuno. Non conosciamo i nostri figli e fratelli e tanto meno i nostri pur amati genitori. Non conosciamo gli amici, quelli a cui siamo legati da profondo affetto, figuriamoci i semplici conoscenti con i quali intratteniamo rapporti superficiali e occasionali. Ma conosciamo almeno noi stessi? Poco, e anche questo poco in modo alquanto parziale. Se conoscessimo veramente noi stessi non potremmo sopportare le spinte, spesso rovinose, che cerchiamo come possiamo di tenere a bada. L’altro che c’è in noi deve essere soffocato perché non venga a turbare l’esistenza del primo, e in questo quotidiano diuturno conflitto oscilliamo incoerenti e imprevedibili. Quando le rare volte ci soffermiamo a riflettere su alcuni gesti, modi, scelte, del nostro agire, abbiamo la sensazione di non essere stati proprio noi a farli, ad averli voluti, ed è come se ogni cosa fosse avvenuta per un condizionamento indipendente dalla nostra volontà. Se a posteriori ne diventiamo consapevoli, non ci riconosciamo affatto e ci sentiamo come estranei a noi stessi. “Mi sembravi un altro” ci fanno notare, e in questa sottolineatura c’è un fondo di amara verità.



Restiamo sconcertati e sorpresi davanti a fatti e comportamenti che non ci saremmo mai aspettati da nostri congiunti stretti o da amici che credevamo di conoscere bene. Li avevamo frequentati a lungo, ne avevamo condiviso disagi e gioie, raccolto confidenze, e ci eravamo vicendevolmente aperti trovandoci in sintonia. E invece ciò che ci ha spiazzati e ci ha precipitati nel dubbio, è la prova che ci era rimasta oscura gran parte della loro personalità. In fondo non conosciamo, l’uno dell’altro, che la patina esterna, la superficie. Dicono che ci sono cose che nemmeno i coniugi più affiatati e legati da una vita si raccontano. Dicono che certe cose non si debbano raccontare neppure ai figli, ed è probabile che sia così. Io ignoro se ciò che deve rimanere nascosto in questi legami sia qualcosa di innominabile; qualcosa di così grave che produrrebbe solo dolore ed è meglio resti un segreto da portarsi nella tomba. Ripeto, lo ignoro. Di certo possiamo affermare che nessuno di noi sa come reagirebbe davanti ai casi più imponderabili della vita, a sventure improvvise, a eventi estremi. 



Lo sventurato papà di Novi Ligure mai avrebbe pensato che la sua giovanissima figlia, l’angioletto che abbracciava felice tornando a casa, avrebbe potuto trasformarsi in una fredda e feroce assassina del fratellino e della mamma. Credeva di conoscerla bene quando le rimboccava le coperte e le dava il bacio della buona notte. Il suo sonno era così sereno, così pacificato, ed era ancora una adolescente. E dopo quelle vite rovinate il suo comportamento di padre pugnalato al cuore spiazza tutti: non l’abbandona al suo destino la figlia omicida, cosa che umanamente ciascuno avrebbe compreso, ma ne fa l’unico legame con la vita. Un altro al suo posto sarebbe andato alla deriva; un altro si sarebbe impiccato e un altro ancora chissà…



Ciascuno di noi è un grumo di misteri per sé stesso e per gli altri, e gli altri lo sono per noi. E forse hanno ragione i pessimisti quando affermano che anche l’aver vissuto per un lungo tratto di vita assieme non sarà bastato a conoscersi davvero e per molti aspetti si rimane estranei l’uno all’altro. Ce lo fanno constatare portandoci ad esempio coppie (sposate o memo) che hanno condiviso buona parte della loro esistenza e ad un certo punto decidono di interrompere questo legame. La delusione maggiore è proprio quella di scoprire di aver vissuto accanto ad un essere rimasto quasi del tutto sconosciuto. È divenuta così comune questa giustificazione, che ci inquieta e ci obbliga ad interrogarci. E tutto questo al di là del mutare del sentimento o del suo isterilirsi. Un tale discorso sembrerebbe avvalorare la tesi di una frustrante incolmabile distanza, anche fra soggetti in realtà vicinissimi per affetto, legami familiari e di amicizia. Come è possibile? È una domanda destinata a rimanere senza risposta. Può darsi che se ci conoscessimo davvero fino in fondo la frequentazione potrebbe diventare problematica, ed il danno sociale ed umano avrebbe un prezzo troppo alto. Allora forse è meglio non pretendere più del dovuto, che sia un genitore, un fratello, un amico; meglio lasciare che il nostro sforzo di conoscenza si arresti al limitare senza varcare la soglia; che quella “zona d’ombra” resti inviolata e che ogni uomo o donna continui a dibattersi nel suo inestricabile, misterioso groviglio.   
 
[Milano, 24-25 settembre 2021]

 

      

CORPO E SALUTE


Grafica di Giuseppe Denti

Se c’è una cosa sacra, quella è il corpo umano” (Walt Whitman). Ma molti non la pensano così. Per molti il corpo umano si può profanare, privare delle cure necessarie, trasformarlo in merce generatrice di altrui profitti. Il mio augurio è per un 2022 senza brevetti sui vaccini e con un’assistenza sanitaria universale.  
Vittorio Agnoletto 

IL PENSIERO DEL GIORNO



I perdenti sono coloro che per un ostinato orgoglio
perdono gli affetti più cari.
I vincenti hanno nel loro cuore la bandiera bianca
che saluta per far uscire il sole curioso da dietro le nuvole”.
Laura Margherita Volante 

IL CALEMBOUR



“Mai una febbre, mai una pillola.
La sua, fu una morte improvvisa.
Scoppiò di salute”.
Nicolino Longo

IL CALEMBOUR



“Scoppiava di salute,
e scoppiò davvero!”.
Angelo Gaccione

giovedì 30 dicembre 2021

LAVORO CRIMINALE






IL DOPPIO PRESIDENTE
di Alfonso Gianni

 
Dopo la Conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio si può ben dire che al fine il velo è caduto. Ma il re non è nudo. Anzi vestitissimo, con un abito double face. Da un lato Presidente del Consiglio in atto e Presidente della Repubblica in potenza. Dall’altro capo dello Stato in divenire e capo del Governo a proseguire, naturalmente interposta persona, ma solo per difetto di ubiquità. Di questo si tratta, al di là delle compiacenti autoraffigurazioni - quasi un’icona natalizia - del nonno al servizio delle istituzioni. Draghi non è parso affatto preoccupato del groviglio istituzionale che comporta l’inedito passaggio diretto da Palazzo Chigi al Quirinale, che affligge diversi commentatori. De minimis non curat praetor. Draghi sa bene che la contesa del Colle si decide altrove rispetto alle sedi proprie del nostro paese. Fin dal momento della sua designazione a Premier era chiaro che l’ex presidente della Bce non era il “pilota automatico”, ma piuttosto l’ingegnere che l’aveva progettato e costruito. Draghi non era solo chiamato a gestire il flusso di denaro del Recovery Plan sospinto a quel ruolo della Unione europea, ma la impersonava direttamente. Così è stato in tutti i momenti topici della storia della globalizzazione neoliberista e della Ue, lungo la quale Draghi ha ricoperto vari ruoli, a seconda dei diversi momenti e delle molteplici esigenze, secondo una linea dinamica, capace di interpretare e dirigere i cambiamenti e i momenti di svolta. Fu così sul Britannia nel 1992 dove Draghi, nella veste di ministro del Tesoro italiano, per ridurre il debito spalancò la porta rovinosa delle privatizzazioni, ove l’Italia fu seconda solo all’Inghilterra della Thatcher. Fu di nuovo protagonista, assieme a Trichet, nell’indicare al futuro governo Monti il da farsi per scardinare lo stato sociale. Non ha perso l’occasione di infierire sulla Grecia come presidente della Bce e sempre in quel ruolo di dare vita con il celebre whatever it takes ad una politica espansiva, in parziale contraddizione con il rigorismo affamatore prima ampiamente applicato. Non c’è quindi da stupirsi se il suo futuro è argomento di discussione quotidiano sulla stampa internazionale. Mentre Salvini si appendeva  al cellulare immaginandosi il mazziere (nel senso di chi dà le carte) della partita del Quirinale, Bill Emmot, che fu direttore dell’Economist dal 1993 al 2006, pigliava a schiaffi il suo ex settimanale dalle pagine del Financial Times, sostenendo che la collocazione, non ideale ma reale, di Draghi era stretta tra lo stare “sei mesi con le mani su un volante sempre più incontrollabile o sette anni a dirigere il traffico”, non lasciando dubbi su quella che per lui era l’opzione migliore. Del resto, proseguiva l’articolo di Emmot riguardo al nostro paese “di fronte a un panorama politico sempre più frammentato, i presidenti hanno usato i poteri conferiti dal ruolo in modo sempre più efficace. Gli ultimi due capi dello Stato hanno agito in un modo paragonabile a un mix di presidenti non esecutivi e di pontefici secolari”. Per l’autorevole opinionista, quindi, era già stata tracciata la strada verso l’ibridazione tra la figura del Presidente della Repubblica e quella del Presidente del Consiglio. Ma serve un salto in avanti. Infatti ieri, sempre sul quotidiano finanziario inglese, compare un articolo a doppia firma, Macron e Draghi, dedicato alla necessità – ovvia ai più – di rivedere il patto europeo di stabilità a fronte di un debito cresciuto enormemente e una “ripresa” da favorire. In questo quadro va inserita anche la visita lampo del neocancelliere Olaf Scholz a Roma. Ma l’autorevolezza di quest’ultimo, malgrado la vittoria elettorale, non è certo quella, o per i più ottimisti non lo è ancora, di cui godeva la Merkel. Gli va data una mano, anche per sottrarlo all’influenza nel neoministro delle finanze, il liberale Lindner la cui appartenenza alla fazione dei “falchi” contrari a qualsiasi ammorbidimento delle regole di Maastricht è fin troppo nota. Ma l’asse Macron-Draghi acquisterebbe in credibilità se fosse meno asimmetrico rispetto ai ruoli e ai poteri dei due protagonisti. Per questo l’ascesa al Colle di Draghi, mantenendo una stretta supervisione sugli atti politici del governo, è già più che una dichiarazione di disponibilità, quanto un semipresidenzialismo di fatto incardinato nella nuova figura del Presidente della Repubblica. Ma tutto ciò è contrario alla nostra Costituzione, la quale stabilisce che il capo dello Stato “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Solo che le forze politiche non se ne curano. Pensano ad altro. La destra esprime contrarietà perché si sente tagliata fuori dalla partita, il 5Stelle appare afono e il Pd non fa resistenza. Anzi, stando a un virgolettato, seppure anonimo, de ‘Il Sole 24 Ore fa sapere che “il percorso di Draghi verso il Colle e la successione a palazzo Chigi devono procedere insieme”, lasciando guidare il governo da un presunto tecnico, come Marta Cartabia o Daniele Franco. Mentre i 51 progetti del Pnrr elogiati come un compito concluso da Draghi, sono in realtà deleghe al governo che verrà, ovvero tutti da definire per essere operativi. A questo ci ha portato la maggioranza extralarge: alla soglia della più grande e pericolosa controriforma istituzionale del paese. Non è un destino baro, è una volontà politica cui ci si dovrebbe ribellare. Il problema è che manca un soggetto politico a sinistra, dotato di pensiero, di energia e di massa critica, per poterlo fare. Ed è alla costruzione di quest’ultimo che ci si dovrebbe prioritariamente dedicare.

ASPETTATIVE DELUSE 
di Franco Astengo


L’anno 2021 si chiude dopo che sono state deluse le aspettative di riuscire a rovesciare il paradigma stabilito dall’emergenza sanitaria tra scienza, tecnica, politica. Ormai da due lunghi, interminabili, anni non la politica ma scienza e tecnica impongono modi, tempi, scelte, orientamenti economici, stili di vita.
In questo modo il capitalismo continua a dettare le sue leggi e il ciclo del tempo procede rispondendo soltanto alle necessità del momento con l’allargamento delle disuguaglianze, l’intensificazione dello sfruttamento, la crescita del divario cognitivo.
Sfruttamento, disuguaglianze, divario cognitivo: tre fattori che si alimentano con la detenzione del potere della conoscenza e delle sue complesse forme distribuzione ineguale.
Una presunta ribellione a questo stato di cose ha assunto, almeno nelle società affluenti, la ridicola dimensione di un individualismo presuntamente libertario ma in realtà coercitivo per qualsiasi possibilità di vita collettiva.
Non siamo stati ancora capaci di far comprendere come il rovesciamento del paradigma potrebbe essere ancora possibile se si riuscisse a far risaltare la necessità di una società dell’uguaglianza.
Uguaglianza nella sobrietà dei consumi collettivi e individuali, uguaglianza nella limitazione del profitto e della conseguente vacuità del consumismo egoistico.
Servirebbe ancora definire l’orizzonte di una società diversa per fare in modo di porsi davanti al mistero del futuro nella vita di tutti i giorni.
Pensare ad un “socialismo della finitudine”, al recupero di un senso del limite inteso come obiettivo possibile da realizzare accettando un principio di fondo: questa angosciante cappa di piombo che sovrasta le nostre vite dipende da un modello basato sull’illusione di massa di una società priva di valori morali e completamente fondata sul profitto e sul consumo.

COMPITO PER LE VACANZE
di Romano Rinaldi

 
Per il rientro a scuola dopo le vacanze, proporrei un compitino delle vacanze adatto ai tempi: “Supponendo che tra le persone ricoverate negli ospedali per Covid in Italia, la metà siano vaccinate e l’altra metà non vaccinate, quale pensate che sia la protezione che offre il vaccino ai vaccinati rispetto ai non vaccinati?
Ora che ciascuno ha velocemente formulato in cuor suo una risposta più o meno ragionata, proviamo a passare ai numeri il ragionamento per ottenere un risultato il più possibile obiettivo, non basato sulle sensazioni che ci possono fornire le nostre convinzioni o i nostri pregiudizi. Io partirei innanzitutto da un primo dato ancora di tipo qualitativo, quindi non necessariamente traducibile in numeri ma di cui mi sembra opportuno tenere conto. Le persone vaccinate, sentendosi più sicure ed essendo anche dotate di una autorizzazione ufficiale (il cosiddetto Green pass) saranno più inclini ad adottare meno precauzioni (mascherine, distanziamento, ecc.) anche nei luoghi affollati rispetto ai non vaccinati, quindi la loro probabilità di contagiarsi (e finire in ospedale) dovrebbe risultare maggiore, visto che il vaccino non offre garanzia contro il contagio, come sappiamo già da tempo, ben prima della variante Omicron super contagiosa.
Passiamo ora ai numeri. Sappiamo che in Italia i vaccinati sono circa l’85% della popolazione, i non vaccinati rappresentano dunque il 15%. Ecco che le due metà di cui si parla in premessa devono essere considerate in funzione di queste due diverse popolazioni da cui discendono e che sono in rapporto di circa 1/6. Ovvero c’è un solo non vaccinato ogni 6 individui nella popolazione presa in esame. Quindi la probabilità di contagiarsi di un non vaccinato è secondo questi numeri e a parità di precauzioni prese, molto inferiore rispetto a un vaccinato, cioè 1/6, numericamente deve infatti corrispondere, grossomodo, alla medesima percentuale di cui “gode” nella popolazione generale. Viceversa, se il contagio (e l’ospedalizzazione) riguarda questa popolazione in ugual misura di quella dei vaccinati, significa che il vaccino difatti offre, nel caso posto nella domanda, una protezione almeno 6 volte maggiore alle difese naturali di un organismo non vaccinato. Anche senza voler considerare il “fattore Green pass” di cui dicevo sopra.
Dopo questi ragionamenti, andiamo a vedere l’effettiva proporzione che c’è tra ricoverati vaccinati e non vaccinati e si vedrà che, caso per caso, fatti due conti anche senza sapere nulla di matematica statistica, quando ci dicono che su 30 ricoverati, 10 erano i vaccinati, dovremo moltiplicare di nuovo per 2 la “sfortuna” che si accanisce sui non vaccinati, i quali avranno una probabilità doppia di vincere alla “lotteria Covid” e quindi passare dal sei a uno di cui abbiamo parlato sopra, ad un allarmante 12 a uno rispetto ai vaccinati, e via di questo passo... Un “gratta e vinci” che nessuno dovrebbe volere per le mani!
 

FEDE


“Il Dio denaro: l’unico in cui credono
anche gli atei”.
Nicolino Longo

GENEROSITÀ



“È maestro chi ama l’altrui destino”.
Alessandra Paganardi

RICONOSCIMENTI



“Il successo non è per chi crea in sordina
e nelle retroguardie, ma per chi è seduto
in prima fila…”.
Laura Margherita Volante 

lunedì 27 dicembre 2021

GIOVINEZZA



“Giovinezza: libro che sfogliammo,
senza leggerne le pagine”.
Nicolino Longo

FRANCO ZILIANI È MORTO
di Federico Migliorati
 

Ziliani a sinistra della foto
assieme allo scrittore Gaccione
e all'economista Vitale e consorte
al Castello di Bornato nel 2020


Addio al padre del “Franciacorta”.


Ci ha lasciati uno dei ‘padri’ dell’enologia italiana: Franco Ziliani, fondatore nel 1961 delle cantine Berlucchi di Corte Franca insieme a Guido Berlucchi, si è spento nei giorni scorsi a 90 anni di età. È stato un vero e proprio artista del vino, fin da quando lanciò al successo il marchio Pinot Franciacorta, rinomato in tutto il mondo. Nel 2020 gli fu dedicata la prima edizione del Premio Nazionale Letterario e di Cultura Franciacorta la cui cerimonia di premiazione si tenne al Castello di Bornato alla presenza di un folto pubblico: per l’occasione fu insignito di un riconoscimento in virtù della sua lunga e prestigiosa carriera. Un impegno instancabile, il suo, per il mondo dell’enologia che ha rappresentato un caposaldo di un’intera economia, quella della Franciacorta appunto ma più in generale del bresciano, in grado di spiccare per qualità, meriti, professionalità indiscussi, dimostrazione di eccellenza del territorio. Le esequie di Ziliani sono fissate nella chiesa parrocchiale di Paratico (Brescia) per martedì 28 dicembre alle ore 11,30.

domenica 26 dicembre 2021

UNA VERGOGNA
di Vincenzo Rizzuto
 


Ancora in piena pandemia, con gli ospedali sotto pressione per reparti di terapia intensiva che minacciano di andare in tilt, una masnada di giovinastri senza memoria e con il ‘cerebro pieno di scurrili indigeste dicerie’, come avrebbe detto il buon Omero, aveva riempito come un uovo alcuni spazi della nostra città: stavano a centinaia gli uni addossati agli altri, senza mascherina, incuranti della pestilenza millenaria, che da due anni ormai miete vittime in ogni luogo e di ogni età.
Questi scalmanati, come animali senza ragione, stando attaccati gli uni agli altri, gozzovigliavano con bottiglie di birra e bicchieri di vodka per festeggiare, credo, la sofferenza di quanti sono ricoverati nelle corsie degli ospedali a combattere tra la vita e la morte; o forse per festeggiare il dolore delle famiglie delle 134.000 vittime, che in due anni abbiamo registrato sulla nostra pelle.
Quei giovinastri ieri hanno dato luogo ad uno spettacolo indegno, spregevole, segno di immaturità, ma soprattutto di insensibilità verso chi ha sofferto e soffre.
C’è voluto addirittura l’intervento dell’esercito per disperderli mentre si ribellavano a branchi come lupi affamati: una vergogna, una vera negazione dei principi fondamentali del vivere civile.
Le cause profonde di tutto questo sono da ricercare in parte, credo, nell’assenza di assunzione di responsabilità delle famiglie, nella debolezza dell’azione formativa della scuola, ma anche in un corpo sociale ormai tutto teso al consumismo e all’edonismo sfrenato, che hanno eroso in profondità il sentimento della solidarietà.
Sì, non c’è più solidarietà, perché quegli stessi giovani che ieri, come lupi affamati, si accalcavano opponendosi con rozzezza anche alle Forze dell’Ordine nella nostra città come nelle altre, non erano solidali non solo fra loro stessi, ma neanche con i loro genitori, con i loro nonni, perché li mettevano in pericolo esponendoli alla morte.
E lo facevano alla stregua degli scalmanati che a Pordenone, qualche giorno addietro, andavano ad assaltare l’ospedale come no-vax.
Non sono un credente, almeno nell’accezione corrente, ma questo non mi impedisce di utilizzare l’affondo cristiano verso chi agisce in modo del tutto irrazionale, perciò diciamo pure, solo, però, entro certi limiti:
Perdoniamoli perché non sanno quello che fanno.

  

CONVENIENZE



“Una dichiarazione d’amore, alla fine,
viene, oggi, a costare, più di una dichiarazione
dei redditi”.
Nicolino Longo

venerdì 24 dicembre 2021

MODENA E PERUGIA
di Romano Rinaldi


Veduta di Modena

Due città a confronto.
 
Manco dalla mia città da molti anni ormai ma il primo quarto di secolo trascorso a Modena mi ha lasciato tracce che non sbiadiscono, nonostante tutti gli altri colori, suoni e sapori che si sono sovrapposti fino al terzo quarto del primo secolo della mia vita. Tralasciando tutte le altre città, italiane ed estere, in cui ho vissuto nel frattempo, spesso mi trovo a fare confronti tra Modena e Perugia, dove vivo ormai da 32 anni. La prima sensazione che contraddistingue e rende assai diverse queste due città sta nelle caratteristiche orografiche. Modena è una delle città più piatte che si possano immaginare, tanto che da ragazzo, quando volevo dare un po’ di lena ai miei muscoli irrequieti, facevo in bicicletta una corsa in pianura fino a Maranello, per poi cimentarmi in qualche bella salita fin su a Serramazzoni e provare finalmente l’ebbrezza della discesa a velocità che oggi non azzarderei ad eguagliare in automobile. Molti anni dopo, quando arrivai a Perugia con moglie e figlie, barattai la mia bici da corsa per una “mountain bike”, di moda a quel tempo. Ben presto però dovetti desistere perché le ripide salite e le contorsioni delle strade di città mi fecero capire che rischiavo la salute e l’incolumità, ansimando tanto intensamente in mezzo al traffico che era, per giunta, totalmente irrispettoso delle due ruote.


La facciata del Duomo

Modena fu abitata in epoche molto antiche, fino dal paleolitico. Molto più tardi, nell’Età del Bronzo, ci furono insediamenti palafitticoli. Vanno sotto il nome di “Terramare” non perché, come potrebbe sembrare, ci scorresse sotto l’acqua e tantomeno l’acqua del mare. È un nome attribuito ai primi ritrovamenti di questi siti, caratterizzati da accumuli di terre con caratteristiche peculiari, scure (amare) e ricche di detriti spesso indecifrabili, a volte contenenti abbondanti reperti in terracotta e bronzo risalenti ad epoche comprese tra il XX e il XIII secolo a.C. Le palafitte offrivano molti vantaggi, erano infatti sospese sul livello del suolo che poteva di tanto in tanto essere invaso dall’acqua delle alluvioni e offrivano un ampio spazio sottostante in cui disfarsi di tutti gli scarti della vita domestica e dell’insediamento produttivo, che venivano così dispersi dall’acqua, mantenendo una discreta pulizia nell’ambiente vissuto. Insomma un primo esempio di utilizzo razionale del territorio e sue risorse. Le lavorazioni ceramiche e metallurgiche avevano già raggiunto una notevole specializzazione e questi insediamenti possono quindi essere considerati gli antesignani dei distretti artigianali ceramici e meccanici che caratterizzano tutt’ora l’area di Modena.
La città fu poi insediamento romano fortificato (Mutina) e centro molto attivo nel medioevo, di cui conserva opere monumentali di gran pregio, quali il Duomo e la torre Ghirlandina. In epoca più recente fu sede del ducato Estense di Modena, Parma e Reggio di cui conserva l’impianto urbanistico fondamentale e il palazzo Ducale, una vera reggia di città, ora Accademia Militare dell’Esercito.


Piazza Grande colta dall'alto

Più che le tradizioni tramandate da questa illustre origine, la caratteristica di essere una città di pianura, a mio avviso ha giocato un ruolo fondamentale per forgiare il carattere dei suoi abitanti. Si tratta di un misto di orgogliosa appartenenza e contemporanea apertura verso quanto può venire da fuori per migliorare il proprio status. In pratica, essendo una città non difendibile dalle incursioni ed essendo posta al crocevia di strade che si incontrano in una sorta di Y rovesciata con la direzione Nord che punta direttamente al Brennero e le due diramazioni verso Sud che puntano nelle direzioni delle due coste a Est ed Ovest della penisola, è inevitabilmente divenuta crocevia di culture e facile preda di invasioni. Da queste ultime, piuttosto che una passiva sottomissione, ha operato una selezione, utilizzando il meglio dell’invasore per trarne profitto, pur mantenendo la propria identità. Non mi spiego altrimenti la tranquilla accettazione di persone con diversi accenti o persino lingue estere, alle quali il tipico modenese si rivolge semplicemente parlando dell’argomento in questione, sia questo una indicazione stradale, l’acquisto in un negozio o un commento sui fatti del giorno. Magari intercalando all’italiano qualche espressione dialettale con accentuate tonalità teutoniche.


Modena città di Pianura

Quando la stessa situazione si presenta a Perugia, prima di qualsiasi risposta a tono, l’interlocutore, accortosi della diversità dell’accento, si informa immediatamente sulla provenienza del “forestiero”, quando non lo chiami addirittura “straniero”. Al che la mia immancabile risposta è: “ma certo, vengo da Città di Castello”, e questo viene accettato, il più delle volte, come una possibilità. In effetti il tifernate ha una inflessione vagamente romagnola e questo mi salva dall’essere considerato a tutti gli effetti uno straniero! A questa malcelata curiosità che il più delle volte nasconde diffidenza, io attribuisco un’origine dalla città fortificata, posta su un colle impervio e con mura tutt’ora ben salde a partire dai bastioni etruschi, rinforzati dal rifacimento romano, con l’aggiunta della bella porta di Augusto (detta Arco Etrusco) e tutta la cerchia successiva di mura medievali.


Perugia. Palazzo dei Priori
Fontana Maggiore

Di quest’ultimo periodo Perugia conserva opere architettoniche e artistiche di grandissimo pregio, oltre all’istituzione di una delle più antiche e prestigiose Università, agli inizi del XIV secolo. Tuttavia la città, originariamente retta da priori in rappresentanza dei vari potentati locali e rionali, dopo la unificante signoria Baglioni, venne soggiogata dallo Stato Pontificio e vide la costruzione di una delle più possenti fortezze del 1500 sotto il dominio del Papa Paolo III (la Rocca Paolina). Dominazione che perdurò per tre secoli, salvo un’eroica insurrezione nel 1848 che inopinatamente sfociò, dopo la vittoria, nella parziale distruzione della Rocca Paolina, una “vendetta” che tolse ai perugini la possibilità di difendersi dalla successiva, pressoché immediata, riconquista della città da parte delle truppe papaline. Situazione che rimase fino alla proclamazione dell’Unità d’Italia nel 1861. Oggi i sotterranei a grandi volte della Rocca Paolina offrono ampi e molto suggestivi ambienti per allestimenti di mostre ed eventi culturali, oltre al quotidiano passaggio delle scale mobili con le quali si raggiunge la città alta dalla immediata periferia sotto le mura. Una passeggiata indimenticabile attraverso l’archeologia della città con tutti i suoi livelli sotterranei, quasi una rappresentazione del cuore della città o se si vuole, delle sue budella.


Perugia. Via dell'Acquedotto

Quando arrivai a Perugia, il collega e caro amico che venivo a sostituire per trasferimento reciproco, mi accompagnò in una passeggiata dalla sede dell’Ateneo a Palazzo Murena, su in città attraverso l’Arco Etrusco e la via Maestà delle Volte fino alla Fontana Maggiore posta tra la Cattedrale e il Palazzo dei Priori. Una breve visita alla Sala dei Notari decorata con affreschi cavallereschi e le insegne delle famiglie che avevano governato la Città e poi giù di nuovo ma stavolta prendendo la scorciatoia sulla via dell’Acquedotto, passando sopra i tetti delle case del quartiere universitario. Una passeggiata che ho ripetuto tante volte quando avevo bisogno di distogliermi dal problema che pareva insolubile e tornare poi a tavolino a mente fresca e pronta a trovare la soluzione. Infatti Perugia, col suo sviluppo tridimensionale, può offrire ispirazione e allenamento per la cristallografia strutturale dovendosi orientare tra i diversi piani dell’intrigo di strade e sottopassi che uniscono i vari livelli su cui è costruita la città. Però, se si sbaglia il “gruppo spaziale”, si finisce irrimediabilmente fuori strada!


Perugia e i suoi vicoli

Delle mura di Modena rimane invece da secoli solamente la traccia pentagonale nelle strade dei viali alberati che circondano il centro cittadino e quella che era un tempo la cittadella fortificata fu spianata in tempi antichi, prima di ospitare un ippodromo e più recentemente un parcheggio di prossimità. La leggenda che ricorda il miracolo del Santo protettore (San Geminiano) vuole che la città fosse salvata dall’invasione (e distruzione) da parte delle orde di Attila, dalla fitta nebbia propiziata dal Santo. Avvolta nella nebbia, la città fu resa invisibile all’esercito che la attraversò senza accorgersene e se ne andò per la sua strada. È chiaro che molte altre campagne militari non furono intraprese in pieno inverno…!


Splendido vicolo di Modena

Riguardo la nebbia nutro un particolare affettuoso ricordo. La sensazione di appartenenza alla mia città nelle mattine di nebbia fitta quando, per recarmi a scuola dall’altra parte del centro sceglievo strade diverse ogni giorno sfidando me stesso a non perdere l’orientamento, facendomi guidare dai dettagli degli spigoli di case e palazzi che via via incontravo e riconoscevo, o più semplicemente seguendo la mappa bidimensionale della città che avevo bene impressa nella mia mente. Fino ad arrivare sul viale del Liceo che mi appariva già a qualche distanza per una sua luce particolare proveniente da terra. Una luce surreale, diffusa dalle gialle foglie di ginko che ne tappezzavano i marciapiedi l’autunno. Percorrevo così gli ultimi 2-300 metri su una sorta di tappeto luminoso che nella nebbia creava un indimenticabile effetto, quasi un palcoscenico coi riflettori all’incontrario.
 

 ALBUM


Modena. Il Duomo in un tondo
dall'album di disegno di Wally Franchi


Perugia. Veduta della città sulla rocca


Perugia. Scorcio dell'acquedotto


Escher. "Concavo e convesso"
Vita di città



Perugia. Maestà delle Volte


Perugia.
Sotterranei della Rocca Paolina


Perugia
Bastioni con l'Arco Etrusco

PERCHÉ NON ANGELA MERKEL?  
di Vincenzo Rizzuto



 
Da tutto il dibattito e il can can che si sta facendo da mesi e mesi con interviste, dichiarazioni e indagini statistiche, condotte in tutta l’area mondiale, Manzoni avrebbe detto, in termini oggi restrittivi, ‘dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno’, circa il nome di chi dovrà sostituire Mattarella al Colle, verrebbe fuori che al di là di Draghi non ci sia più nessun altro all’altezza della situazione. E ancora più curioso è il fatto che anche il virus con la pandemia spinge nella medesima direzione, facendo di tutto con la sua intelligenza diabolica (o divina?) affinché questo accada.
E allora, sia pure con la mia poca intelligenza di uomo dei dirupi, ho pensato:
‘se in Italia non c’è proprio nessuno in grado di sostituire Draghi, che è indispensabile come capo del Governo e come Presidente della Repubblica, e certamente non può avere la facoltà dell’ubiquità come padre Pio, allora perché non preghiamo Angela Merkel a venire ad occupare uno dei due scranni, considerato che adesso è libera da altri impegni?’
Che ne dite, questa mia geniale idea vi piace? Perché se vi dovesse piacere, anche se non fosse d’accordo, come io credo, lo stratega di Rignano, che si vanta di essere in grado di risolvere tali dilemmi, essa potrebbe risolvere il problema e staremmo tutti più contenti e sicuri, non solo ma potremmo così assicurare allo stesso Draghi maggiore presenza nelle pareti domestiche con i nipoti come nonno!
A meno che… non assistiamo ad un nuovo miracolo all’italiana, che si potrebbe, sempre con l’aiuto del virus, concretizzare varando una modifica della Costituzione con l’unificazione delle due cariche istituzionali, in modo che due scranni ospiterebbero un solo sedere!
Una tale riforma non sarebbe poi tanto difficile, se è vero che l’Italia è la culla del Diritto sin dai tempi di Cicerone e di costituzionalisti ce ne sono tanti!

 

QUEL CHE DICE IL VENTO
di Gabriele Scaramuzza   


 
 
Solo qualche notazione sparsa, dettata da momenti della lettura che da subito mi hanno preso. Non bisogna d’altronde dire troppo in una presentazione: deve esser solo un invito alla lettura. Il modo snello di scrivere, elegante, senza ridondanze né “ornamenti” (Loos torna più di una volta) colpisce per prima cosa. Dire che il libro è “ben scritto”, “accattivante” (e lo è), è però dir poco; occorre sottolineare che “dice” qualcosa, e dice cose di rilievo. In tempi ad esempio in cui “sentire” la terra non esiste, il gesto di togliersi le scarpe appena si arriva a Pantelleria è l’emblema più eloquente della vita nell’isola. Dà nell’occhio già a prima vista l’alternarsi di tondo e di corsivo, a connotare strati diversi del narrare, da più descrittivo a fantastico-riflessivo (contestualizzazioni, citazioni, chiarimenti). Il libro è corredato da disegni ad acquarello di Maurizio Monteforte, che evocano tratti della vita a Pantelleria. Una citazione evocativa di Anna Maria Ortese fa da esergo; la dedica è “a Jolanda grande donna di Sibà e alle amiche che abitano nell’isola”. “Jolanda è la vecchia signora pantesca che periodicamente mi toglie il malocchio...!” mi scrive Lucia Bisi.
Incontriamo donne che si innamorano di Pantelleria, tanto da andarci a vivere: talune per sempre, altre per periodi più o meno lunghi. Per lo più sole, ma dove la solitudine non è isolamento di cui si soffre. Un raccogliersi su di sé piuttosto, e un ritrovare in sé e nel mondo fuori sapori che la vita in città smorza se non cancella del tutto. Domina su tutto il “prendersi cura” di ogni cosa, animata o meno che sia, che (Lucia Bisi mi conferma) è la caratteristica fondante della femminilità. Valori in tutto questo, esistenzialmente preziosi, e che è devastante perdere. Uomini anche, certo, ma quasi ombre collaterali; mai “maschi” comunque che io veda, seguendo una distinzione che devo a Duccio Demetrio.
Protagoniste sono quindici donne, provenienti da luoghi lontani, da città italiane per lo più, ma anche da altre contrade; tranne Angelina, pantesca. Le ricordo qui solo in tratti che parranno casuali, ma per me soggettivamente salienti. Maria: la sua incantata vita subacquea, l’intelligenza del polpo, i coralli, il loro scolorirsi. Titta e la cura del terreno che investe tutto (“curare il terreno è anche un modo speciale di camminare”); la capacità di leggere il cielo; la positività della solitudine. Marianna, le traduzioni, la capacità di interpretare le cose oltre ai testi. Helena e il suo giardino di fiori. Miranda altoatesina, la danza per fatalità abbandonata, ma che si fa evento nell’isola. Valentina e la musica, porta fuori casa la sua arpa, che anche il vento suona. Gemma che porta l’aria di Verona. Diana: la luna del ’69, Gabriel Garcia Marquez che scopre la bellezza di Pantelleria; la bambagia, il cotone infine. Gail e il mosaico non solo come tecnica figurativa, ma anche come simbolo della vita. Karin: la necessità dell’ombra, il lavoro sull’ombra. Effi e la bellezza degli animali brutti, sformati, non più giovani. Enrica: la riservatezza, “lo sguardo azzurro trasparente che le conferisce un carattere spirituale”; l’amore per l’isola fuori stagione, il suo “buio pieno di colori”. Urania: il salotto, i gatti. E l’autrice, “a studiosa” infine, che di tutto raccoglie le fila, le intreccia con la propria vita tra Lampedusa e Milano, conosce la profondità storica e vissuta dell’isola, dà colore alla lettura anche ricordandoci per prima la nostalgia di Gadda per Pantelleria. Le parole finali del libro sono le uniche su cui mantengo qualche riserva: “Perso il nome, la cicala ha perso il diritto di esistere” (p. 153). Le cose esistono, o perdurano nella memoria, anche senza nome. Sulle cicale mi viene in mente Pavese, che non so più dove scrive: “si spensero le cicale si accesero i grilli” (non so se è esatto). Non c’è alcuno spegnersi delle cicale a Pantelleria, e nessun accendersi dei grilli, ma il vuoto di cicale resta presente nelle memorie.        
La scelta - delle persone, degli eventi - è dettata dal cannocchiale di Angelina, nativa del luogo, ma curiosa delle altre donne, che in anni diversi sono arrivate nella sua isola, di tutto; la curiosità è un altro tratto ritornante nelle donne – solo in loro? Col suo strumento si sposta qua e là, fissa lo sguardo su quanto la attrae; anche su privatezze che vorrebbero restare tali. Il suo cannocchiale arriva dovunque, indiscreto; orienta lo sguardo dell’autrice del testo, e per conseguenza orienta chi legge. Anzi è essa l’occhio, la mano, i sensi tutti di Lucia Bisi: è Angelina che sceglie le protagoniste, che costruisce la trama, che guida la penna di chi scrive.  
Le protagoniste hanno tutte “spiccati talenti, a partire dalle piccole virtù. Piccole virtù che in verità già basterebbero a qualificarle: sono indipendenti, consumano poco, hanno vivissimo il senso del paesaggio”, lo proteggono, non lo offendono: “Non maltrattano il mondo”. Evitano i coni d’ombra della loro vita, ma non cadono nell’irenismo; c’è fatica, dolore, rischio anche nell’isola. Le persone di cui si racconta hanno una loro storia alle spalle, hanno attraversato strati diversi dell’esistere, “hanno giocato bambine sotto cieli diversi”. Non sono affatto sprovvedute, hanno un mestiere, sanno fare e sono colte, come si nota anche soltanto dalle citazioni che nel libro non mancano.  
Solo, il loro sapere viene messo tra parentesi, ed emergono strati del vivere prima dimenticati, sfere del sentire a torto sottovalutate, usi inediti delle loro stesse abilità, costrette ora a misurarsi con materie e ambienti riottosi. Calcare a piedi nudi la terra e l’erba, l’acuirsi della sensibilità tattile, sentire il vento nella sua variabile mobilità e nei sentori di cui è latore. Un ravvivarsi di tonalità del colore da intense a quasi spente, di sapori rimasti latenti, di odori che si impongono con una intensità inusitata. Sapori uditivi incombenti anche sulle mani, sul corpo. Un sapere più acuto dell’esistere nella sua carne.  
Un esercizio fenomenologico in atto, oltre ogni giudizio incrostato sulle cose prima di averne avuto esperienza. In un senso che risveglia in me un passo del Diario fenomenologico di Enzo Paci: “Quando, dopo aver letto senza sufficiente comprensione le Meditazioni cartesiane, nel 1933, ho chiesto a Banfi di aiutarmi, non mi parlò del contenuto del libro […] disse qualcosa di molto semplice. Eravamo nel suo studio. ‘Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede’. Io non volevo accettare questa proposta. E riproponevo i problemi tradizionali della filosofia. Ora so molto bene che cosa Banfi voleva dire e so che cosa vuol dire per me”. Non solo c’è già in nuce quanto più mi ha coinvolto del modo paciano di avvicinarsi alla fenomenologia; ma c’è anche il modo di intendere la fenomenologia in atto in Il vento ce lo disse: descrivere cose nella freschezza dell’esperienza che ne abbiamo, senza travisarle sovrapponendo loro nozioni già date.  
Che sia affidata alle donne questa sensibilità richiama per me, in tutt’altro contesto, Destini di donne nella Germania nazionalsocialista di Vincenzo Da Lucia (Prefazione di Rosalba Maletta, Spring edizioni, Caserta 2020. Annalina Molteni lo ha recensito su “Odissea” nel gennaio del 2021). Donne di diverse estrazioni sociali, ideologie, credenze; talune persino naziste, per ignoranza, o perché così si era costrette ad essere. Portate dalla situazione ad aver a che fare con prigionieri, lavoratori coatti: polacchi per lo più, ma anche di altre nazionalità, comunque mai ebrei; costretti a un lavoro in condizioni disumane. Ogni rapporto coi residenti tedeschi è vietato drasticamente; basta un’attenzione partecipe, un gesto di incoraggiamento, una larvale empatia, il dono di un boccone, per essere severamente redarguite, e punite. Un rapporto affettivo, un amore nascente poi, significa la condanna a morte per il prigioniero, il lager per la donna. Tra i primi bersagli del nazismo vi era ciò che costituisce più squisitamente l’ideale della femminilità: das Ewig Weibliche. Certo, ci sono state (e tuttora ci sono) donne sadiche, crudeli...  sappiamo. Ma è solo un sogno maschile quell’ideale? O solo una prerogativa femminile? Lucia Bisi felicemente associa al femminile il “prendersi cura”: degli atri, degli alberi, degli animali, delle spiagge. Contiene molto degli ideali più alti che abbiamo in comune. Spirito comunitario, passione per il fare, ma non come fine a sé, e senza alcun gusto dell’ornamento (torna il nome di Loos). Gusto per nulla retrivo per la tradizione, “rispetto” piuttosto per quanto troviamo già fatto, e si è costruito nei tempi lunghi di ciò cui diamo il nome di tradizione. 
Una domanda è nel testo, e in noi: È bella l’isola? Chissà. Non mancano pennellate di “brutto”, il rischio resta in agguato, atavico in quest’isola che tuttora reca traccia delle proprie origini vulcaniche. “È bello il dammuso?” reca a titolo un capitolo. Ma di che bellezza si tratta? Ancora una volta il termine bellezza si rivela inadeguato a cogliere le svariate sfumature “estetiche” del luogo. “È brutto il paese?” ci si chiede a un certo punto. Non è brutto dice Angelina: è “confuso”; non è “esatto”, non è curato, sistemato; neppure è “sporco”; risponde a canoni diversi da quelli della bellezza tradizionale. Le donne sono attratte da tante cose differenti. Da possibilità di sapori, gli odori, concentrazione su di sé sul proprio lavoro, di esercizio di un’innata creatività. Difficile incasellarle nello svariare delle categorie tra bello e non bello.


 

La copertina del libro

Lucia Bisi
Il vento ce lo disse. Donne nell’isola
Bolis Edizioni 2021,
Pagg. 160, € 16,00