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venerdì 10 dicembre 2021

DUE TORTI NON FANNO UNA RAGIONE
di Romano Rinaldi

 
È un detto molto in uso nella lingua inglese (two wrongs don’t make a right) ma troppo poco usato nella lingua italiana, al contrario di tante altre espressioni inglesi spesso malamente citate, quando non a totale sproposito. Qui si tende addirittura a giustificare le cattive azioni già fatte in altre occasioni, secondo la teoria del “precedente”!
In questo caso mi riferisco alle considerazioni addotte dal premier indiano Narendra Modi e dagli emissari del leader cinese Xi Jinping, per ritardare alle calende greche l’adozione del protocollo d’intesa sul taglio delle emissioni di inquinanti e gas serra discusso ed approvato dai rappresentanti di tutti i paesi industrializzati al COP26 di Glasgow esattamente un mese fa.
In pratica, queste due nazioni, che producono una discreta proporzione delle emissioni nocive per l’ambiente nei loro Paesi e che contribuiscono in maniera significativa al riscaldamento globale in corso, hanno preteso di sottoscrivere un accordo sul taglio delle emissioni entro un termine di tempo di parecchi anni superiore al tempo massimo individuato per contenere, secondo le ultime proiezioni, il riscaldamento globale entro 1.5°C. Un incremento di temperatura ritenuto tollerabile anche se foriero di disastri ambientali ben peggiori di quelli che si sono già affacciati in molte parti del mondo negli ultimi tempi.
Il Patto sul Clima di Glasgow è dunque uscito da quella riunione con un accordo poco o per nulla vincolante per due grandi Paesi che hanno adottato una linea, seppur apparentemente legittima, perlomeno sconcertante. In pratica, l’allungamento dei tempi di adozione delle limitazioni alle emissioni nocive che hanno ottenuto, è basato su un ragionamento semplice ma diabolico. Questi paesi, essendo in ritardo nello sviluppo socio-economico rispetto ai paesi che hanno trainato la rivoluzione industriale dal tempo della macchina a vapore (a carbone), reclamano il diritto di percorrere la stessa strada, anche se a velocità un po’ più sostenuta, per raggiungere un grado di industrializzazione che consenta loro di arrivare a far parte del gruppo di testa dei “paesi ricchi”, continuando ad utilizzare il carbone come fonte insostituibile di energia per questo “sviluppo” finché lo riterranno opportuno.



È chiaro che qui si potrebbe aprire una lunga discussione su molti degli aspetti toccati in questa brevissima descrizione della situazione. A partire dal termine “sviluppo”, volutamente messo tra virgolette, così come “paesi ricchi”, andando a guardare la qualità della vita di grandi strati della popolazione nei paesi sviluppati e ricchi. A chiunque possono venire seri dubbi sull’effettivo raggiungimento di un ideale di vita felice e sostenibile raggiunta da queste popolazioni. Ma tant’è, limitiamoci qui a considerare pragmaticamente l’aspetto logico della premessa.
Se tutti i Paesi che maggiormente hanno contribuito in passato a immettere nell’atmosfera inquinanti e gas serra si sono finalmente accorti del grave errore fatto e del rischio posto all’umanità intera, quale mai logica può essere invocata dagli altri paesi per ripercorrere la stessa strada e fare gli stessi errori, magari su una scala anche più vasta, in nome di un “benessere” futuro per le loro popolazioni?
Volendo poi andare a vedere in dettaglio la questione del carbone come fonte di energia, già dalla fine del 1800, proiezioni scientifiche basate sui dati di allora, ipotizzavano l’asfissia del pianeta, dovuta alla combustione del carbone, in capo a 200 anni. Difficilmente, dunque, la mia generazione potrà sentirsi responsabile per l’attuale situazione, quando già il padre di mio nonno avrebbe dovuto sentire questa responsabilità. Bene fa Greta Thunberg* a sgridare noi e la nostra generazione, ma coloro che avrebbero dovuto cominciare a preoccuparsi sono ormai morti e sepolti da un pezzo. Ciò non toglie, naturalmente (due torti non fanno una ragione) che non si debba cominciare da subito (e non da qui a 15 o 30 anni, come contemplato nel patto di Glasgow) a ridurre drasticamente le emissioni dovute tuttora al carbone.



Siamo di fronte a un paradosso. I due Paesi più popolosi della Terra, produttori di enormi quantità di beni di largo consumo e di quasi tutti i dispositivi ad elevato contenuto tecnologico, vogliono mantenere o aumentare la produzione di questi beni sfruttando la fonte energetica più antiquata e inquinante che si conosca.
Sappiamo ormai da tempo che ci sono tante altre fonti alternative di energia e su quelle tutti stanno puntando per uno sviluppo sostenibile sia per l’ambiente sia per il clima. Se facciamo mente al mondo della comunicazione come semplice paragone, in Europa abbiamo visto il susseguirsi di tutti i passaggi, a partire da Meucci e Marconi, nell’uso dei mezzi a filo e ad onde radio per la trasmissione e la comunicazione. Siamo passati dal telefono fisso con chiamate attraverso centralino meccanico e operatore, al telefono cellulare; una radio trasmittente e ricevente collegata direttamente a tutto il mondo in tasca a tutti. È altrettanto chiaro che molta della popolazione attuale del pianeta è arrivata direttamente alla telefonia mobile senza aver mai conosciuto reti di cavi e cornette varie. Non sarebbe dunque economicamente più sostenibile nel complesso un passaggio diretto a forme di produzione di energia più “pulite” adottando tecnologie di ultima generazione che portino all’eliminazione del carbone entro le date indicate da tutti gli altri paesi che già possono cominciare a farne a meno? È possibile che questo richieda uno sforzo economico notevole, ma sono gli sforzi economici che migliorano l’economia di un paese. Senza contare le proposte di cospicui aiuti che pure sono state fatte al COP26. Forse si tratta di trovare accordi sugli aiuti economici da predisporre ma questo mi sembra un problema di poco conto rispetto alla posta in gioco.
 
Per dettagli sui risultati ottenuti al COP26 di Glasgow: https://ukcop26.org/wp-content/uploads/2021/11/COP26-Presidency-Outcomes-The-Climate-Pact.pdf
* https://libertariam.blogspot.com/2021/10/