Il verbo medio (dynamai) δύναμαι: posso,
ho forza, ho potenza acquisì questi significati perché il pastore
greco ragionò così: quando noto che ho determinato l’ingravidamento, ho per
me la possibilità di, ho la potenza di. Da questo verbo dedusse (dynamis)
δύναμις: forza, potenza, capacità di effettuare. Da dynamis
fu desunto l’aggettivo dinamico, con il significato originario di: potente,
forte, efficace, valido. Poi, nell’ambito della logica di chi
ha potere, furono elaborati il dinasta e la dinastia, come
dominio di una famiglia. Pertanto, uno
dei modi per indicare posso da parte dei greci fu ricavato dalla
capacità dell’uomo di riprodursi. I greci coniarono
anche: (ex-esti) ἔξ-εστι: è possibile, si può, non da colui che è, ma dal
fatto che era possibile realizzare quella creazione nel grembo materno. In
altri termini, il processo logico fu: se esiste quella creatura (una
qualsiasi cosa), è possibile che si realizzi. Infatti, in altro contesto
avevano detto che nel grembo della gravida si riscontra la presenza, la
parusia, ma anche la facoltà, la potenza attuativa, la forza, la dimostrazione
di ciò che è possibile creare: (ex-ousia) ἐξ-ουσία. I greci
avevano coniato (posis posios) πόσιςπόσιος: marito, la cui radice, presumibilmente, fu (poth ) ποθ, da rendere: è ciò che fa il crescere; tale radice fu conosciuta
dai latini, che se ne servirono per coniare più parole: pot-is: capace
di, che può, da cui il comparativo pot-ior potius: preferibile,
migliore, il comparativo avverbiale: pot-ius quam: piuttosto
che, quindi: pot-ens: che può, abile, valente, pot-ior
potiris: m’impossesso, pot-sum/possum: sono
capace di, posso, valgo, pos-sideo: sono
proprietario, possiedo, pos-sido: entro in possesso, m’impossesso.
Allora ποθo πωθdiventa un
generativo logico, che serve a leggere alcuni aspetti del processo di formazione
della vita. I greci con (posis posios) πόσιςπόσιος avevano voluto indicare il maschio che insemina, i latini con potis formarono
l’aggettivo: colui che è capace di, con il deponente potior potiris il
pastore latino pensò che, di fatto, durante la gestazione, quel piccolissimo
essere s’impossessa di tutto lo spazio, che la madre s’impossessa della
creatura e pos-sidet: possiede, mentre con possum indicò
quale potenzialità ha colui che feconda; infatti, la perifrasi si può rendere
così: nel rimanere il mancare (sum), che è l’inseminazione-formazione
graduale-nascita, fa generare la crescita, da cui può nascere la vita. Il concetto
originario dell’aggettivo potente si coglie più a fondo attraverso il
contrario: impotente, da cui impotenza. Gli italici dissero che è
possibile (realizzare) ciò di cui sono capace, ciò che posso. I
latini si avvalsero della perifrasi quod fieri potest per indicare ciò
che è possibile, a significare che è ciò che è nell’ordine naturale
delle cose, ma anche di: potest esse, per esprimere la probabilità di un
accadimento. Inoltre,
vorrei sottolineare la pervasività del possesso, che è da condannare,
sempre e comunque, perché il possesso non solo riduce le persone a cose, ma è
così oppressivo, che non consente nemmeno il respiro. Prima di
concludere le considerazioni sulla radice ποθ/πωθ, vorrei ricordare il significato dato dai latini a
im-pos im-pot-is: nonpadrone (sui) e a com-pos (sui):
pienamente padrone, in pieno possesso (di sé), concetti dedotti
dal fatto che, se non si attiva il condotto che lega (gestante e feto), non
si è padroni del grembo, cosa che avviene, quando la creatura è in formazione. Da ricordare
che, in altra occasione, i latini avevano definito con-scius colui
che si rende conto di tutte le fasi del processo di formazione della vita, da
cui aveva dedotto con-sciente, il contrario inconsciente, e,
quindi, la con-scientia, generativa anche del senso di giustizia.
Infatti, con-scientia, come significato originario, indica una scienza
comune, una comune conoscenza,che ingloba in sé anche una
comune condizione, causata da processi deterministici, necessari, che è l’ἀνάγκη (ananche): forza
maggiore, legge di natura, spesso dura e comune legge
di natura. A titolo di curiosità rammento che, nel mio dialetto, c’è un dedotto
di ἀνάγκη: a (la) zinangh’, che è un atto di costrizione, per non
dire di forte vessazione.
Pertanto, il
forte senso di giustizia, da cui era pervaso il pastore antico, anche per non
incorrere nella condanna divina, determinava lo scrupolo, in greco:
(merimna) μερίμνα, il rimorso: angor conscientiae, in
contrapposizione a magna vis conscientiae, che era la buona coscienza,
la pace della coscienza. Da sottolineare che angor fu dedotto da (ango) ἄγχω: stringo/costringo
che richiama la stretta, fino all’asfissia, della creatura in travaglio.
Il pastore, che viveva nelle angustie, condivideva e faceva sua la sofferenza
stringente della creatura. Inoltre, si
può pensare che scrupolo, parola molto usata nell’Italia meridionale,
che indica che un mio fare o non fare può causare un grave danno a
persona cui sono legato, sia un dedotto di ῥοπή, che, tra, i tanti significati, si rende anche con:
peso, causa determinante, causa aggiuntiva. Infatti, se ῥοπή significò
anche: inclinazione, discesa del piatto della bilancia, allora lo
scrupolo (in latino scrupulum è la 24° parte di un’oncia) è
l’atto decisivo, anche piccolissimo, che fa pendere la bilancia. Per quanto
riguarda il verbo volere i greci si avvalsero, essenzialmente, del verbo
medio (boulomai) βούλομαι: voglio, desidero e di (ethelo) ἐθέλω: desidero,
bramo, preferisco. Con boulomai il pastore disse che,
quando notava l’abbozzo del grembo, lui desiderava che la creatura nascesse. Con
ethelo attribuì alla creatura, che spinge in modo indefesso e pervicace,
la bramosia di vedere la luce. Un deverbale
importante di boulomai fu (boulé) βουλή, che non
solo significò volontà, decisione, ma anche: consiglio, assemblea,
per cui da boulé furono dedotte parole attinenti alle attività
politico-amministrative. Sicuramente boul (omai)condizionò
la formazione di volo vis, da cui nolo non vis e malo mavis,
e voglio della lingua italiana. Ricordo, inoltre, che vis roboris
è una rielaborazione, da parte dei latini, di (bia) βία: forza, vigore, violenza, che, sicuramente,
contestualizza gli sforzi del travaglio. Da questo vis si generò violo
violas. Tornando a voglio,si evidenzia che in esso si enucleaquesto concetto essenziale: voglio
persone o cose che non ho e che desidero fortemente.
C’è un adagio
che la dice lunga su voglio: “l’erba voglio non cresce nemmeno nel
giardino del re “. Ci sono persone, egoiste, che vogliono tutto per sé, come
per diritto divino o ereditario. Voglio, in realtà, si associa al
deverbale volontà, che, spesso, diventa sinonimo di forzamorale,protesa al raggiungimento di obiettivi di valenza teleologica. Il pastore
latino, quando coniò voluntasvoluntatis, pensò alla creatura in
grembo che, attraverso inenarrabili fatiche, con ostinata tenacia, guarda
sempre e solo al traguardo finale, che è quello di venire alla luce, per cui dà
un valore finalistico al suo forte impegno. Da volo/voglio furono
dedotti: voglia, invogliare, volentieri, volenteroso,
volontario, volontariato, involontario, involontariamente
ed altri ancora. C’è l’avverbio malvolentieri, che è una sorta di
ossimoro, c’è disvolere, ma c’è anche il volubile, che, alla
prima difficoltà, si arrende e pretende di avere, di possedere senza alcuno
sforzo. Tra i cosiddetti
verbi servili, ometto, qui, di parlare di dovere, in quanto ho dedicato
delle considerazioni nel testo: “il dovere “, pubblicato da Odissea in
data 22/9/2020.