Pagine

mercoledì 15 dicembre 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
 


La volontà


Il verbo medio (dynamai) δύναμαι: posso, ho forza, ho potenza acquisì questi significati perché il pastore greco ragionò così: quando noto che ho determinato l’ingravidamento, ho per me la possibilità di, ho la potenza di. Da questo verbo dedusse (dynamis) δύναμις: forza, potenza, capacità di effettuare. Da dynamis fu desunto l’aggettivo dinamico, con il significato originario di: potente, forte, efficace, valido. Poi, nell’ambito della logica di chi ha potere, furono elaborati il dinasta e la dinastia, come dominio di una famiglia.  Pertanto, uno dei modi per indicare posso da parte dei greci fu ricavato dalla capacità dell’uomo di riprodursi.
I greci coniarono anche: (ex-esti) ξ-εστι: è possibile, si può, non da colui che è, ma dal fatto che era possibile realizzare quella creazione nel grembo materno. In altri termini, il processo logico fu: se esiste quella creatura (una qualsiasi cosa), è possibile che si realizzi. Infatti, in altro contesto avevano detto che nel grembo della gravida si riscontra la presenza, la parusia, ma anche la facoltà, la potenza attuativa, la forza, la dimostrazione di ciò che è possibile creare: (ex-ousia) ξ-ουσία.
I greci avevano coniato (posis posios) πόσις πόσιος: marito, la cui radice, presumibilmente, fu (poth ) ποθ, da rendere: è ciò che fa il crescere; tale radice fu conosciuta dai latini, che se ne servirono per coniare più parole: pot-is: capace di, che può, da cui il comparativo pot-ior potius: preferibile, migliore, il comparativo avverbiale: pot-ius quam: piuttosto che, quindi: pot-ens: che può, abile, valente, pot-ior potiris: m’impossesso, pot-sum/possum: sono capace di, posso, valgo, pos-sideo: sono proprietario, possiedo, pos-sido: entro in possesso, m’impossesso.



Allora ποθ o πωθ diventa un generativo logico, che serve a leggere alcuni aspetti del processo di formazione della vita. I greci con (posis posios) πόσις πόσιος avevano voluto indicare il maschio che insemina, i latini con potis formarono l’aggettivo: colui che è capace di, con il deponente potior potiris il pastore latino pensò che, di fatto, durante la gestazione, quel piccolissimo essere s’impossessa di tutto lo spazio, che la madre s’impossessa della creatura e pos-sidet: possiede, mentre con possum indicò quale potenzialità ha colui che feconda; infatti, la perifrasi si può rendere così: nel rimanere il mancare (sum), che è l’inseminazione-formazione graduale-nascita, fa generare la crescita, da cui può nascere la vita.
Il concetto originario dell’aggettivo potente si coglie più a fondo attraverso il contrario: impotente, da cui impotenza. Gli italici dissero che è possibile (realizzare) ciò di cui sono capace, ciò che posso. I latini si avvalsero della perifrasi quod fieri potest per indicare ciò che è possibile, a significare che è ciò che è nell’ordine naturale delle cose, ma anche di: potest esse, per esprimere la probabilità di un accadimento.
Inoltre, vorrei sottolineare la pervasività del possesso, che è da condannare, sempre e comunque, perché il possesso non solo riduce le persone a cose, ma è così oppressivo, che non consente nemmeno il respiro.
Prima di concludere le considerazioni sulla radice ποθ/πωθ, vorrei ricordare il significato dato dai latini a im-pos im-pot-is: non padrone (sui) e a com-pos (sui): pienamente padrone, in pieno possesso (di sé), concetti dedotti dal fatto che, se non si attiva il condotto che lega (gestante e feto), non si è padroni del grembo, cosa che avviene, quando la creatura è in formazione.
Da ricordare che, in altra occasione, i latini avevano definito con-scius colui che si rende conto di tutte le fasi del processo di formazione della vita, da cui aveva dedotto con-sciente, il contrario inconsciente, e, quindi, la con-scientia, generativa anche del senso di giustizia. Infatti, con-scientia, come significato originario, indica una scienza comune, una comune conoscenza, che ingloba in sé anche una comune condizione, causata da processi deterministici, necessari, che è l’νάγκη (ananche): forza maggiore, legge di natura, spesso dura e comune legge di natura. A titolo di curiosità rammento che, nel mio dialetto, c’è un dedotto di νάγκη: a (la) zinangh’, che è un atto di costrizione, per non dire di forte vessazione.



Pertanto, il forte senso di giustizia, da cui era pervaso il pastore antico, anche per non incorrere nella condanna divina, determinava lo scrupolo, in greco: (merimna) μερίμνα, il rimorso: angor conscientiae, in contrapposizione a magna vis conscientiae, che era la buona coscienza, la pace della coscienza. Da sottolineare che angor fu dedotto da (ango) γχω: stringo/costringo che richiama la stretta, fino all’asfissia, della creatura in travaglio. Il pastore, che viveva nelle angustie, condivideva e faceva sua la sofferenza stringente della creatura.
Inoltre, si può pensare che scrupolo, parola molto usata nell’Italia meridionale, che indica che un mio fare o non fare può causare un grave danno a persona cui sono legato, sia un dedotto di οπή, che, tra, i tanti significati, si rende anche con: peso, causa determinante, causa aggiuntiva. Infatti, se οπή significò anche: inclinazione, discesa del piatto della bilancia, allora lo scrupolo (in latino scrupulum è la 24° parte di un’oncia) è l’atto decisivo, anche piccolissimo, che fa pendere la bilancia.
Per quanto riguarda il verbo volere i greci si avvalsero, essenzialmente, del verbo medio (boulomai) βούλομαι: voglio, desidero e di (ethelo) θέλω: desidero, bramo, preferisco. Con boulomai il pastore disse che, quando notava l’abbozzo del grembo, lui desiderava che la creatura nascesse. Con ethelo attribuì alla creatura, che spinge in modo indefesso e pervicace, la bramosia di vedere la luce.
Un deverbale importante di boulomai fu (boulé) βουλή, che non solo significò volontà, decisione, ma anche: consiglio, assemblea, per cui da boulé furono dedotte parole attinenti alle attività politico-amministrative. Sicuramente boul (omai) condizionò la formazione di volo vis, da cui nolo non vis e malo mavis, e voglio della lingua italiana. Ricordo, inoltre, che vis roboris è una rielaborazione, da parte dei latini, di (bia) βία: forza, vigore, violenza, che, sicuramente, contestualizza gli sforzi del travaglio. Da questo vis si generò violo violas.
Tornando a voglio, si evidenzia che in esso si enuclea questo concetto essenziale: voglio persone o cose che non ho e che desidero fortemente.



C’è un adagio che la dice lunga su voglio: “l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re “. Ci sono persone, egoiste, che vogliono tutto per sé, come per diritto divino o ereditario. Voglio, in realtà, si associa al deverbale volontà, che, spesso, diventa sinonimo di forza morale, protesa al raggiungimento di obiettivi di valenza teleologica. Il pastore latino, quando coniò voluntas voluntatis, pensò alla creatura in grembo che, attraverso inenarrabili fatiche, con ostinata tenacia, guarda sempre e solo al traguardo finale, che è quello di venire alla luce, per cui dà un valore finalistico al suo forte impegno. Da volo/voglio furono dedotti: voglia, invogliare, volentieri, volenteroso, volontario, volontariato, involontario, involontariamente ed altri ancora. C’è l’avverbio malvolentieri, che è una sorta di ossimoro, c’è disvolere, ma c’è anche il volubile, che, alla prima difficoltà, si arrende e pretende di avere, di possedere senza alcuno sforzo.
Tra i cosiddetti verbi servili, ometto, qui, di parlare di dovere, in quanto ho dedicato delle considerazioni nel testo: “il dovere “, pubblicato da Odissea in data 22/9/2020.