Solo
qualche notazione sparsa, dettata da momenti della lettura che da subito mi
hanno preso. Non bisogna d’altronde dire troppo in una presentazione: deve
esser solo un invito alla lettura. Il modo snello di scrivere, elegante, senza
ridondanze né “ornamenti” (Loos torna più di una volta) colpisce per prima cosa.
Dire che il libro è “ben scritto”, “accattivante” (e lo è), è però dir poco;
occorre sottolineare che “dice” qualcosa, e dice cose di rilievo. In tempi ad
esempio in cui “sentire” la terra non esiste, il gesto di togliersi le scarpe
appena si arriva a Pantelleria è l’emblema più eloquente della vita nell’isola.
Dà nell’occhio già a prima vista l’alternarsi di tondo e di corsivo, a
connotare strati diversi del narrare, da più descrittivo a fantastico-riflessivo
(contestualizzazioni, citazioni, chiarimenti). Il libro è corredato da disegni
ad acquarello di Maurizio Monteforte, che evocano tratti della vita a
Pantelleria. Una citazione evocativa di Anna Maria Ortese fa da esergo; la
dedica è “a Jolanda grande donna di Sibà e alle amiche che abitano nell’isola”.
“Jolanda è la vecchia signora pantesca che periodicamente mi toglie il
malocchio...!” mi scrive Lucia Bisi. Incontriamo
donne che si innamorano di Pantelleria, tanto da andarci a vivere: talune per sempre,
altre per periodi più o meno lunghi. Per lo più sole, ma dove la solitudine non
è isolamento di cui si soffre. Un raccogliersi su di sé piuttosto, e un
ritrovare in sé e nel mondo fuori sapori che la vita in città smorza se non
cancella del tutto. Domina su tutto il “prendersi cura” di ogni cosa, animata o
meno che sia, che (Lucia Bisi mi conferma) è la caratteristica fondante della
femminilità. Valori in tutto questo, esistenzialmente preziosi, e che è
devastante perdere. Uomini anche, certo, ma quasi ombre collaterali; mai “maschi”
comunque che io veda, seguendo una distinzione che devo a Duccio Demetrio. Protagoniste
sono quindici donne, provenienti da luoghi lontani, da città italiane per lo
più, ma anche da altre contrade; tranne Angelina, pantesca. Le ricordo qui solo
in tratti che parranno casuali, ma per me soggettivamente salienti. Maria: la sua
incantata vita subacquea, l’intelligenza del polpo, i coralli, il loro
scolorirsi. Titta e la cura del terreno che investe tutto (“curare il terreno è
anche un modo speciale di camminare”); la capacità di leggere il cielo; la
positività della solitudine. Marianna, le traduzioni, la capacità di
interpretare le cose oltre ai testi. Helena e il suo giardino di fiori. Miranda
altoatesina, la danza per fatalità abbandonata, ma che si fa evento nell’isola.
Valentina e la musica, porta fuori casa la sua arpa, che anche il vento suona.
Gemma che porta l’aria di Verona. Diana: la luna del ’69, Gabriel Garcia
Marquez che scopre la bellezza di Pantelleria; la bambagia, il cotone infine.
Gail e il mosaico non solo come tecnica figurativa, ma anche come simbolo della
vita. Karin: la necessità dell’ombra, il lavoro sull’ombra. Effi e la bellezza
degli animali brutti, sformati, non più giovani. Enrica: la riservatezza, “lo
sguardo azzurro trasparente che le conferisce un carattere spirituale”; l’amore
per l’isola fuori stagione, il suo “buio pieno di colori”. Urania: il salotto, i
gatti. E l’autrice, “a studiosa” infine, che di tutto raccoglie le fila,
le intreccia con la propria vita tra Lampedusa e Milano, conosce la profondità
storica e vissuta dell’isola, dà colore alla lettura anche ricordandoci per
prima la nostalgia di Gadda per Pantelleria. Le parole finali del libro sono le
uniche su cui mantengo qualche riserva: “Perso il nome, la cicala ha perso il
diritto di esistere” (p. 153). Le cose esistono, o perdurano nella memoria,
anche senza nome. Sulle cicale mi viene in mente Pavese, che non so più dove
scrive: “si spensero le cicale si accesero i grilli” (non so se è esatto). Non
c’è alcuno spegnersi delle cicale a Pantelleria, e nessun accendersi dei grilli,
ma il vuoto di cicale resta presente nelle memorie. La
scelta - delle persone, degli eventi - è dettata dal cannocchiale di Angelina,
nativa del luogo, ma curiosa delle altre donne, che in anni diversi sono
arrivate nella sua isola, di tutto; la curiosità è un altro tratto ritornante nelle
donne – solo in loro? Col suo strumento si sposta qua e là, fissa lo sguardo su
quanto la attrae; anche su privatezze che vorrebbero restare tali. Il suo
cannocchiale arriva dovunque, indiscreto; orienta lo sguardo dell’autrice del
testo, e per conseguenza orienta chi legge. Anzi è essa l’occhio, la mano, i
sensi tutti di Lucia Bisi: è Angelina che sceglie le protagoniste, che
costruisce la trama, che guida la penna di chi scrive. Le
protagoniste hanno tutte “spiccati talenti, a partire dalle piccole virtù.
Piccole virtù che in verità già basterebbero a qualificarle: sono indipendenti,
consumano poco, hanno vivissimo il senso del paesaggio”, lo proteggono, non lo
offendono: “Non maltrattano il mondo”. Evitano i coni d’ombra della loro vita,
ma non cadono nell’irenismo; c’è fatica, dolore, rischio anche nell’isola. Le persone
di cui si racconta hanno una loro storia alle spalle, hanno attraversato strati
diversi dell’esistere, “hanno giocato bambine sotto cieli diversi”. Non sono
affatto sprovvedute, hanno un mestiere, sanno fare e sono colte, come si nota
anche soltanto dalle citazioni che nel libro non mancano. Solo,
il loro sapere viene messo tra parentesi, ed emergono strati del vivere prima
dimenticati, sfere del sentire a torto sottovalutate, usi inediti delle loro stesse
abilità, costrette ora a misurarsi con materie e ambienti riottosi. Calcare a
piedi nudi la terra e l’erba, l’acuirsi della sensibilità tattile, sentire il
vento nella sua variabile mobilità e nei sentori di cui è latore. Un ravvivarsi
di tonalità del colore da intense a quasi spente, di sapori rimasti latenti, di
odori che si impongono con una intensità inusitata. Sapori uditivi incombenti anche
sulle mani, sul corpo. Un sapere più acuto dell’esistere nella sua carne. Un
esercizio fenomenologico in atto, oltre ogni giudizio incrostato sulle cose
prima di averne avuto esperienza. In un senso che risveglia in me un passo del Diario
fenomenologico di Enzo Paci: “Quando, dopo aver letto senza sufficiente
comprensione le Meditazioni cartesiane,
nel 1933, ho chiesto a Banfi di aiutarmi, non mi parlò del contenuto del libro
[…] disse qualcosa di molto semplice. Eravamo nel suo studio. ‘Vede questo vaso
di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede’. Io non volevo
accettare questa proposta. E riproponevo i problemi tradizionali della
filosofia. Ora so molto bene che cosa Banfi voleva dire e so che cosa vuol dire
per me”. Non solo c’è già in nuce quanto più mi ha coinvolto del modo paciano
di avvicinarsi alla fenomenologia; ma c’è anche il modo di intendere la
fenomenologia in atto in Il vento ce lo disse: descrivere cose nella
freschezza dell’esperienza che ne abbiamo, senza travisarle sovrapponendo loro nozioni
già date. Che
sia affidata alle donne questa sensibilità richiama per me, in tutt’altro
contesto, Destini di donne nella Germania nazionalsocialistadi Vincenzo Da Lucia
(Prefazione di Rosalba Maletta, Spring edizioni, Caserta 2020. Annalina Molteni
lo ha recensito su “Odissea” nel gennaio del 2021). Donne di diverse estrazioni
sociali, ideologie, credenze; talune persino naziste, per ignoranza, o perché
così si era costrette ad essere. Portate dalla situazione ad aver a che fare
con prigionieri, lavoratori coatti: polacchi per lo più, ma anche di altre
nazionalità, comunque mai ebrei; costretti a un lavoro in condizioni disumane.
Ogni rapporto coi residenti tedeschi è vietato drasticamente; basta un’attenzione
partecipe, un gesto di incoraggiamento, una larvale empatia, il dono di un boccone,
per essere severamente redarguite, e punite. Un rapporto affettivo, un amore
nascente poi, significa la condanna a morte per il prigioniero, il lager per la
donna. Tra i primi bersagli del nazismo vi era ciò che costituisce più
squisitamente l’ideale della femminilità: das Ewig Weibliche. Certo, ci
sono state (e tuttora ci sono) donne sadiche, crudeli... sappiamo. Ma è
solo un sogno maschile quell’ideale? O solo una prerogativa femminile? Lucia
Bisi felicemente associa al femminile il “prendersi cura”: degli atri, degli
alberi, degli animali, delle spiagge. Contiene molto degli ideali più alti che
abbiamo in comune. Spirito comunitario, passione per il fare, ma non come fine
a sé, e senza alcun gusto dell’ornamento (torna il nome di Loos). Gusto per
nulla retrivo per la tradizione, “rispetto” piuttosto per quanto troviamo già
fatto, e si è costruito nei tempi lunghi di ciò cui diamo il nome di tradizione. Una
domanda è nel testo, e in noi: È bella l’isola? Chissà. Non mancano pennellate
di “brutto”, il rischio resta in agguato, atavico in quest’isola che tuttora
reca traccia delle proprie origini vulcaniche. “È bello il dammuso?” reca a
titolo un capitolo. Ma di che bellezza si tratta? Ancora una volta il termine
bellezza si rivela inadeguato a cogliere le svariate sfumature “estetiche” del
luogo. “È brutto il paese?” ci si chiede a un certo punto. Non è brutto dice
Angelina: è “confuso”; non è “esatto”, non è curato, sistemato; neppure è
“sporco”; risponde a canoni diversi da quelli della bellezza tradizionale. Le
donne sono attratte da tante cose differenti. Da possibilità di sapori, gli
odori, concentrazione su di sé sul proprio lavoro, di esercizio di un’innata
creatività. Difficile incasellarle nello svariare delle categorie tra bello e
non bello.
La copertina del libro
Lucia
Bisi Il
vento ce lo disse. Donne nell’isola Bolis
Edizioni 2021, Pagg.
160, € 16,00