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giovedì 23 dicembre 2021

“RIBELLARSI È GIUSTO” 
di Franco Astengo

 
L’esito dello sciopero generale del 16 dicembre e il risultato del ballottaggio nelle elezioni presidenziali cilene del 19 dicembre (con ciò che ha sempre storicamente legato le vicende della sinistra italiana a quella cilena) hanno rappresentato due momenti di evidenziazione della necessità di approfondire la riflessione a sinistra:
1). l’andamento dello sciopero ha dimostrato l’esistenza di una base sociale che ha sede nel mondo del lavoro e che richiede una rappresentanza politica sui temi generali della condizione materiale di vita e di rapporti sociali. Questo dato è stato ammesso, anzi enfatizzato, anche dagli stessi promotori dello sciopero;
2). L’esito elettorale cileno, arrivato come reazione ad un attacco fortissimo da destra, ha palesato almeno due elementi: a) la realizzazione di un rinnovamento della classe dirigente; b) la concretizzazione di un discorso unitario basato su di un orientamento chiaramente definito nel “manifesto” di Apruebo Dignidad. Un orientamento posto al di fuori di una compromissione moderata e precisamente misurato sul socialismo democratico, la dignità del lavoro, la rappresentanza delle nuove grandi contraddizioni post-materialiste affrontate in una dimensione non corporativa o settoriale, ma di lotta generale per l’emancipazione sociale.
Nel frattempo per ironia della sorte, nel microcosmo residuale della sinistra italiana, l’ennesima mini-scissione da ceto politico ha colpito la già esile struttura di “Sinistra Italiana”.



La dichiarazione rilasciata da Loredana De Petris, a suo tempo combattiva militante di Democrazia Proletaria, sulle ragioni di questa divisione non lascia dubbi: per i fuoriusciti (nel tempo naturalmente gratificati dal laticlavio e veri professionisti della politica) si tratta di inseguire quella che si può ben definire una “moda” alla ricerca di una visibilità e uno spazio molto incerti da definire nel concreto.
Scrive la De Petris: “Bisogna costruire una forte soggettività politica ambientalista e di sinistra, la definirei socio-ecologista. Quello che c’è a sinistra del Pd non basta più, si rischia di restare prigionieri delle identità. Abbiamo provato a fare questo percorso dentro SI, ma non ha funzionato, nel partito ha prevalso la custodia della propria “casa”. Noi vogliamo invece tornare in mare aperto”.
Parole che abbiamo letto e sentite parecchie volte nel corso degli anni uscite dalla penna o dalla bocca di esponenti che trovano difficoltà a mollare l’osso di una politica frequentata davvero come occasione di conservazione di “status” avventurosamente ritrovati in diverse occasioni elettorali come nel caso dell’”antipolitica” trasformata in “politique d’abord” da parte del M5S.
“Antipolitica” e “Ambientalismo” così intesi: forse non si tratta di due facce della stessa medaglia del facile populismo opportunisticamente elettoralistico?
Una risposta possibile ci viene da una citazione tratta da un articolo di Breville e Rimbert apparso su “Le monde diplomatique” di dicembre. Una citazione da René Dumont, primo ambientalista a candidarsi alla presidenza francese nel lontano 1974: “Ci sembra davvero improbabile che si possa verificare una magnifica fioritura di ‘uomini nuovi’ in un regime capitalistico. Il cristianesimo ci prova da duemila anni e ha fallito perché consiglia tuttora la gentilezza ai ricchi egoisti, invece di predicare la rivolta dei poveri, una crociata contro le casseforti.
Ancora: nel 1972 nel documento finale della Conferenza dell’ONU sull’ambiente umano si legge della lotta “contro le forme coloniali e le altre forme di oppressione.



In sostanza si può ben affermare che la complessità delle contraddizioni sociali emergenti nella modernità non possono essere semplicisticamente affrontate affidando, nella transizione, i meccanismi del potere ai capricci del ciclo finanziario inteso come suprema affermazione della modernità capitalistica.
Sono 2 gli elementi che stanno dentro a questa presunta fase di transizione:  “oppressione” e “sfruttamento”; 2 elementi che reclamano il pieno ritorno al “ribellarsi è giusto”. Sembra proprio essere questa l’indicazione che ci arriva dallo sciopero in Italia e dalla vittoria elettorale in Cile. Non servono le mini-scissioni modaiole buone per tenere qualche posto nelle liste elettorali.
Occorre costruire e organizzare una massa critica sufficiente perché a tutti i livelli si esprima una necessaria “opinione alternativa” con una conseguente pratica politica complessiva.
Loris Caruso ed Enrico Padoan (il Manifesto 22 dicembre) a proposito delle elezioni cilene scrivono di “strategia politica prima che piattaforma programmatica.



La sinistra italiana ha davanti, a breve termine, un solo primo possibile passo strategico: assemblare le forze attorno ai nodi fondamentali dell’oppressione e dello sfruttamento per contrastare produttivamente l’ampio spettro di opzioni che la modernità offre ai padroni per proseguire ad esercitare il loro dominio.
 Dal nostro punto di vista si tratta allora di tornare a organizzare una massa critica autonomamente sufficiente per tornare a contare sul piano istituzionale e difendere così le libertà fondamentali di espressione sociale, politica, culturale.
“Programma minimo” con l’obiettivo di riuscire ad esprimerci politicamente non in dimensione isolata e semplicisticamente identitaria ricordando ancora come nel “caso italiano” tutto questo sta comunque semplicemente dentro ad un discorso di difesa e affermazione costituzionale e alla tradizione di lotta della sinistra storica e del movimento operaio.