L’esito
dello sciopero generale del 16 dicembre e il risultato del ballottaggio nelle
elezioni presidenziali cilene del 19 dicembre (con ciò che ha sempre
storicamente legato le vicende della sinistra italiana a quella cilena) hanno
rappresentato due momenti di evidenziazione della necessità di approfondire la
riflessione a sinistra: 1). l’andamento dello
sciopero ha dimostrato l’esistenza di una base sociale che ha sede nel mondo
del lavoro e che richiede una rappresentanza politica sui temi generali della
condizione materiale di vita e di rapporti sociali. Questo dato è stato
ammesso, anzi enfatizzato, anche dagli stessi promotori dello sciopero; 2). L’esito elettorale
cileno, arrivato come reazione ad un attacco fortissimo da destra, ha palesato
almeno due elementi: a) la realizzazione di un rinnovamento della classe
dirigente;b) la concretizzazione di un discorso unitario basato su di
un orientamento chiaramente definito nel “manifesto” di Apruebo Dignidad. Un
orientamento posto al di fuori di una compromissione moderata e precisamente
misurato sul socialismo democratico, la dignità del lavoro, la rappresentanza
delle nuove grandi contraddizioni post-materialiste affrontate in una
dimensione non corporativa o settoriale, ma di lotta generale per
l’emancipazione sociale. Nel frattempo per ironia della sorte, nel
microcosmo residuale della sinistra italiana, l’ennesima mini-scissione da ceto
politico ha colpito la già esile struttura di “Sinistra Italiana”.
La dichiarazione rilasciata da Loredana De Petris,
a suo tempo combattiva militante di Democrazia Proletaria, sulle ragioni di
questa divisione non lascia dubbi: per i fuoriusciti (nel tempo naturalmente
gratificati dal laticlavio e veri professionisti della politica) si tratta di
inseguire quella che si può ben definire una “moda” alla ricerca di una
visibilità e uno spazio molto incerti da definire nel concreto. Scrive la De Petris: “Bisogna costruire una
forte soggettività politica ambientalista e di sinistra, la definirei
socio-ecologista. Quello che c’è a sinistra del Pd non basta più, si rischia di
restare prigionieri delle identità. Abbiamo provato a fare questo percorso
dentro SI, ma non ha funzionato, nel partito ha prevalso la custodia della
propria “casa”. Noi vogliamo invece tornare in mare aperto”. Parole
che abbiamo letto e sentite parecchie volte nel corso degli anni uscite dalla
penna o dalla bocca di esponenti che trovano difficoltà a mollare l’osso di una
politica frequentata davvero come occasione di conservazione di “status”
avventurosamente ritrovati in diverse occasioni elettorali come nel caso
dell’”antipolitica” trasformata in “politique d’abord” da parte del M5S. “Antipolitica”
e “Ambientalismo” così intesi: forse non si tratta di due facce della stessa
medaglia del facile populismo opportunisticamente elettoralistico? Una
risposta possibile ci viene da una citazione tratta da un articolo di Breville
e Rimbert apparso su “Le monde diplomatique” di dicembre. Una citazione da René
Dumont, primo ambientalista a candidarsi alla presidenza francese nel lontano
1974: “Ci sembra davvero improbabile che si possa verificare una magnifica
fioritura di ‘uomini nuovi’ in un regime capitalistico. Il cristianesimo
ci prova da duemila anni e ha fallito perché consiglia tuttora la gentilezza ai
ricchi egoisti, invece di predicare la rivolta dei poveri, una crociata contro
le casseforti”. Ancora:
nel 1972 nel documento finale della Conferenza dell’ONU sull’ambiente umano si
legge della lotta “contro le forme coloniali e le altre forme di oppressione”.
In
sostanza si può ben affermare che la complessità delle contraddizioni sociali
emergenti nella modernità non possono essere semplicisticamente affrontate
affidando, nella transizione, i meccanismi del potere ai capricci del ciclo
finanziario inteso come suprema affermazione della modernità capitalistica. Sono
2 gli elementi che stanno dentro a questa presunta fase di transizione:“oppressione” e “sfruttamento”; 2 elementi
che reclamano il pieno ritorno al “ribellarsi è giusto”. Sembra proprio essere
questa l’indicazione che ci arriva dallo sciopero in Italia e dalla vittoria
elettorale in Cile. Non servono le mini-scissioni modaiole buone per tenere
qualche posto nelle liste elettorali. Occorre
costruire e organizzare una massa critica sufficiente perché a tutti i livelli
si esprima una necessaria “opinione alternativa” con una conseguente pratica
politica complessiva. Loris
Caruso ed Enrico Padoan (il Manifesto 22 dicembre) a proposito delle elezioni
cilene scrivono di “strategia politica prima che piattaforma programmatica”.
La
sinistra italiana ha davanti, a breve termine, un solo primo possibile passo
strategico: assemblare le forze attorno ai nodi fondamentali dell’oppressione e
dello sfruttamento per contrastare produttivamente l’ampio spettro di opzioni
che la modernità offre ai padroni per proseguire ad esercitare il loro dominio. Dal nostro punto di vista si tratta allora di
tornare a organizzare una massa critica autonomamente sufficiente per tornare a
contare sul piano istituzionale e difendere così le libertà fondamentali di
espressione sociale, politica, culturale. “Programma
minimo” con l’obiettivo di riuscire ad esprimerci politicamente non in dimensione
isolata e semplicisticamente identitaria ricordando ancora come nel “caso
italiano” tutto questo sta comunque semplicemente dentro ad un discorso di
difesa e affermazione costituzionale e alla tradizione di lotta della sinistra
storica e del movimento operaio.