Sancta
semplicitas. Un
filosofo di solito ha due strade per far correre il proprio pensiero. Una
delle due danza nello stile del pensiero matematico. La verità è costruibile
solo con l’apparato concettuale privo di qualsiasi riferimento realistico. È il
vero trionfo dell’essere. Il sogno infinito perché non ha limite se non nel
proprio spazio: è il caso della verità autosufficiente, lo spazio ideale perché
nasca la verità della filosofia. La seconda strada è la ricerca della verità
nella “realtà” di qualsiasi oggetto. La verità conosce il suo limite e il suo
inganno semantico. Del resto le due prospettive si incontrano reciprocamente in
quello che chiamiamo la nostra vita. La filosofia “apre” in direzione di un
realismo critico. Se si dimentica l’aggettivo siamo nel luogo comune. La
filosofia conosce nell’Ottocento e oltre questa sterile avventura. La
pandemia ha mostrato che c’è anche una gloria umanistica, niente affatto solo
una sconfitta. Anche se siamo fragili creature del contingente tessuto del
mondo, anche se la ragione cerca di vincere il proprio oggetto. L’epidemia è
l’oscuro dominio dell’oggetto e il rischio di una nostra possibile sconfitta.
Il filosofo deve educare a non abbandonare il nostro posto, anche se il suo
nemico può apparire più potente di altri che hanno segnato la nostra vicenda di
creature dall’accadere di un mondo e niente affatto quello di signori
dell’essere. La grande tradizione biblica ci insegna che potevamo essere simili
a divinità, ma qual era il giardino degli Dei dove i fiori non appassiscono
mai?