La
battaglia per la democrazia economica non finisce mai. L’Assemblea
Straordinaria dei soci della Banca Popolare di Sondrio del 29 dicembre 2021,
votando, a larga maggioranza, la trasformazione ormai obbligatoria (date le sanzioni
minacciate) della Banca Popolare in Società per azioni, ha posto fine ad una
delle vicende più tristi, squallide, umilianti e dannose della storia bancaria
italiana. Essa
inizia nel 2015, con un atto di governo mascherato da provvedimento legislativo
ed etichettato come riforma delle banche popolari, mentre fu solo un atto di
violenza burocratica-governativa finalizzato a far scomparire (come tali) le
maggiori banche popolari. Descrivo tale pseudo riforma con le parole di uno dei
più profondi, rispettati ed equilibrati studiosi del sistema bancario, Marco
Onado, che inizia uno dei suoi più importanti articoli in materia (2021) con
queste parole: “Una delle riforme più controverse in campo bancario è quella
che nel 2015 ha imposto alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi
di trasformarsi in società per azioni. Non è stata una riforma efficace e
tempestiva, come è dimostrato dal fatto che quattro delle dieci banche colpite
dal provvedimento sono state o poste in amministrazione straordinaria o
addirittura liquidate, come nel caso delle due venete. Ma il punto più delicato
della riforma era la soluzione giuridica adottata, quella di intervento sul
modello societario, dunque su un aspetto strettamente attinente alla libertà
associativa e imprenditoriale, tanto da suscitare autorevoli dubbi sulla sua
costituzionalità”.
All’inizio,
come scrive Onado, il provvedimento sollevò una vivace controversia ma, ben
presto, la discussione si spense, soffocata dalla tradizionale viltà della
classe dirigente italiana e dalla potenza della cricca burocratica-bancaria
romana. Sicché, in verità, anche per l’assenza di un giornalismo serio se non
per poche eccezioni, non c’è mai stato un dibattito vero, così come non ci fu
mai una discussione parlamentare. Infatti, il provvedimento assunse la forma di
decreto-legge che avrebbe dovuto convertirsi in legge dopo un dibattito
parlamentare che non ci fu, perché il decreto fu convertito con un voto di
fiducia. Ora l’atto che chiude l’intera storia è un’assemblea societaria lunare
(una non assemblea) nella quale è stato impedito ai soci di partecipare e di
dibattere anche in remoto. Una svolta storica imposta dai vertici burocratici
bancari italiani ed europei senza partecipazione dei soci che potevano pronunciare
solo un sì o un no, in via telematica, ad un incaricato estraneo all’assemblea,
al consiglio dei soci ed alla banca senza possibilità di formulare qualsiasi
proposta correttiva del tipo di quelle molto ragionevoli, legali e sostenibili
suggerite dal Comitato a sostegno dell’Autonomia e Indipendenza della Banca
Popolare di Sondrio. Perciò nessuna meraviglia che a chiudere una vicenda
allucinante abbiano votato in assemblea straordinaria per la trasformazione
soltanto 2514 soci pari al 1,67% degli aventi diritto di voto. Se fossimo
ancora un paese democratico e di diritto qualcuno potrebbe porre in dubbio la
validità di una delibera di trasformazione di questa importanza storica, presa
da una così esigua superminoranza di soci e senza facoltà di esprimere pareri e
commenti. Ma siamo un paese dove il governo impone una riforma di questa
portata con un decreto legge convertito in voto di fiducia, il sindaco di
Milano viene eletto da circa il 25% dei cittadini e, con questa modesta
legittimazione, può letteralmente fare quello che vuole e dove parlamento e consigli
comunali sono privati di ogni funzione se non quella di ricordarci la grande
verità che John F. Kennedy pronunciò nel suo discorso all’ONU nel 1961: “Il
conformismo è il carceriere della libertà e il nemico dello sviluppo”.
Nel
2026 si festeggerà il 150° anniversario della fondazione dell’Associazione
delle Banche Popolari avvenuta nel 1876. Dodici anni prima, nel 1864, era nata
la prima banca popolare italiana, la Banca Agricola Popolare di Lodi, con il
contributo di Tiziano Zalli e di Luigi Luzzati. Due anni prima Tiziano Zalli,
già fondatore della Società Generale di Mutuo Soccorso degli Operai, di cui
presidente onorario era Giuseppe Garibaldi, aveva proposto la creazione di una
cassa “perché senza ricorrere all’usura privata sempre ruinosa o al Monte di
Pietà, l’operaio onesto potesse ottenere credito per provvedere a’ suoi bisogni
domestici ed industriali sulla garanzia della sua onoratezza e del suo amore al
lavoro”. Il contributo che le
Banche Popolari, hanno dato al Paese ed ai propri territori nel corso di 150
anni, è stato immenso e non può, in questa sede, neppure essere riassunto. L’esigenza
di questo bilanciamento fra potere del capitale e democrazia economica non fu
solo italiana ma fu presente in tutti i principali paesi, in primo luogo in
Germania ma anche negli Stati Uniti proprio nel periodo della formazione dei
grandi trust, delle grandi banche
d'affari, dell'accumulo dei grandi patrimoni e della concentrazione dei redditi.
Per conoscere questo periodo e le forti analogie con i nostri anni siamo oggi favoriti da un libro da poco uscito in Italia, edito
negli Stati Uniti nel 1913 che unisce nove articoli pubblicati nello stesso anno, su Harper's Weekly, dal giurista ed economista Louis D. Brandeis, «I soldi degli
altri e come i banchieri li usano», (Edizioni di storia e letteratura, 2014). Louis D. Brandeis è stato un eminente giurista ed economista americano della prima metà del '900. Ha assistito al formarsi delle grandi concentrazioni di potere
finanziario, alla nascita
dei grandi trust dell'acciaio, del petrolio,
delle ferrovie, all'emergere delle grandi banche favorite dall'unione tra le attività di banca
commerciale o di deposito e le
attività di banche d'affari (la loro forza era basata, appunto, sulla possibilità di usare i soldi
degli altri, dei depositanti, per i
propri investimenti e affari). Si è battuto per l'intera vita contro la
concentrazione del
potere finanziario, come coautore della legislazione antitrust, come pubblicista battagliero, come stretto collaboratore di Wilson nella campagna per la presidenza (vinta da Wilson) nel 1912. È interessante osservare che
l'unico antidoto che Brandeis
vede possibile per opporsi
allo strapotere dei grandi conglomerati finanziari è proprio il modello europeo del credito cooperativo e l'unico italiano citato nel libro è Luzzati, alfiere
dello stesso. Dal 1915 al 1939, Brandeis è stato
giudice della Corte Suprema degli USA,
da dove ha condotto le sue continue
battaglie contro i monopoli e le concentrazioni economiche e finanziarie, per la riforma del sistema bancario e la tutela dei diritti civili e del lavoro. Nel
1933, con Roosevelt vedrà
realizzarsi il suo sogno della separazione, con il Glass-Steagall-Act, tra le
banche commerciali (accettare depositi e fare prestiti) e le banche d’affari
(fare emissioni e negoziazioni di titoli).Nel frattempo, però
l'oligarchia finanziaria, usando
e abusando dei «soldi degli altri» aveva guadagnato cifre colossali e acquisito un potere, anche politico, enorme, che continua ancora oggi.
L'inquietante interesse del libro è che scopriamo che oggi — dopo lo svuotamento di fatto della legislazione antitrust, l'abrogazione, sotto la presidenza Clinton, del Glass-Steagall-Act, e il ritorno all'unione tra
banche commerciali e di
deposito e banche d'affari, la conseguente
ripartenza virulenta della concentrazione di ricchezza economica e finanziaria,
il proliferare di strumenti
finanziari fuori da ogni controllo ("shadow banking system") — siamo più o meno ritornati nel sistema
generale ed anche da noi, all'inizio del ‘900. Come scrive, nell'eccellente
introduzione, Lapo Berti: «La sconcertante
conclusione che possiamo trarre noi oggi dal libro a cento anni esatti dalla sua prima pubblicazione e nel pieno di una crisi iniziata proprio con le banche e poi dilagata all'economia intera è che i fenomeni che analizza e discute sono gli stessi nostri, nonché, per
chi voglia vederle, buona parte
delle soluzioni che offre».Dunque, tutto quello che sfugge a questo insensato e pericolosissimo gigantismo va cancellato. Il credito cooperativo e di territorio è estraneo al gigantismo finanziario e, per questo, va cancellato. Questa è
l'unica verosimile motivazione del provvedimento che ha portato alla scomparsa delle principali banche
popolari con il suo epilogo il 29.12.2021.
Quando scoppiò la crisi finanziaria del 2008, per qualche
tempo ci si è interrogati seriamente sulle cause della crisi e tra esse un grande peso fu assegnato al gigantismo bancario. Furono molte le voci che, allora, sostennero che la
soluzione consisteva nel frenare
e smontare il gigantismo bancario.
In questo senso, per menzionare solo una persona che era parte del sistema, è possibile citare l'allora
direttore della Banca dei Regolamenti Internazionali che si dichiarò
apertamente nella direzione di smontare i gruppi bancari troppo grandi. Ma
anche la Banca Centrale Svizzera pubblicò un rapporto sui pericoli del gigantismo bancario e il suo vicepresidente Philipp
Hildebrand si espresse apertamente per la riduzione dimensionale delle banche troppo grosse "senza remore
e senza tabù". Tra i maggiori studiosi si può ricordare William Sharpe
che dichiarò: «C'è una
seria discussione da affrontare sulle istituzioni troppo grandi non solo per lasciarle fallire ma anche per
poterle regolare... Sicuramente certi gruppi erano diventati
troppo grandi per poter funzionare
non solo per poter fallire». Ma già nell'estate 2009 era possibile scrivere, che «l'intervento
pubblico ha salvato, senza condizioni, il sistema bancario internazionale e la strategia del "too big
to fail" ha stravinto» (Marco Vitale)[1], o come scrisse Bob Monks: «Solo gli storici saranno in grado di appurare se un Dipartimento del Tesoro, dal personale quasi interamente di formazione Goldman-Sachs, «segnalò" in qualche
modo a un gruppo di pochi
eletti che il gioco — prestiti 3.3:1, assicurati da asset incomprensibili — poteva continuare, contando sul fatto che ci sarebbe stato un estremo salvataggio
federale sotto forma di ristrutturazione del debito, garanzia o liquidità». Già, nel 2001 il rapporto
del Working Party presieduto da Roger W Ferguson, vicepresidente del Board of Governors del
Federal Reserve System, ai quali parteciparono gli esperti di governo e banche
centrali di molti paesi aveva illustrato le sei aree dove si concentravano le
maggiori criticità del processo di concentrazione bancario allora da poco
iniziato. E
cosa intende il famoso commentatore del Financial Times, Wolf, quando scrive: «Un'impresa bancaria troppo grande per essere lasciata fallire, non può essere gestita
sulla base degli interessi degli
azionisti, perché non fa più parte del
mercato. O
è possibile chiuderla oppure
va gestita in un altro modo. È
semplicemente e brutalmente così»? (Il Sole 24 Ore, 25 Giugno 2009). E
il confiteor di Greenspan, (a lungo
osannato Governatore della Federal Bank americana e uno dei maggiori responsabili del disastro
del 2008), a chi è diretto, quando, nel 2013, scrive: «Le grandi banche sono entità sempre più complesse che
generano un potenziale di rischi sistemici ben più ampio del passato... Le ricerche condotte dal
Federal Reserve. non hanno riscontrato economie di scala nelle banche, di là da quelle di modeste
dimensioni. Non vedo alternative:
bisogna costringere le banche a dimagrire
al di sotto di una soglia tale che, se falliscono, cesseranno di costituire una minaccia per la stabilità
della finanza dell'America»? Sono tutte vecchie credenze
che dobbiamo archiviare, come il voto capitario? O sono solo cose giuste che qualcuno vuole cancellare, nonostante l'impressionante
conferma empirica ricevuta dal
2008? E perché vogliono cancellarle?
Perché sono estranee al sistema, esattamente come il credito cooperativo, come il voto capitario.
Ma questo pensiero dominante e sottostante alla
pseudoriforma delle popolari del 2015 non è esattamente lo stesso che ci ha portato diritti al disastro finanziario
del 2008? 0, come molti membri
del pensiero dominante hanno
scritto, questo è stato solo un piccolo incidente di percorso che non cambia la direzione di fondo? Le banche devono diventare sempre più grandi, sempre più omogenee, sempre più burocratiche, sempre più rigide, sempre più patrimonializzate, sempre più anonime e staccate dal territorio e da simili sentimentalismi,
senza anima, identità e cultura?
L'unica cosa che conta per costoro è che siano ben patrimonializzate ma, soprattutto, contendibili, per
la gioia dei raider mondiali. Questo e solo questo, ‘la
contendibilità’, è, alla fine, l’unico vero motivo del d.l. 37/2015 che ha
imposto alle 10 maggiori banche popolari di trasformarsi in SPA abbandonando
quella grande invenzione che è stato ed è il voto capitario per bilanciare strapotere
del capitale e democrazia economica. Tutti gli altri motivi
addotti peer sostenere il colpo di mano per l’abolizionedelle principali banche popolari, (colpo di
mano riuscito grazie ad un voto di fiducia che ha impedito ogni seria
discussione pubblica o anche solo parlamentare, all’avventurismo del governo
Renzi appoggiato dalla Banca d’Italia) sono manifestamente inconsistenti. Non eravamo in pochi a
sostenere questa posizione nel 2015. Basta rileggere l’analisi seria contenuta
nell’appello sottoscritto allora da ben 156 economisti provenienti da un numero
impressionante di Università di tutta Italia. Eppure, quest’analisi seria non è
stata ritenuta neppure degna di discussione pubblica, se non altro per
confutarla. Era dunque legittima la mia domanda (2016): “Ma che paese siamo
diventati se procediamo a colpi di fiducia senza accettare un serio dibattito
anche su argomenti di questa importanza sistemica e di questa complessità?” E
come è possibile sostenere, senza vergognarsi che “La stella polare è la forza
patrimoniale delle banche” (lectio magistralis del Direttore Generale della
Banca d’Italia al Collegio Borromeo di Pavia, marzo 2015), come se questo fosse
l’unico vero criterio?
La verità è che non esiste capitale sufficientemente alto
per evitare gli effetti della “mala gestio”. Forse che il Monte dei Paschi di
Siena (MPS), per fare un solo esempio, non aveva accumulato un patrimonio
sufficientemente grande nei suoi 600 anni di storia senza distribuzione di
dividenti, prima che questo patrimonio, una volta diventato SPA, venisse, in
breve tempo, dilapidato da un dirigenza disastrosa, facilitata dalla forma di
SPA, che ha operato indisturbata dagli organismi di vigilanza e secondo una
strategia basata su quelle fusioni e acquisizioni così amate e raccomandate in
alto luogo? Allora avevano torto i grandi banchieri come Mattioli o Dall’Amore,
ed i fondatori di banche sane (come Tovini), quando dicevano che la solidità di
una banca non è determinata dal patrimonio ma dall’onestà dei gestori e da
corretti ed equilibrati rapporti tra le varie forme di attività e di
passività?”. Poi la maggioranza dei 156
economisti di valore se la sono squagliata come neve al sole, per
confermare,una volta di più, la
validità della riflessione sul coraggio del grande Manzoni; la maggioranza
delle dieci banche popolari colpite dal provvedimento si sono affrettate a
trasformarsi in SPA, senza se e senza ma, senza farsi domande di sorta e, così,
senza se e senza ma, sono rapidamente, come tali, sparite; gli organi
associativi delle banche popolari hannosollevato solo qualche tenue belato giornalistico; le altre banche
minori (Bcc e banche private minori e territoriali) non hanno capito che la
partita in gioco era di interesse generale e che bisognava unire le forze per
difendere il ruolo delle banche minori e la loro diversità, contrastando la
pericolosa e insensata isteria delle concentrazioni, che ancora oggi imperversa
in certi ambienti pur in conflitto con le ormai poderose evidenze empiriche e
con studi profondi ormai imponenti e che ha portato il sistema bancario
italiano ad una concentrazione oligopolista senza eguali.
Solo la BPS ha resistito all’ingiunzione di doversi
comunque trasformare in SPA. Ciò non è certo dovuto a spirito ribelle che è
cosa lontanissima da questa banca e soprattutto dal suo servile consiglio di
amministrazione e dalla sua tremolante presidenza, ma al fatto che non la banca
ma alcuni suoi soci, con primo firmatario chi vi scrive, hanno voluto
sottoporre al dovuto giudizio della magistratura la costituzionalità e la
legalità del provvedimento legislativo. Abbiamo presentato ricorso alla Corte Costituzionale
per verificare se il provvedimento di legge fosse costituzionale. In verità gli
argomenti a favore della incostituzionalità della legge sono poderosi e molto
convincenti, ma non sufficientemente convincenti per la Corte Costituzionale
che, con una sentenza debolissima e balbettante, ha confermato la
costituzionalità. Poi abbiamo fatto ricorso alla Corte di giustizia europea
perché verificasse se il provvedimento italiano non violasse principi o norme
dell’Unione Europea. E se così non è come si spiega che in nessun altro paese
dell’Unione Europea e del mondo i governi hanno mai pensato di proibire la
forma cooperativa a banche con un attivo superiore agli otto miliardi di euro?
In Europa operano tante cooperative bancarie, presenti sui mercati
internazionali, con attività che superano ampiamente non solo gli otto miliardi
ma i 1000 miliardi di euro. Basti pensare ai colossi francesi e olandesi come
Credit Agricole e Rabobank. I primi 50 gruppi bancari cooperativi europei
presentano tutti un attivo di gran lunga superiore agli otto miliardi di euro
con una media di 154 miliardi. Negli Stati Uniti le “Community Banks” (la forma
bancaria minore più vicina alle nostre popolari e alle nostre BCC) sono molte e
svolgono un ruolo importante per il sistema economico americano come gli studi
approfonditi di Rainer Masera, anche recentemente, hanno illustrato e delle
quali il Financial Times del 29 agosto 2021 ha scritto: “How US community banks
became irreplaceable? La Corte europea, pur confermando la necessità del
rispetto di alcuni fondamentali principi europei, come il principio di
proporzionalità, ha concluso che questo controllo deve essere esercitato dallo Stato
nazionale. Così siamo ricorsi al Consiglio di Stato che, con una lunga e
impegnativa decisione, ha confermato la costituzionalità e legalità del
provvedimento ma ha anche affermato la possibilità di uno schema basato su una
banca SPA posseduta da una cooperativa, con tutte le caratteristiche proprie
delle cooperative, compreso il voto capitario. Si è aperta così una possibilità
nuova negata dalla Banca d’Italia e dalla BCE, nonostante il Consiglio di Stato
la ammetta apertamente. Bene ha fatto la BPS ad attendere doverosamente l’esito
di questo lungo e difficile iter giudiziario prima di dar corso alla
trasformazione.
Ma ora la trasformazione era inevitabile essendosi
esaurite le difese giudiziarie. Però si è avviato un dibattito sulla
possibilità che la trasformazione in SPA venga accompagnata da alcune difese legali
per mantenere, almeno in parte, le caratteristiche proprie di banca
territoriale e socialmente responsabile, come è sempre stato nel suo statuto e
nel suo operare. L’unica dichiarazione nell’assemblea lunare è stata quella del
consigliere delegato e direttore generale Mario Alberto Pedranzini, un
intervento onesto, lucido e appassionato che ha ripercorso la storia della
Banca e che ha ribadito l’impegno a conservare gli antichi valori anche nella
nuova forma giuridica. Ma non potrà mantenere la sua promessa da solo. Secondo un gruppo di persone,
valtellinesi o meno, compreso chi vi parla, ciò è, almeno in parte, possibile
ma è escluso che il vertice della Banca riesca a realizzare queste difese da
solo, senza il sostegno, lo stimolo e l’appoggio di un numero consistente di
quei soci che si rendono conto che una BPS, senza difese, verrebbe
necessariamente, prima o poi, fagocitata
da qualche gruppo finanziario forte e ciò sarebbe una grande perdita per il
territorio e la popolazione valtellinese soprattutto per i ceti imprenditoriali,
artigianali, professionali. Queste persone hanno perciò costituito un Comitato
per sostenere l’autonomia e l’indipendenza della BPS. Il Comitato ha ad oggi
raccolto oltre 800 adesioni oltre molti giudizi apertamente positivi da parte
di personalità, operatori e studiosi del sistema bancario. L’obiettivo
del Comitato è unico, semplice e chiaro: suscitare un dibattito
pubblico per rendere la popolazione sempre più consapevole dell’importanza
della partita in gioco. Per questo ci ripromettiamo di partecipare a dibattiti
in Valle ovunque vi siano gruppi interessati. Personalmente mi auguro che,
partendo da questo caso emblematico, si riapra anche un dibattito nazionale
sullo stato del sistema bancario che, per le banche minori, comprese le BCC, e
per le imprese minori, è pessimo e destinato a peggiorare, senza un riesame
serio dell’intera questione.
La lettura della stampa locale successivamente alla
trasformazione mi ha confortato. Finalmente un dibattito serio c’è stato,
finalmente il territorio ha fatto sentire la sua voce, finalmente esponenti di
alcuni ceti produttivi hanno espresso i loro timori e le loro esigenze. Anche
il tema della Società Benefit sollevato dal Comitato è entrato nel dibattito e
sulla stampa locale. Questo era l’obiettivo principale dichiarato dal Comitato
in questa fase. Mario Pedranzini nel corso della conferenza stampa successiva,
ha chiaramente espresso che la banca proseguirà nella sua strategia di grande
attenzione e sostegno allo sviluppo del territorio. Nessuna banca popolare ha
avuto un addio così vivo e partecipato ed onorevole. Nessuna ha avuto la
possibilità di esprimere pubblicamente l’orgoglio della propria storia
unitamente a quella del proprio territorio. Sono tutte morte in silenzio, quasi
vergognandosi. Ma l’esperienza di altre banche popolari che, all’inizio, hanno
espresso analoghi sentimenti ed impegni, ma che poi non
hanno resistito all’offensiva del capitale e alla favola delle grandi
dimensioni, ci dimostra che queste dichiarazioni di impegni, ancorché pronunciate
con convinzione e in buona fede, non sono sufficienti. Bisogna apprestare delle
appropriate difese. Perciò il Comitato
continuerà la sua battaglia nella convinzione che non si tratta di una
battaglia solo per la BPS ma per la democrazia economica nella profonda
convinzione che una oligarchia bancaria come quella che si è creata oggi in Italia
è inaccettabile per un sistema economico basato sulla vitalità delle imprese
piccole e medie. Il 18 gennaio 2016 scrivevo:“La nostra Costituzione è un grande baluardo per resistere a ulteriori concentrazioni di potere finanziario, per una economia ed una finanza partecipativa dove c'è posto per i grandi e per i piccoli, per un'economia del libero intraprendere ma nel rispetto di diritti sovraordinati, in rapporto a quelli, pur legittimi,
della buona finanza; per
un'economia, una società, una
cultura equilibrate che si oppongano all'uniformità ed omogeneizzazione tecnocratica per le quali solo le grandi dimensioni meritano rispetto. Ecco
perché non perdono occasione per tentare di scardinarla. Questa, e semplicemente questa, è la partita in gioco nel tentativo in atto di omogeneizzare
e banalizzare tutte le nostre strutture bancarie, per sottoporle al pensiero unico di chi pensa che le banche popolari, e tutto il credito cooperativo, siano un'anomalia del sistema. Ed in effetti si tratta di
un'anomalia rispetto al LORO sistema. Ma il loro sistema è esattamente quello
che i padri costituenti non volevano”. E che anche noi continuiamo
a non volere, nonostante le battaglie perse.
Nota [1]Marco Vitale, Passaggio al Futuro. Oltre la
crisi attraverso la crisi,
Ed. Egea (2010). È impressionante
rileggere queste pagine, scritte nell'estate 2009. Il Working Party Ferguson fu
diffuso da BRI, OECD, Fondo
Monetario con il titolo: "Report on Consolidation in the financial sector" datato gennaio 2001. La Banca
d'Italia lo circolarizzò con traduzione
italiana intorno al febbraio 2001. [Milano, 29 dicembre 2021]