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lunedì 31 gennaio 2022

SCELTE
di Fulvio Papi
 


Gabriele Scaramuzza ci ha regalato ancora una volta un bellissimo libro, il sentiero dominante della sua esperienza (Scelte, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2021) in uno stile critico/narrativo come si è selezionato nel suo lungo percorso di teorico di filosofia dell’arte: la coesistenza di tratti di estetica, di critica, di memorie il cui vissuto ritorna con il suo sentimento, la saggezza astratta che si incarna nella parola vivente, poiché, in verità, non vi è altro modo perché essa possa rendersi manifesta.
La vita del concetto è molto più complicata rispetto a chi in esso vuole vedere solo il tronco di faggio centenario. Questa descrizione è molto povera, ma forse riesce a farsi udire dal lettore nel suo pacato circuito.
Quanto a una interpretazione più complessiva, dico di due temi dominanti il libro. L’uno è la tragica opposizione tra la morte voluta da Primo Levi e la vita ritrovata di Liliana Segre. Nel loro tempo più giovanile vi è in comune lo sterminio nazista dei cittadini ebrei, la criminale passione antisemita che nasce da una o da più forme dell’antisemitismo, demone che è un senso di naturale dominio nella propria anima perversa.
Primo Levi percepisce negli anni della sua vita scampata alla strage il ritorno dello spirito distruttivo del nazismo con un linguaggio che oscuramente ma sicuramente ne riporta il senso: un occulto destino che segna il cammino della nostra vita. È un tempo circolare che ci coinvolge in ogni caso senza possibilità di scambio. Il suo rifiuto radicale è dunque la morte.
Al contrario il caso di Liliana Segre, che risponde agli incubi della memoria con una nuova invenzione della vita, la memoria tragica diviene il richiamo, per il superstite, alle pressioni dell’esistenza nel quale ritrovare i doni dell’esistenza. La testimonianza diviene ragione di un nuovo coraggio del sapere, della bellezza, del senso della vita.
Il secondo elemento centrale del libro di Scaramuzza affronta il tema dell’oggettività suprema dell’arte che può nascere dalla vergognosa e infame scelta dell’ideologizzazione del suo autore.
Semplificando un po’, l’esempio è Wagner. La sua musica apre un’epoca nuova dell’arte che informa gran parte della modernità, rende prossimo e sensibile il sublime (se così si può dire). Ma nel suo animo è servo di un antisemitismo sulla strada ideologica che conduce allo sterminio nazista. Come possono coabitare nella stessa figura una coesistenza che unisce una antinomia morale. Il problema pare poco solubile. Eppure penso che questa situazione possa accadere perché la persona, il grande artista soprattutto, può far vivere in se stesso identità opposte.
Il problema è rendersi conto, detto razionalmente, che le proprie prassi non sono affatto un tutto armonico. Le possibilità simboliche sono plurali e l’una può tacitare l’altra quando domina la scena.
Andassi a fondo dovrei parlare di linguaggi che sono una realtà complessa, che fa dell’unità identitaria di un uomo un musicista sublime e uno sporco antisemita. Se andassi a fondo, direi che questa antinomia appartiene all’accadere musicale, ma non (per quanto ne so) alla letteratura, dove un’opera può mostrare un uomo sul fronte di un proletariato povero e oppresso in un’opera, e in un’altra un infame persecutore di ebrei. In più, che il linguaggio si ricorda proprio l’unità dello scrittore, nel suo interiore colloquio etico. Ricordate Céline?