Non
è a costo zero. “Piano Ue «Fit for 55», che prevede lo stop
nel 2035 alla produzione dei motori endotermici, transizione verso l’elettrico,
crisi dei chip e prezzi alle stelle di materie prime ed energia cominciano a
mietere vittime tra gli occupati. È il caso di Bosch e Marelli. Entrambi i
gruppi hanno annunciato esuberi e a essere interessati sono 700 dei 1.700
lavoratori dell’impianto Bosch di Bari e 550, tra impiegati e quadri, su un
totale di 7.900 occupati in Italia, per Marelli. La fabbrica Bosch, attiva dal
1999 a Modugno, produce componenti per i motori Diesel ed è la più grande tra
quelle del gruppo in Italia”.
Questa
notizia che abbiamo riassunto in poche righe sta a dimostrare come il discorso
sulla “transizione ecologica” portata sul terreno della necessaria
riconversione industriale rechi con sé problemi molto complessi sia dal punto
di vista della programmazione, dello stare al passo dell’innovazione
tecnologica, dell’aspetto occupazionale. Per l’economia italiana il settore
automobilistico rappresenterà uno dei punti nevralgici della futura situazione
industriale. C’è un virus
che non abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana:
l’Italia è un paese senza progetto e l’approccio al PNRR fornito dal governo e
dal sistema industriale non può che confermare questo giudizio. La situazione italiana
alla vigilia - appunto – dell’avvio di un processo che dovrà essere di doppia
transizione (ecologica e digitale) può essere, ancora una volta schematizzata
in relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti. Si tratta
di argomentazioni già sostenute in varie sedi ma mai come in questo caso
“repetita juvant”. Il punto di partenza non può che essere
quello degli anni ’70:la fase di avvio dello “scambio politico”, attraverso
l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare rispetto alla
politica. Negli anni ’80 le compensazioni delle
perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la
relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni ’90, finiti i
soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’IRI trasformata in
S.p.a.
L’esito
più grave della fase dello “scambio politico” infatti, si realizzò in una
condizione di totale dismissione del sistema delle partecipazioni statali (IRI
messa in liquidazione il 27 giugno 2000), mentre stavano verificandosi almeno
quattro fenomeni concomitanti: 1).
L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi
al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di
programmazione; 2).
La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della
produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica.
Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che
l’indomani non si trovano al supermercato”; 3).
A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo
il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati
d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella
dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati
all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance
progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello
strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università
italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese
assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi; 4).
Si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva
obsolescenza delle principali infrastrutture, ferrovie, autostrade e porti e un
utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi
scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo
moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
Sono scomparsi principi fondamentali di
programmazione e di intervento pubblico in economia che sono stati affrontati
in un’ottica che tempo addietro l’ex-segretario della FIM-CISL Bentivogli
definì felicemente come keynesismoa fumetti. Nel
quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita
“globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione
dell’economia, “scambio politico”, assenza di una visione industriale,
incapacità di tenere il ritmo dell’innovazione tecnologica hanno rappresentato
fattori che evidentemente continuano a pesare in maniera esiziale sulle
prospettive dell’economia italiana.