San
Simpliciano e Lutero. La basilica di San Simpliciano che
fa magnificamente da fondale all’omonima piazza – una piazza in verità
abbastanza piccola, ma quanto basta per mettersi al riparo dall’andirivieni del
passeggio che sul Corso Garibaldi, a partire dalla via Mercato fino ai bastioni
di Porta Nuova è sempre molto intenso e affollato – mi è cara per una
sterminata serie di ragioni. Perché è tra le chiese più antiche della città,
perché nel catino absidale si è salvato miracolosamente un meraviglioso
affresco del Bergognone (l’Incoronazione della Vergine), perché vi si
svolgono delle stimolanti “Meditazioni con organo” e anche se il suo Ahrend non
può vantare un blasone di antichità, le sue 2040 canne hanno una potenza sonora
da mandarvi in estasi. Ma è tutto il Corso che è pieno di memorie grate per me.
A cominciare dalla casa dove abitò il poeta Quasimodo, da quello che un tempo
si chiamava “Centro Sociale Garibaldi”, dal “Teatro Fossati”, dal localetto
aperto da Valpreda dove ci intossicava col fumo delle sue sigarette, dalle
gallerie d’arte fino alla libreria Utopia all’incrocio della via Moscova e giù
fino alla chiesetta dell’Incoronata. Si è poi aggiunto il giardino dedicato
alla carissima Gina Lagorio su un fianco di San Simpliciano in via Cavalieri
del Santo Sepolcro. Sono andato a vederlo anche domenica prima del concerto
d’organo in basilica.
È spoglio, purtroppo, e non è ben tenuto. Un idiota
(specie indistruttibile come i ratti) si è divertito a incollare un adesivo
sulla targa di marmo sotto il nome della scrittrice. Ma non potevo guastarmi il
sangue, in San Simpliciano mi aspettavano Bach, Buxtehude e Böhm; mi
aspettavano le 2040 canne dell’Ahrend e la giovane organista slovena Ana Marija
Krajnc. Mi aspettava l’incatenata arte –così il riformatore
protestante Lutero ha definito la musica in una lettera al compositore svizzero
Ludwig Senfl nel 1530 – e mi aspettavano le parole stesse di Lutero, e i versi
di uno dei suoi più celebri sacri inni. San Simpliciano non è una spoglia ed
austera chiesa protestante come quella immaginata dal riformatore tedesco, ma
la musica vi ha risuonato come lui avrebbe voluto, secondo le sue più profonde
convinzioni. “Il meritevole e amabile dono della musica, (…) il tesoro
prezioso, degno, carodonato da Dio all’umanità” è stato da noi
accolto con la più appassionata ispirazione, e le melodie si sono fatte “danza
celeste”. Non so quanti fra i presenti credessero nel suo Dio; di sicuro
hanno tutti considerato le note che uscivano dall’organo “come un’opera
meravigliosa” e non erano di certo fra quelli a cui “si dovrebbe fare
ascoltare il raglio degli asini e il grugnito deimaiali”, come
scrive sprezzante nella citata lettera, parlando di colui che alla musica, “opera
di Dio”, resta indifferente. Talmente dure le sue parole che non contento
di considerare costui un ignorante, gli nega addirittura l’appellativo di
essere umano. I riformatori esagerano in tutto.