Resistenza,
Anpi e intellettuali (minuscoli): dieci spunti
di riflessione I.Nemico pubblico numero uno. Il
linciaggio, personale oltre che politico, cui è sottoposto da settimane il
presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ha pochi precedenti nella storia
repubblicana; che a compierlo siano per lo più giornalisti, intellettuali e
politici “progressisti” (alcuni con trascorsi rivoluzionari), a cui la destra
ben volentieri delega il lavoro sporco, rende la vicenda paradigmatica
dell’imbarbarimento del sistema mediatico e dell’irreversibile declino di un
intero ceto intellettuale.
II.Maiuscole e minuscole. La
nostra Resistenza (ma anche quella francese, norvegese, jugoslava…) si fregia
dell’iniziale maiuscola perché costituisce uno specifico fenomeno storico (la
guerra partigiana contro l’occupazione nazifascista); allo stesso modo, si
scrive Rinascimento per distinguere, nella storia della cultura, una
determinata epoca da usi generici, talvolta impropri, del termine - come ad
esempio il luminoso avvenire che Renzi preconizza per l’Arabia Saudita. Che le
altre resistenze, a partire da quella ucraina, si scrivano con la minuscola non
comporta una loro deminutio capitis,
ma semplicemente il riconoscimento di diverse condizioni storiche.
III.Solidarietà a senso unico. Giornalisti
e intellettuali con l’elmetto (indossato sulla poltrona) vedono nell’invio di armi
all’Ucraina un discrimine morale: la solidarietà (dei veri democratici) contro
l’inerzia (delle anime belle). Vano sarebbe cercare, nei loro interventi
passati, tracce di un appoggio altrettanto incondizionato ad altre resistenze,
che pure ci sono state, negli ultimi decenni: quella irachena (non riducibile
ai sostenitori di Saddam Hussein), quella afghana (non identificabile coi soli
talebani), per tacere di quella curda (scomoda, con il suo confederalismo
democratico) e, ça va sans dire,
quella palestinese. Tutti popoli che hanno subìto l’aggressione di uno o più
paesi stranieri (dagli Stati Uniti alla Turchia) e che però, anche quando non
sono mancate espressioni di condanna dell’occupante, non sono stati considerati
meritevoli, da parte del “Corriere” o di “Repubblica” o di “Micromega”, di un
sostegno armato da parte dell’Occidente e dell’Italia. Forse perché gli
aggressori erano gli Stati Uniti o qualche loro irrinunciabile (per quanto
impresentabile) alleato. E meno che mai si è rispolverata la nostra Resistenza.
Quanto ai civili siriani bombardati implacabilmente dalla Russia, hanno
agonizzato nell’indifferenza generale. Certo non hanno chiesto di inviare armi
a movimenti per cui pure simpatizzano (come quello curdo o palestinese) l’Anpi
o altre organizzazioni pacifiste, ritenendo che in qualsiasi caso rispondere alla guerra con più guerra conduca
solo alla catastrofe, come ha ben visto Emergency in questi anni. Piuttosto,
hanno insistito per una soluzione diplomatica dei conflitti. Inascoltati, come
oggi. Chi è di parte, dunque? Chi è “passivo”?
IV. Quale Resistenza? Polemizzando
con Luigi Salvatorelli, che equiparava la lotta partigiana a quella dei caduti
del Grappa e del Piave, Franco Antonicelli, fulgido intellettuale che per fare
il suo dovere aveva assunto la presidenza del CLN Piemonte, puntualizzava: “Il
definire meglio le due «resistenze» non significa opporle fra loro per farne risultare vincitrice
una: significa fare una più perspicua opera di storia e trarne le naturali
conseguenze. Nasce il sospetto che nell’equiparazione si voglia a bella posta
togliere i caratteri distintivi, annullarli in una superiore ma arbitraria
identità”. In alcuni paesi, tra cui il nostro, la Resistenza fu, certo, una
lotta di liberazione nazionale (dall’invasore nazista), ma anche una guerra
civile (contro il fascismo come regime e contro i fascisti che quel regime
incarnavano) e, per una parte del movimento partigiano, una guerra di classe
(contro il padronato agricolo e industriale, che aveva appoggiato Mussolini
come “soluzione” della crisi sociale). Quest’ultima dimensione costituisce uno
dei maggiori rimossi della nostra storia, non secondariamente per la scelta del
PCI di oscurarla, con la svolta di Salerno, per accreditarsi come partito
dell’unità nazionale. Della Resistenza invocata oggi come “patentino” della
legittimità della resistenza ucraina si recupera ovviamente solo la componente
di liberazione nazionale nella sua
dimensione armata, con buona pace del contributo della resistenza non
violenta.
V. Strategie complementari di manipolazione
della storia. La memoria pubblica funziona ormai come Amazon:
chiunque può cliccare sull’articolo (il personaggio o il fenomeno) che più gli
conviene in quel momento, senza curarsi né della filiera, né della destinazione
e dell’impatto. La strumentalizzazione della storia, una piaga non solo
italiana, si presenta sotto due volti. Il più rozzo, che nel nostro paese
produce effetti particolarmente mefitici, è quello dell’appiattimento di
processi ed eventi sul paradigma vittimario: nell’indistinzione dei morti, si
compie l’assoluzione dei vivi (i fascisti e gli esponenti del potere
istituzionale ed economico), mentre il giudizio della Storia condanna
all’infamia i “rossi”. Il volto più raffinato, per così dire, consiste
nell’appropriazione di personaggi e processi “eccentrici”, non prima di averli
depurati delle loro componenti disturbanti: così il socialdemocratico Olof
Palme, odiato dalla destra in vita, da morto viene canonizzato, ma in quanto
campione del liberalismo; analogamente, Antonio Gramsci diventa icona di
italianità, ma per la sua indiscutibile (?) ispirazione liberale. Nel caso
della Resistenza, si è passati con la massima disinvoltura dalla
criminalizzazione degli ultimi decenni a una repentina (e verosimilmente assai
transitoria) beatificazione. L’arroganza intellettuale e morale della classe
dirigente ha passato ogni limite.
VI. La resa degli intellettuali. Scomparse
le organizzazioni di massa (se non quelle di destra) che assicuravano loro un
ruolo sociale, gli intellettuali “progressisti” (il maschile è intenzionale) si
sono adeguati alle modalità comunicative di un sistema mediatico ibrido, in cui
la logica binaria dei social avvelena anche i media tradizionali; non vi è
posto per l’argomentare razionale e il confronto civile tanto cari ai
liberaldemocratici, ma solo per la rissa. Ecco allora che, anziché contribuire
al dibattito pubblico mettendo a fuoco le aporie del diritto internazionale
(dalle ambiguità del principio di autodeterminazione dei popoli all’impotenza
dell’Onu di fronte al militarismo), i nostri intellettuali democratici hanno
sfoderato, in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina, una logica binaria
amico-nemico, alleato-traditore, degna delle peggiori fasi della Guerra fredda
e per giunta incattivita da una comunicazione urlata e diretta alla
delegittimazione dell’interlocutore. Pochi vi si sono sottratti; tra loro,
Michele Serra, che, pur dichiarandosi a favore dell’invio di armi all’Ucraina,
si è rifiutato di partecipare al derby fra le opposte tifoserie, confessando
anzi il suo tormento interiore. Ma, appunto, si tratta di casi isolati. Lo
“stile” del dibattito è stato dettato piuttosto da chi, come Paolo Flores
d’Arcais, ha definito “oscena” la posizione di Pagliarulo, salvo poi invitarlo
a un confronto pubblico (prima ti demolisco, poi parliamo, insomma).
VII. Acribia filologica a corrente alternata. Mediocri
pennivendoli con l’elmetto si sono presi la briga (sottraendo tempo a cause più
nobili) di andare a spulciare i post sul Donbass scritti da Pagliarulo a
partire dal 2014, per dimostrarne in modo inequivocabile il “putinismo”.
Dunque, commenti di sette-otto anni fa, su cui si può essere più o meno in
accordo, sono usati per squalificare le dichiarazioni di oggi, e con esse la
persona tout-court; un procedimento metodologicamente assai discutibile,
considerando che Pagliarulo, e l’Anpi, hanno immediatamente e ripetutamente
condannato l’aggressione russa. Ancora più strumentale appare poi una
pubblicazione dei post di Pagliarulo completamente avulsa dalle contemporanee
prese di posizione di organismi transnazionali al di sopra di ogni sospetto,
che constatavano nella regione contesa gravi violazioni dei diritti umani da
entrambe le parti: i nazionalisti filorussi come l’esercito e le formazioni
paramilitari ucraine (si veda, tra gli altri, il rapporto del 2017 dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/Countries/UA/UAReport19th_EN.pdf). La
stessa sorte è toccata del resto al comunicato di Pagliarulo sul massacro di
Bucha. Il presidente dell’ANPI ha chiesto una commissione d’inchiesta
indipendente per accertare le effettive responsabilità: esattamente quello che
ha sollecitato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres,
per la semplice ragione che è ciò che prevede il diritto internazionale. Ma
questo particolare deve essere sembrato ininfluente, ai guerrafondai nostrani,
che lo hanno per lo più taciuto.
VIII. Il capro espiatorio. Per gli
avversari dell’Anpi e del movimento pacifista, Pagliarulo rappresenta un
bersaglio perfetto: ha un passato comunista (una colpa da cui non ci si redime,
in Italia, se non rincorrendo la destra fino ad autoliquidarsi) e non può
contare sull’appoggio di organizzazioni di massa. Il PD, che di massa non è
più, si pone anzi come uno dei suoi più accaniti detrattori. Attribuendo a
Pagliarulo posizioni “vergognose”, si vende all’opinione pubblica una
narrazione rovesciata, in cui a essere faziosi (perché “putiniani”) e inerti
(perché complici) sono i pacifisti. In questo modo, si devia l’attenzione da
chi è davvero compromesso con Putin così come da chi si preoccupa soltanto di
vendere armi, non di perseguire la pace per via negoziale. Così, mentre i
sinceri democratici chiedono le dimissioni di Pagliarulo, Salvini, i cui
rapporti con Mosca sono noti a tutti, se l’è cavata con la passeggera
umiliazione patita in Polonia. Anche in questo caso sono stati rispolverati
vecchi post, che hanno, sì, dato adito a sarcasmo, ma non alla richiesta di
dimissioni della Lega dal governo. Mentre Pagliarulo viene additato al pubblico
ludibrio come traditore della patria e della democrazia, chi sacrifica i
diritti sociali delle classi popolari, imponendo, dopo due anni di pandemia, l’aumento
delle spese militari e le ricadute energetiche di una guerra che in alcun modo
tenta di arrestare, riceve il plauso di un apparato mediatico nelle mani di un
oligopolio (i cui azionisti controllano anche buona parte dell’industria
bellica: si pensi a Gedi/Exor). Infine, mentre si infierisce su Pagliarulo,
nessuno chiede lo scioglimento di Forza Nuova, che ha legami ideologici nonché
militari con la Russia di Putin.
IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia. Perché
l’Anpi oggi è ancora, anzi, più che mai, necessaria? Dovrebbe bastare un
semplice dato, per chiudere la questione: l’Associazione dei partigiani conta
120.000 iscritti; Fratelli d’Italia 130.000. In un paese in cui, stando ai
sondaggi, il 40% dell’elettorato voterebbe per due partiti di estrema destra,
l’Anpi, con tutti i limiti che può avere, è uno dei pochi presidi di democrazia
rimasti. Ed è proprio per questo che la si vorrebbe liquidare, con argomenti
pretestuosi, come la sua obsolescenza (come se non si fosse rinnovata, nelle
finalità e nel corpo militante, già da diversi anni) o la sua “faziosità”:
celebri pure il 25 aprile, ma non si impicci di politica (una logica
introiettata, purtroppo, anche da non pochi dei suoi iscritti). Delegittimando
l’Anpi, si vuole archiviare definitivamente l’antifascismo come DNA della
cultura politica nazionale e, con esso, quella Costituzione che, nata dalla
Resistenza, ne raccoglie la triplice eredità di lotta di liberazione, guerra
antifascista e lotta di classe: un circolo virtuoso che risulta intollerabile,
nell’epoca di irreggimentazione permanente che sempre più ci imprigiona.
X. La Resistenza come promessa. “Come
non illudersi che il nuovo Stato italiano avrebbe preso atto di tutto quello
che la lotta partigiana significava: la forza di un popolo quando gli comanda
la coscienza morale; l’intuito giusto della salvezza e libertà nazionali; la
distruzione dei vecchi sistemi statali a base militaristica; la possibilità di
un’esperienza di autogoverno? Come non ritenere inevitabile che la Resistenza, che
oggi osava affrontare armata il fascismo e lo sconfiggeva, avrebbe distrutto
tutto quanto il fascismo aveva rappresentato nella storia italiana e non
soltanto italiana: la boria nazionalistica, lo spirito di divisione dell’Europa
e del mondo intero, l’ossessione imperialistica, il bruto attivismo, lo stato
etico, il capitalismo cieco? La «liberazione» doveva
diventare «tutta la
libertà»”. In
queste parole, pronunciate da Antonicelli nel 1949, sono scolpiti i fondamenti
dell’antifascismo italiano, quello rinnovatore, nato ben prima dell’8 settembre
1943 e non esauritosi con il 25 aprile 1945; a noi, fuori e dentro l’Anpi, il
compito di inverare la promessa di redenzione dal nazionalismo, dal militarismo
e dall’ingiustizia che esso ha dischiuso.