Le
possibili conseguenze economiche e geopolitiche della guerra. Il
paradosso per cui l’unica certezza è l’assenza di certezza è tornato di moda.
L’ha usato anche il ministro dell’economia Daniele Franco, per giustificare
l’imminente presentazione di un Def che dimezzerà le previsioni di crescita dello
scorso autunno, derubricandole a una cifra fra il 2 e il 3%, con un aumento
record dell’inflazione al 6,7%, mai così in alto dal 1991. Ma l’espressione può
essere riferita all’intero quadro mondiale, politico ed economico. La storia
punisce gli incauti. Obama definì la Russia una potenza regionale. Non era solo
quella, come si vede di fronte alle conseguenze globali dell’invasione dell’Ucraina.
Larry Fink, il fondatore di BlackRock, il più grande fondo di investimenti
mondiale, ha scritto agli azionisti che “L’invasione russa dell’Ucraina ha
messo fine alla globalizzazione come l’abbiamo sperimentata negli ultimi
trent’anni”. Molto dipende da come si concluderà e con che tempi la guerra
ucraina. Intanto circolano varie formule dal “multipolarismo competitivo” alla
“concorrenza tra blocchi”, tutte basate sullo sconvolgimento dei vecchi
assetti, del resto già minati dai processi di de-globalizzazione antecedenti
alla pandemia. In
questo quadro così friabile, tuttavia, qualche certezza si fa strada. Nessuno
più osa affermare che l’incremento dell’inflazione sia congiunturale e passeggero.
Nell’Eurozona l’inflazione è salita a marzo al 7,5% partendo dal già robusto
5,9% di febbraio. Le previsioni ottimistiche della Bce su un suo drastico
ridimensionamento il prossimo anno – che peraltro contraddicono il
preannunciato contenimento della politica monetaria espansiva – non vengono
credute dai mercati finanziari che prevedono per il febbraio del 2024 non meno
del 4% di inflazione. Visto i bassi tassi di crescita la prospettiva di un
periodo non breve di stagflazione da probabile si è fatta certa. Negli Usa
l’inflazione è quasi all’8%, ma almeno la situazione occupazionale è migliore e
persino le retribuzioni sono aumentate del 5%. Si fa sempre più drammatico il dilemma
per la Fed e la Bce: se intervenire rialzando i tassi per raffreddare la spinta
inflazionistica con l’avvio più che probabile di un processo recessivo, oppure
ampliare il rimbalzo economico, chiamato crescita, lasciando le briglie libere
all’incremento dei prezzi.
Nell’uno e nell’altro caso le conseguenze sociali
sono pesanti. Ma non nello stesso modo. I falchi del ritorno all’austerity sono pronti ad aggredire le
colombe. E sarebbe un nuovo disastro devastante, un’implosione per l’Europa. Ci
vorrebbe una visione diversamente orientata dal punto di vista degli interessi
di classe da difendere e di medio-lungo periodo per riuscire a risolvere il
problema. Ma questa non si vede, seppure per ragioni e con caratteri diversi,
né sull’uno né sull’altro versante dell’Atlantico. Le conseguenze del conflitto
bellico si fanno sentire anche sul lato asiatico del globo. In Cina l’indice manifatturiero
delle piccole imprese private, più sensibile agli smottamenti, si colloca sotto
quota 50, lo spartiacque tra crescita e recessione. Infatti Morgan Stanley
taglia le stime della crescita cinese per l’anno in corso di un punto rispetto
al target ufficiale (dal 5,5% al 4,6%). Il rallentamento dell’economia mondiale
e gli effetti della guerra ucraina riducono le esportazioni cinesi, mentre i
flussi di capitale invertono la rotta alla ricerca di porti più sicuri. In
Giappone si rileva un calo di fiducia che potrebbe preludere a una riduzione
del Pil che pareva in leggera ripresa. In questa situazione si riaccende la
guerra delle valute. Anche qui le cose non saranno più come prima. La creazione
del denaro dal nulla che sta alla base delle politiche di espansione monetaria
non è detto che sopravviva alla crisi. Lo indica già la mossa sul rublo
avanzata da Putin, che non va presa sottogamba. L’intenzione ritorsiva russa è
evidente ed è legata alla necessità urgente di sostenere il rublo. Comunque
vada, ciò non esaurisce il significato e i possibili effetti della manovra. Infatti,
come osservato da alcuni economisti, per acquistare gas bisogna procurarsi rubli,
quindi, chiederli a una banca russa che a sua volta potrebbe avere la necessità
di richiederli alla banca centrale. Il che comporterebbe non un semplice cambio
tra divise monetarie, ma un prestito in rubli da rimborsare necessariamente
attraverso l’esportazione di beni in Russia ricevendo rubli in pagamento. La divisa
russa diverrebbe moneta per lo scambio, con un “sottostante” rappresentato da
fonti energetiche fossili. Il tutto comporterebbe un indebolimento dell’euro e
della Ue – il che di per sé non dispiacerebbe affatto agli Usa – annullerebbe l’effetto delle sanzioni economiche,
riproporrebbe in termini rinnovati il superamento della centralità del dollaro.
Ci vorrebbe un novello Keynes per sbrogliare la matassa. In assenza dovremmo
tutti puntare su un esito positivo della trattativa di pace. Non altrimenti la
Ue potrebbe contribuire a un nuovo ordine mondiale, con un ruolo autonomo.