L’incomprensione della
Nonviolenza Pubblichiamo questo densa e
articolata riflessione di Rocco Altieri in risposta al giornalista Beppe
Severgnini, a seguito del confronto aperto su Italians da un intervento di Gaccione. Gentile
dott. Severgnini, facendo appello alla sua
disponibilità al dialogo, mi permetto di inviarle alcune riflessioni in merito
alla risposta che ha dato all’accorato appello al disarmo e alla pace dello
scrittore Angelo Gaccione. Innanzitutto, l’espressione
“pacifismo assoluto” scelta come titolo della sua rubrica non piace ed è fuorviante,
in quanto ha il solo obiettivo di stigmatizzare e ridicolizzare le posizioni di
chi propone alternative radicali alla guerra, proponendo una trasformazione
nonviolenta dei conflitti. Il pacifismo viene spesso
presentato dai militari e dai governi che promuovono le guerre come scelta
vile, una resa al nemico, una rinuncia a difendersi per cui, come viene da lei
scritto nella sua risposta a Gaccione: “i cattivi non smettono di attaccare,
perseguitare, uccidere, violentare, approfittare della debolezza altrui”. La nonviolenza, in realtà, è cosa
ben diversa dal generico pacifismo. Gandhi, nel 1906 in Sud Africa, per meglio
qualificarla ha voluto coniare il termine di satyagraha, spiegando che essa non
vada intesa come debolezza o acquiescenza, ma come coraggio e perseveranza
nella lotta per la verità, da portare avanti attraverso la non collaborazione
col male, avendo sempre come obiettivo la reciproca comprensione, il dialogo e
la conversione del nemico in amico. Una frase di Gandhi è stata
citata dal teologo Vito Mancuso su “La Stampa” del 6 marzo 2022, in un articolo
intitolato: “Sono contrario alla guerra ma le armi vanno inviate” e
successivamente ripresa dal sen. Luigi Manconi, già esponente di Lotta Continua
e del partito dei Verdi, in un articolo su “La Repubblica” dell’8 marzo:
“Perché la resistenza armata è etica”, allo scopo di sostenere in modo
ingannevole le tesi belliciste a favore dell’invio di armi all’Ucraina,
dimentichi dell’ammonimento di Orazio che nelle Satire (2,3,321) citando
il detto: “oleum camino addere”, invita a non aggiungere olio sul fuoco per non
provocare una maggiore follia.
Gandhi
Gandhi aveva scritto in “Young
India” del 4 novembre 1926: “Supponiamo che un uomo venga
preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo
chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo
vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà
considerato un uomo caritatevole…”.
Quella di Gandhi è un’evidente
iperbole per spiegare che la nonviolenza richiede coraggio, non è timorosa o
indifferente. Ma la guerra moderna ha una dimensione politica che va ben oltre
l’incontro per strada con un folle, perché riguarda la violenza organizzata e
pianificata dagli Stati in un complesso
militare-politico-scientifico-industriale fondato sulle armi atomiche. Rispetto
a tale minaccia di una guerra annientatrice Gandhi ha ben detto che ad essa non
si può partecipare neanche come barellieri in un corpo della Croce Rossa.
Gandhi biasimava il fatto che si fosse fronteggiato Hitler con gli strumenti
della violenza per cui tanto era stato mutuato dall’efferatezza nazista nello
sperimentare i bombardamenti aerei sulle città di Dresda fino a Hiroshima e
Nagasaki. Si apprende dalla pratica dei belligeranti che usando la violenza
contro i tiranni si prende tanto della loro crudeltà, fatto che non capitò ai
danesi che scelsero la nonviolenza per proteggere gli ebrei dalla deportazione
o ai 500.000 militari internati in Germania che rifiutarono di proseguire la
guerra nelle file della RSI, atto supremo e spesso ignorato di obiezione di
coscienza durante la resistenza. Se i bastoni e le pietre evocate
da Einstein nell’era post-atomica possono essere usate per allontanare un
branco di scimmie che ha invaso un campo coltivato, le armi moderne in quanto
strumenti di distruzione di massa vanno bandite nei conflitti umani, perché
fanno vittime, come ricorda don Milani nella lettera ai cappellani militari,
soprattutto tra i civili e disumanizzano, incrudeliscono il comportamento degli
eserciti, come dimostrano le pratiche di torture e le stragi anche in questa
guerra in Ucraina.
Einstein
Che fare, allora, se la difesa
militare è, come appare in tutta evidenza, inefficace a difendere le
popolazioni? La grande rimozione consumata dai
mass media in queste settimane di crisi bellica è la storia della “nonviolenza
efficace”, dove nel 1989 l’azione dei popoli ha abbattuto il muro di Berlino e
con esso il modello totalitario sovietico, ricorrendo all’azione nonviolenta e non
certo per mezzo di bombe e missili. Di fronte ai carri armati russi
che invasero nel ’68 la Cecoslovacchia per stroncare la Primavera di Praga e il
socialismo dal volto umano di Alexander Dubček, il giovane Jan Palach preferisce immolare
s stesso piuttosto che lanciare molotov e così facendo aprì la strada all’azione di Jan Patočka, il Socrate di Praga, al
drammaturgo Václav Havel, che promosse il “potere dei senza potere” e al
movimento Carta ’77 per la difesa dei diritti umani inviolabili. Havel finì in
carcere, ma alla fine vince similmente a Gandhi, a Martin Luther King, a
Mandela, diventando il presidente della Repubblica ceca.
Mandela
E come non ricordare la Polonia
dove il golpe militare del generale Jaruzelski viene sconfitto dalle “folle
disarmate” di Giovanni Paolo II, non riuscendo a soffocare gli scioperi dei
cantieri di Danzica convocati da Lech Walesa, a spegnere i digiuni di Anna
Walentynowicz nella chiesa della Nascita di Maria a Cracovia, l’azione
sindacale clandestina di Solidarność e quella politica del club “Libertà,
Giustizia, Indipendenza” fondato tra gli altri da Zbigniew Bujak, Jacek Kuron e
Adam Michnik. Il martirio poi del sacerdote Jerzy Popiełuszko determinò le
prime crepe nella dittatura e avviò l’elezione come presidente della repubblica
di Lech Walesa. Ignorare la lezione storica della
forza della nonviolenza rischia oggi di trascinare l’Europa al suicidio, mentre
le alleanze militari svuotano gli istituti della democrazia, consolidando le
posizioni dei gruppi armati e dei commercianti di armi. Già Erasmo nel 1514 invocava che
le decisioni sulla guerra non andassero prese da ristrette oligarchie, dai prìncipi
ai vertici degli Stati, ma da tutto il popolo. Similmente negli anni ’80 del
secolo scorso, lo psicoanalista Franco Fornari ha invitato i cittadini a
riprendersi la sovranità sui temi della pace, ritirando la delega affidata agli
Stati sulle questioni che mettono in pericolo il futuro del pianeta. Solo in
questo modo si potrebbe bonificare la mente dei capi dalla follia, dalla
paranoia insita nelle loro politiche di potenza. Nella guerra moderna, infatti,
non ci sono vincitori, ma tutti ne escono perdenti.
Tolstoj
Il Sogno di Lev Tolstoj Tolstoj prima di diventare
maestro e profeta di pace aveva partecipato come ufficiale alla guerra del
Caucaso. Mentre scrive il romanzo Guerra e pace, legge il saggio sulla
Guerra del generale prussiano Karl von Clausewitz, combattente durante le
guerre napoleoniche. Nello scenario della guerra
totale in presenza di forze asimmetriche, Clausewitz ritiene che a decidere
sulla conduzione del conflitto è la parte più debole. È sicuramente questa
intuizione ad aver ispirato la riflessione di Lev Tolstoj contenuta in una
lettera a una donna polacca nel 1909: “(...) Il semplice buon senso
dovrebbe dimostrare agli uomini che la violenza, in particolare dei deboli,
contro quella di coloro che sono incomparabilmente più forti, può solo
peggiorare la condizione degli asserviti e in nessun caso li può liberare... La
liberazione non soltanto dei polacchi,
ma di tutti gli uomini dalle ingiustizie e sofferenze di cui oggi essi
si lamentano così insistentemente, può avvenire solo tramite il riconoscimento da
parte degli uomini della legge dell’amore, legge vincolante, incompatibile con
l’uso di qualsiasi violenza contro il prossimo, ovvero legge della
non-resistenza. Il male non si vince con il male,
ma solo con il bene. (...) Io ho ancora un sogno, che
consiste nello sperare che questo radicale mutamento di vita dell’umanità
inizierà proprio in mezzo a noi popoli slavi...”. [Le citazioni sono riprese dall’antologia
di Pier Cesare Bori, Tolstoj, Firenze, ECP,1991]
M. L. King
Costretto alle limitazioni
imposte da un intervento sintetico, si deve rimandare per i necessari approfondimenti
all’ampia letteratura del pensiero nonviolento, agli scritti di Lev Tolstoj e
del Mahatma Gandhi, a quelli più recenti di Aldo Capitini, Martin Luther King,
don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Gene Sharp, Johan Galtung, Theodor Ebert, per
citare solo i principali studiosi. Ogni intellettuale che voglia
onestamente discutere le posizioni dei movimenti nonviolenti non può esimersi,
prima di dare giudizi, dal leggere e studiare i testi teorici e storici
fondamentali. Un uomo che non si cimenti oggi ad
apprendere a risolvere i conflitti in modo nonviolento rimane al livello del
troglodita, benché le sue armi non siano più la clava ma la bomba atomica. *Già
docente di teoria e prassi della nonviolenza all’Università di Pisa. Presidente del Centro Gandhi,
Pisa.