In
tempo di guerra appare naturale che il Primo Maggio sia dedicato alla Pace ma
non può essere dimenticata la natura del lavoro nella società capitalistica e
la torsione nel senso della intensificazione dello sfruttamento che l'esercizio
"indiscriminato" della modernità ha imposto in quadro di
inaccettabili disuguaglianze. Il richiamo allora è ancora rivolto ad una delle
pagine più importanti che il "Manifesto" ha pubblicato all'inizio dell'avventura
del quotidiano: il 1° maggio 1971 infatti l'articolo di fondo (non firmato)
titolava "Contro il Lavoro". Secondo
un'acuta osservazione di Fulvio De Lucis quella pagina deve essere considerata
oggi ancora “troppo marxiana in tempi di dimenticanza del modo di produzione
capitalistico dove è una “festa” avere un lavoro completamente subalterno al
comando del profitto”. Parto
proprio da questa affermazione di De Lucis per sviluppare alcune considerazioni
sui dati di “continuità storica” ben presenti in alcuni dei passaggi
dell’articolo. Un
articolo, è bene ricordarlo, che fu scritto in momento particolarmente “alto”
di lotte operaie e di serrata contrapposizione politica sulla cui analisi
sarebbe troppo complesso soffermarci in questa sede. Un
punto del testo pubblicato il 1° maggio di cinquant’anni fa però può essere
utilmente preso in esame: “Nessuno più di Marx ha fatto del lavoro il centro
della storia. L’uomo stesso è il prodotto del suo lavoro” e più avanti “Da
un lato il lavoro diventa, come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una
realtà esterna, senza senso e senza contenuti, un’alienazione insopportabile..”. Ecco
questo è il punto su cui soffermarci, quello del lavoro come alienazione. La
domanda allora diventa: qual è il punto di alienazione raggiunto oggi? Si pone
ancora la prospettiva che dalla presa di coscienza dell’alienazione si possa
arrivare alla presa di coscienza della necessità del superamento del lavoro
salariato? Occorre analizzare un punto di diversità fondamentale prendendo in
considerazione un dato di fondo, rispetto al tempo di "Germinale" o
della grande fabbrica fordista: l’uomo (e la donna, ancora sottoposta alla
doppia sudditanza, una sudditanza forse mai esasperata come nell'attualità) non
sono più il prodotto del loro lavoro, come si pensava cinquant'anni fa, e
neppure la dimensione umana si trova ancora al centro della subalternità al
comando del profitto. Oggi
la gran parte del genere umano, anche nelle parti del mondo che possiamo
considerare sbrigativamente come di sottosviluppo, non è null'altro che
l’espressione del suo consumo, della sua capacità di corrispondere in ogni
momento della sua vita e non soltanto in fabbrica all’egemonia del comando del
profitto. Dentro lo stridore sociale dominante è il comando del profitto che
ormai si è esteso sull’insieme di contraddizioni che la modernità presenta,
assumendo il comando di tutte le innovazioni che via via si stanno presentando
sulla scena. Ogni
nostro atto, ogni nostra possibilità di visione, è compiuto in funzione
dell’apparire quasi sempre pubblicitario del combinato disposto tra reale e
virtuale sul quale la logica del profitto si espande e si afferma. L’intreccio
tra reale e virtuale che si accompagna ormai in tutti gli aspetti della nostra
vita non produce altro che la virtuosità del profitto in tutti i campi: ce ne
siamo accorti analizzando l’andamento tragico dell’emergenza sanitaria e ancor
più siamo chiamati a prenderne atto nel momento in cui la virtualità della
propaganda ci propone una vera e propria obliterazione di analisi dei termini
concreti di una tragedia come quella della guerra. L'incombenza
imposta a tutti è quella di mantenere integro il ciclo del consumo. Così si è
arrivati più ancora che alla negazione al considerare superfluo il conflitto,
sia nel sociale sia nel politico. Il
conflitto è considerato ormai marginale, momento di turbamento dell’ordine
costituito. Si cerca di spingere fuori dal quadro le potenziali note stonate
riducendone i portatori a testimoni innocui. Sono
del tutto remote le potenzialità di considerare “lotta” e non “festa” una
giornata del lavoro nel significato profondo, originario, del Primo Maggio. Così
l’articolo del "Manifesto" di quel lontano 1° maggio di cinquant’anni
fa può essere considerato lontano nel tempo, reperto di vera antichità nella
storia delle relazioni umane, sociali, politiche. Come
dimostrano i fatti di questi giorni l’orizzonte è rimasto ristretto alla sola
possibilità della migliore remunerazione del lavoro umano per fa sì che ci sia
consentito di continuare ad esercitare questa funzione di mera riproduzione del
consumo come fattore di consenso e di nuova dimensione dell’umanità. Ricordarsi
le condizioni di intreccio tra sfruttamento e alienazione ponendo assieme il
tema di rivedere la visione del lavoro potrebbe rappresentare la possibilità di
compiere dopo tanto tempo un primo passo in avanti. Tutto
questo si potrebbe fare magari recuperando un vecchio testo di giornale,
rimasto lì e non utilizzato per incartare le patate.