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mercoledì 8 giugno 2022

A DIFESA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA  
di Gabriella Galzio



Contro l’uso strumentale dei referendum.
 
Volendo partire dalla storia, potremmo cominciare a riflettere sul significato reale della parola “democrazia”, considerando che la prima forma di democrazia - quella ateniese - tagliava fuori le donne e gli schiavi. Da allora l’istituto della democrazia è stata piuttosto una promessa da mantenere favorendo una sempre maggiore inclusione della popolazione a parteciparvi. E infatti, dopo aver atteso ca. 2500 anni, finalmente in Italia nel 1946, le donne hanno potuto votare per la nostra democrazia. Sono anche consapevole che, nello spirito e nell’architettura della Costituzione adottata allora, gli strumenti di democrazia diretta vennero concepiti come ancillari rispetto al carattere fondamentalmente rappresentativo della nostra democrazia parlamentare. Ma già negli anni ’70 ritenevo che alla luce dei nuovi movimenti dal basso, gli strumenti di democrazia diretti andassero potenziati, esigenza, questa, avvertita sempre più forte, dapprima per porre argine alla partitocrazia, poi per l’entrata in crisi sempre più acuta della rappresentatività dell’istituto parlamentare. Oggi il parlamento appare l’ombra di sé stesso, dal ripristino dei vitalizi e dei privilegi di una casta, all’impunità concessa a Renzi, emblema di un sistema di lobbying e connivenze, alla rinuncia a esercitare la sua funzione di controllo sull’azione governativa in materia di guerra. Dunque non può esserci alcun dubbio che io sia favorevole allo strumento referendario. Ma, per rispondere con garbo all’articolo di Guido Salvini (Odissea, 4 giugno, “L’arma sbiadita di questi referendum”), ad eventuali referendum consultivi questi nostri politici farebbero spallucce, considerato il fatto evidente che la nostra classe politica non tiene conto nemmeno degli esiti dei referendum abrogativi, vedi quello sul nucleare o sull’acqua, a salvaguardia di beni sicuramente comuni. Anzi, traendo spunto da altri paesi, adotterei un ulteriore istituto di democrazia diretta: il “Recall”, ossia la revoca di mandato a chi viene investito di cariche pubbliche e le offende con pratiche prive di dignità e onore. Ma oggi, con questi referendum sulla giustizia ci troviamo di fronte a una smaccata anomalia. Mentre ci viene sottratto il referendum sul fine vita, materia che davvero riguarda tutti i cittadini poiché pone i grandi quesiti della vita e della morte, ci vengono “calati dall’alto” i referendum sulla giustizia, altro bene comune prezioso, tanto più se si desidera una società egualitaria. Dico “calati dall’alto” perché una raccolta di firme dal basso non c’è stata, né probabilmente avrebbe mai raggiunto il numero richiesto; e questo perché la materia oggetto di referendum non era esigenza dei cittadini, ma di pochi gruppi di pressione che attraverso i referendum tentano di manomettere a fini particolaristici una giustizia già pesantemente compromessa con la riforma Cartabia; non sarà un caso che i nove presidenti di regione che hanno avanzato richiesta di referendum siano tutti espressione di coalizioni di centrodestra. Nulla da obiettare sulla forma, dato che il dettato costituzionale contempla la possibilità che cinque Consigli regionali possano richiedere che vengano indetti referendum, ma le obiezioni gridano sulla sostanza, e dunque sull’uso fraudolento della legge. È questo il motivo per cui, pur essendo una storica sostenitrice degli strumenti di democrazia diretta, non mi recherò al seggio, prestandomi a questo gioco, affinché non si raggiunga il quorum. Ai fedeli del voto istituzionale non posso che suggerire di votare NO. Creare, infatti, un vuoto legislativo con questi esponenti parlamentari, che il vuoto sarebbero chiamati a colmare legiferando, comporterebbe il serio rischio di un’ulteriore lacerazione del fragile tessuto di leggi che ancora tiene insieme la giustizia. Quando gli uomini della politica decadono, trascinano con sé anche le leggi.