A DIFESA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA
di Gabriella Galzio
Contro l’uso strumentale dei referendum. Volendo partire dalla storia,
potremmo cominciare a riflettere sul significato reale della parola
“democrazia”, considerando che la prima forma di democrazia - quella ateniese -
tagliava fuori le donne e gli schiavi. Da allora l’istituto della democrazia è
stata piuttosto una promessa da mantenere favorendo una sempre maggiore
inclusione della popolazione a parteciparvi. E infatti, dopo aver atteso ca.
2500 anni, finalmente in Italia nel 1946, le donne hanno potuto votare per la
nostra democrazia. Sono anche consapevole che, nello spirito e
nell’architettura della Costituzione adottata allora, gli strumenti di
democrazia diretta vennero concepiti come ancillari rispetto al carattere
fondamentalmente rappresentativo della nostra democrazia parlamentare. Ma già
negli anni ’70 ritenevo che alla luce dei nuovi movimenti dal basso, gli
strumenti di democrazia diretti andassero potenziati, esigenza, questa,
avvertita sempre più forte, dapprima per porre argine alla partitocrazia, poi
per l’entrata in crisi sempre più acuta della rappresentatività dell’istituto
parlamentare. Oggi il parlamento appare l’ombra di sé stesso, dal ripristino
dei vitalizi e dei privilegi di una casta, all’impunità concessa a Renzi,
emblema di un sistema di lobbying e connivenze, alla rinuncia a esercitare la
sua funzione di controllo sull’azione governativa in materia di guerra. Dunque
non può esserci alcun dubbio che io sia favorevole allo strumento referendario.
Ma, per rispondere con garbo all’articolo di Guido Salvini (Odissea, 4 giugno,
“L’arma sbiadita di questi referendum”), ad eventuali referendum
consultivi questi nostri politici farebbero spallucce, considerato il fatto evidente
che la nostra classe politica non tiene conto nemmeno degli esiti dei
referendum abrogativi, vedi quello sul nucleare o sull’acqua, a salvaguardia di
beni sicuramente comuni. Anzi, traendo spunto da altri paesi, adotterei un
ulteriore istituto di democrazia diretta: il “Recall”, ossia la revoca di
mandato a chi viene investito di cariche pubbliche e le offende con pratiche
prive di dignità e onore. Ma oggi, con questi referendum sulla giustizia
ci troviamo di fronte a una smaccata anomalia. Mentre ci viene sottratto il
referendum sul fine vita, materia che davvero riguarda tutti i cittadini poiché
pone i grandi quesiti della vita e della morte, ci vengono “calati dall’alto” i
referendum sulla giustizia, altro bene comune prezioso, tanto più se si
desidera una società egualitaria. Dico “calati dall’alto” perché una raccolta
di firme dal basso non c’è stata, né probabilmente avrebbe mai raggiunto il
numero richiesto; e questo perché la materia oggetto di referendum non era
esigenza dei cittadini, ma di pochi gruppi di pressione che attraverso i
referendum tentano di manomettere a fini particolaristici una giustizia già
pesantemente compromessa con la riforma Cartabia; non sarà un caso che i nove
presidenti di regione che hanno avanzato richiesta di referendum siano tutti
espressione di coalizioni di centrodestra. Nulla da obiettare sulla forma, dato
che il dettato costituzionale contempla la possibilità che cinque Consigli
regionali possano richiedere che vengano indetti referendum, ma le obiezioni
gridano sulla sostanza, e dunque sull’uso fraudolento della legge. È questo il
motivo per cui, pur essendo una storica sostenitrice degli strumenti di
democrazia diretta, non mi recherò al seggio, prestandomi a questo gioco,
affinché non si raggiunga il quorum. Ai fedeli del voto istituzionale non posso
che suggerire di votare NO. Creare, infatti, un vuoto legislativo con questi
esponenti parlamentari, che il vuoto sarebbero chiamati a colmare
legiferando, comporterebbe il serio rischio di un’ulteriore lacerazione del
fragile tessuto di leggi che ancora tiene insieme la giustizia. Quando gli
uomini della politica decadono, trascinano con sé anche le leggi.