Quis
fuit horrendos primus qui protulit enses? Con
questa domanda si apre una nota elegia di Tibullo: una domanda che pochi
purtroppo si pongono, e che nasce dallo stupore che la violenza abbia tanto, e
sempre di nuovo, preso piede nel nostro mondo. Lo stupore fa parte della vita,
e si oppone al destino cieco cui i totalitarismi vogliono destinarci. Come già
Vasilij Grossman e dopo di lui Imre Kertész hanno denunciato. La violenza
si è espressa al massimo grado nelle guerre, anche se non solo in esse. Che
faccia parte della nostra storia, la guerra, è indubbio: una storia maschile,
per lo più. Sarebbe stato lo stesso se avesse potuto declinarsi al femminile,
la storia? Tra i nostri sogni c’è anche la speranza che no. Fanno parte
del DNA dell’umanità la violenza, l’efferatezza, l’aggressività? In ogni caso
ci fanno parte anche tensioni opposte. Bisognerebbe rileggere le riflessioni in
proposito che si sono scambiati Einstein e Freud. E bisognerebbe tornare a
Vasilij Grossman, che ha attraversato, e non da
semplice spettatore, la terribile violenza di Stalingrado, del nazismo e dello
stalinismo. Egli è consapevole della disperante “legge di conservazione della
violenza” che domina la storia, e ciononostante serba la fede
nell’“inevitabilità della libertà” e della verità; e la “fiducia nella bontà
come forza irrazionale, istintiva, immotivata, capace però di riscattare la
violenza e alleviare il male”.
È
questa stessa fiducia che anima i pacifisti, i fautori del disarmo, di cui testimonia
Angelo Gaccione. Si stratta di una fiducia irrinunciabile per tutti noi, che nella
ragione malgrado tutto continuiamo a confidare; e nutriamo quella spes
contra spem, cui già Paolo di Tarso si è affidato nella “Lettera ai
Romani”. Gaccione dirige “Odissea”, che a temi consimili continua a dare molto
spazio (vorrei ricordare la recente Lettera ad un amico di Marco Vitale)
ed è animata da una spregiudicata apertura a diverse opinioni; sempre sorretta
dalla lucida denuncia dele storture della realtà in cui ci troviamo a vivere. Da
“Odissea” sono tratti gli articoli che Gaccione ha ora accolto nei suoi Scritti
contro la guerra (Tralerighe Libri, Lucca 2022), e che stanno sullo sfondo
di queste nostre considerazioni. Certo
agiscono nelle prese di posizione, di Gaccione e nostre, istanze utopiche: ove per
utopia si intenda un ideale etico e politico difficilmente realizzabile nelle
istituzioni, nella realtà; non privo tuttavia di una funzione positiva, di
denuncia e di testimonianza, nei riguardi della situazione etica e politica in
cui cade. “Utopia” non ha qui nulla a che fare con “utopismo”; come afferma
Luciano Parinetto, “quando il sogno è utopistico,
quando cioè la fantasticheria sul futuro distrae dal presente, mette fra
parentesi la vita invece di potenziarla, allora va respinto. Quando è utopico, cioè intenzionato a un
effettuale mutamento e si rovescia sul presente, allora va accolto”. Concludo con
passo comunemente attribuito a Borges, comunque incisivo ed efficace, a
prescindere dalla sua appartenenza: "L'utopia è la linea dell'orizzonte. Per
quanto cammini l'uomo non la raggiunge mai. Ma l'orizzonte non scompare
mai". Ancor più suggestiva è la sua presunta fonte (che mi ha segnalato
Emilio Renzi), Eduardo Hughes Galeano: “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due
passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di
dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A
questo: serve per continuare a camminare”. Decisiva non è solo la
sua irraggiungibilità, ma soprattutto il suo permanere come stella fissa che
orienta il cammino.