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mercoledì 6 luglio 2022

CONTRO LA GUERRA 
di Gabriele Scaramuzza


Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?
 
Con questa domanda si apre una nota elegia di Tibullo: una domanda che pochi purtroppo si pongono, e che nasce dallo stupore che la violenza abbia tanto, e sempre di nuovo, preso piede nel nostro mondo. Lo stupore fa parte della vita, e si oppone al destino cieco cui i totalitarismi vogliono destinarci. Come già Vasilij Grossman e dopo di lui Imre Kertész hanno denunciato. 
La violenza si è espressa al massimo grado nelle guerre, anche se non solo in esse. Che faccia parte della nostra storia, la guerra, è indubbio: una storia maschile, per lo più. Sarebbe stato lo stesso se avesse potuto declinarsi al femminile, la storia? Tra i nostri sogni c’è anche la speranza che no.  
Fanno parte del DNA dell’umanità la violenza, l’efferatezza, l’aggressività? In ogni caso ci fanno parte anche tensioni opposte. Bisognerebbe rileggere le riflessioni in proposito che si sono scambiati Einstein e Freud. E bisognerebbe tornare a Vasilij Grossman, che ha attraversato, e non da semplice spettatore, la terribile violenza di Stalingrado, del nazismo e dello stalinismo. Egli è consapevole della disperante “legge di conservazione della violenza” che domina la storia, e ciononostante serba la fede nell’“inevitabilità della libertà” e della verità; e la “fiducia nella bontà come forza irrazionale, istintiva, immotivata, capace però di riscattare la violenza e alleviare il male”. 



È questa stessa fiducia che anima i pacifisti, i fautori del disarmo, di cui testimonia Angelo Gaccione. Si stratta di una fiducia irrinunciabile per tutti noi, che nella ragione malgrado tutto continuiamo a confidare; e nutriamo quella spes contra spem, cui già Paolo di Tarso si è affidato nella “Lettera ai Romani”. Gaccione dirige “Odissea”, che a temi consimili continua a dare molto spazio (vorrei ricordare la recente Lettera ad un amico di Marco Vitale) ed è animata da una spregiudicata apertura a diverse opinioni; sempre sorretta dalla lucida denuncia dele storture della realtà in cui ci troviamo a vivere. Da “Odissea” sono tratti gli articoli che Gaccione ha ora accolto nei suoi Scritti contro la guerra (Tralerighe Libri, Lucca 2022), e che stanno sullo sfondo di queste nostre considerazioni.
Certo agiscono nelle prese di posizione, di Gaccione e nostre, istanze utopiche: ove per utopia si intenda un ideale etico e politico difficilmente realizzabile nelle istituzioni, nella realtà; non privo tuttavia di una funzione positiva, di denuncia e di testimonianza, nei riguardi della situazione etica e politica in cui cade. “Utopia” non ha qui nulla a che fare con “utopismo”; come afferma Luciano Parinetto, “quando il sogno è utopistico, quando cioè la fantasticheria sul futuro distrae dal presente, mette fra parentesi la vita invece di potenziarla, allora va respinto. Quando è utopico, cioè intenzionato a un effettuale mutamento e si rovescia sul presente, allora va accolto”.
Concludo con passo comunemente attribuito a Borges, comunque incisivo ed efficace, a prescindere dalla sua appartenenza: "L'utopia è la linea dell'orizzonte. Per quanto cammini l'uomo non la raggiunge mai. Ma l'orizzonte non scompare mai". Ancor più suggestiva è la sua presunta fonte (che mi ha segnalato Emilio Renzi), Eduardo Hughes Galeano: L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”. Decisiva non è solo la sua irraggiungibilità, ma soprattutto il suo permanere come stella fissa che orienta il cammino.