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mercoledì 31 agosto 2022
IL LASCITO DI GORBACIOV
LA SOTTRAZIONE DI ARGOMENTI
di
Franco Astengo
In
questa campagna elettorale dominata dalla paura le forze in lizza hanno
compiuto una vera e propria sottrazione di argomenti: non ci sono il lavoro,
l'informazione, lo stato sociale, l'idea dello sviluppo, l'acquisizione
collettiva del senso del limite e della capacità di costruirvi sopra un'idea di
società.
Manca
soprattutto un'idea di convivenza civile che parta dalla Città intesa come
luogo-simbolo della sperimentazione della modernità e da lì si trasferisca in
una costruzione di visione alternativa del modo di vivere.
Quella
parte politica che ha vinto le ultime elezioni amministrative e che è comunque
faticoso chiamare centro-sinistra non riesce più (come ai tempi del "buon
governo") a cominciare dalle Città, in particolare dalle periferie, sciupando
così tesori di impegno e di ricerca di pensiero.
Le
periferie vanno considerate come un processo e non come un prodotto: se si
riuscisse a far passare questo messaggio allora l'uso delle risorse pubbliche
potrebbe risultare più efficiente perché destinato a una visione del futuro e
non al semplice "divorarsi dell'oggi" e il tessuto urbano reso più
ricco e diversificato potrebbe svolgere un ruolo di integrazione anziché
separare i reciproci ghetti. Le città sono i mattoni di una geografia nuova,
pilastri indispensabili di un continente dei popoli.
La
città come topografia del cuore verso la modernità.
Questo
spunto di riflessione, questa visione che si muove dai luoghi abitati e
vissuti, è assente da questa pretesa contesa elettorale dominata dal vuoto nel
quale ciascun attore non riesce ad andare oltre il pretendere la sua
"ipotesi di potere". Così sfugge il progetto di un equilibrio tra
spazio pubblico e spazio privato e rimane totalmente assente una forma di
democrazia partecipativa impegnativa al punto tale da coinvolgere la comunità
nei progetti. La sola possibilità - scrive Alejandro Aravena - di disegnare
traiettorie verso l'uguaglianza.
ELEZIONI E COSTITUZIONE
di
Felice Besostri*
Stiamo
facendo le elezioni più incostituzionali della storia grazie alla legge
elettorale, Rosatellum, peggiorata dalla legge giallo-verde del Conte I, in
combinazione con il taglio dei Parlamentari e per quello che non si è fatto,
tra cui una cosa semplicissima come far venire meno per chi raccoglie le firme,
veri eroi della democrazia, di richiedere il certificato di iscrizione alle
liste elettorali, richiesta illegittima a partire dall'entrata in vigore il 2
settembre 1990,dell'art. 18 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
L'obbligo
di presentare il certificato di iscrizione alle liste elettorali insieme con
l'accettazione della candidatura è previsto dal dpr n. 361/1957 al suo art. 20,
che non ha tenuto conto della legge n. 241 del 1990. L'art. 18 bis del T.U.
Camera è stato più volte modificato dalle leggi 6 maggio 2015 n. 52 (Italikum),
3 novembre 2017 n. 165 (Rosatellum), 27 dicembre 2017 n. 205 e da ultimo dalla
legge n. 84/2022 di conversione del decreto-legge n. 41/2022. Tuttavia, questi
interventi non hanno mai toccato le norme obsolete come l'art. 20 del T.U., ma
solo per esentare le formazioni presenti in Parlamento, con criteri di volta in
volta diversi e valevoli solo per la prima elezioni successive. C'è la
violazione del Codice di buona condotta in materia elettorale essendo stato lo
stesso considerato parametro di legittimità dalla Corte Europea dei Diritti dell’UOMO
da ultimo con la sentenza definitiva 24 marzo 2020 della Sez. IV nel Ricorso n.
25560/13, Cegolea contro Romania.
L’esenzione
dalla raccolta delle firme, disposta nel passato sempre con legge ordinaria, è
stata, per la prima volta, introdotta, con una modifica della Camera con l’art.
6 bis ad un D. L., il n. 41 del 4 maggio 2022 e relativa ad altra materia come
si evince dal titolo della legge n. 84/2022 “Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 4 maggio 2022, n. 41, recante disposizioni
urgenti per lo svolgimento contestuale delle elezioni amministrative e dei
referendum previsti dall'articolo 75 della Costituzione da tenersi nell'anno
2022, nonché per l'applicazione di modalità operative, precauzionali e di
sicurezza ai fini della raccolta del voto.” L’art. 6 bis è, invece, intitolato
“(Disposizioni in materia di elezioni politiche)”, quindi relativo alle
elezioni politiche 2022, che alla data di emanazione del d. l. non erano state
nemmeno convocate. Lo furono, infatti, con il decreto del Presidente della Repubblica
del 21 luglio 2022, n. 97. Al momento della sua introduzione, quindi non vi
erano i presupposti del caso straordinario di necessità e urgenza, previsto
dall’art. 77.2 Cost., affinché il Governo, sotto la sua responsabilità, non il
Parlamento, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge. Al momento
dell’introduzione dell’art. 6 bis, si applicavano gli artt. 60 e 61 Cost.:
quindi, atteso che la prima riunione delle Camere, elette il 4 marzo 2018, si è
tenuta il 23 marzo 2018 e pertanto l’ultima data utile avrebbe potuto essere la
domenica 28 maggio 2023.
Inoltre,
l’art. 6-bis del decreto-legge n. 41 del 2022 è anche una legge-provvedimento
visto che descrive la situazione precisa di alcune liste. Le leggi
provvedimento sono illegittime per irragionevolezza e disparità di trattamento
(v. di recente la sentenza cost. n. 186 del 2022).
L’introduzione
di materie estranee nei decreti-legge è stata più volte censurata dalla Corte
costituzionale (sentenze 32 del 2014 e 94 del 2016). Inoltre, le modalità di conversione dei decreti-legge
violano il combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’art. 72 Cost., che richiede
sempre la procedura normale per le leggi in materia “costituzionale ed
elettorale”, mentre in sede di conversione di decreto legge si vota l’articolo
unico di conversione, il cui contenuto coincide con il titolo della legge di
conversione, che fa riferimento generico
alle modificazioni, al Senato, a differenza della Camera, il voto sulla
fiducia, espressamente richiesta dal Ministro per i Rapporti col Parlamento,
coincide col voto finale: l’art. 6 bis non è stato oggetto di specifica approvazione
delle Camere.
La
disparità di trattamento, rispetto alle liste autonome, con la stessa
percentuale di voto, ad esempio PaP, che ha superato l’1% sia alla Camera che
al Senato, è stata giustificata con la discrezionalità del legislatore e con
riferimento alla giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale sentenza
n. 48 del 2021, 394/2006, n. 84 del 1997, n. 83 del 1992 e n. 45 del 1967) di interpretazione
dell’art. 51 Cost., per il quale le condizioni di eguaglianza del diritto di
candidarsi è subordinato “ai requisiti stabiliti dalla legge”. Tuttavia,
la discrezionalità del legislatore non può sconfinare nell’arbitrarietà e
nell’irragionevolezza ovvero nella disparità di trattamento, con violazione
dell’art.3.1 Cost. Per comprendere le censure occorre esaminare il testo
dell’art. 6 bis, che di seguito si trascrive, con l’attenzione che richiede
l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale:
((1.
Le disposizioni dell'articolo 18-bis, comma 2, primo periodo, del testo unico delle leggi recanti
norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, si applicano, per le prime
elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica successive
alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, anche ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo
parlamentare in
almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021 o che abbiano presentato candidature con proprio
contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime
elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia in almeno due
terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in
ragione proporzionale o abbiano concorso alla
determinazione della cifra elettorale
nazionale di coalizione avendo conseguito, sul piano
nazionale, un numero di voti validi superiore all'1 per cento del totale)).
Per
la fretta il legislatore si è dimenticato che il nostro è un sistema bicamerale
(art. 55 Cost.) paritario per la funzione legislativa (artt. 70, 71, 72 e 73
Cost.) e per la ratifica dei trattati internazionali (art.80 Cost.) e per la
fiducia al Governo (art.94 Cost).
L’art.
18 bis è norma del T.U. Elezione Camera dei deputati, ma si applica anche al
Senato per espresso rinvio dell’art. 9 d.lgs. n. 533/1993, T.U. Elezione Senato
della Repubblica e ne tiene conto tanto che le esenzioni dalla raccolta firme
si applicano alle “prime elezioni della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica” successive all’entrata in
vigore della legge di conversione a “partiti o gruppi politici costituiti in
gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021”:
il bicameralismo è rispettato. Le due Camere sono equi ordinate e equivalenti:
chi ha almeno un gruppo si può presentare senza raccogliere firme anche
nella Camera nella quale non ha gruppo, anche se la ratio con la quale
la Corte Cost. ha giustificato l’onere della raccolta firme viene meno, tanto
più che fa riferimento ad elezioni nelle quali il corpo elettorale delle due Camere
era differenziato (art. 56.1 Cost. per la Camera e art. 58.1 Cost. per il
Senato), ora non più grazie alla legge cost. n. 1/2021. Il Bicameralismo viene
rapidamente meno poiché l’esenzione viene estesa ai partiti o gruppi politici “che
abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni
della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento
europeo spettanti all'Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano
ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale”, ma non al
Senato della Repubblica. La discriminazione, con disparità di trattamento,
diventa massima quando l’esenzione dalla raccolta firme viene estesa alle liste
che “abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale
di coalizione”. Per molteplici ragioni il voto non aveva peso uguale con le
coalizioni che potevano beneficiare del voto delle liste coalizzate sotto-soglia,
dopo la riforma dell’art. 14 bis dpr n. 361/1957, con l’approvazione della
legge n. 165/2017 (art. 1 c. 7), che non prevede più, rispetto al testo
introdotto con la legge n. 270/2005, che “I partiti o i gruppi politici
organizzati tra loro collegati in coalizione che si candidano a governare
depositano un unico programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome
della persona da loro indicata come unico capo della coalizione”, ma,
tuttavia, resta un secondo periodo nel comma 3 dell’art. 14 bis riformulato “Restano
ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica ai sensi
dell'articolo 92, secondo comma, della Costituzione”, anche se non ha più
alcun senso in mancanza di unico capo della coalizione: quando era una foglia
di fico, per nascondere un passaggio di fatto al cosiddetto premierato. Non è
un caso che si rafforzò la tendenza a mettere nel logo della lista un cognome e
una funzione come Berlusconi Presidente o Salvini Premier.
Con
la normativa del voto obbligatoriamente disgiunto a pena di nullità il
legislatore si sostituisce all’elettore. Al limite si poteva accettare che in
assenza di voto espresso si facesse una presunzione ma solo quando non vi era
dubbio, cioè quando un elettore avesse votato per una lista singola o
coalizzata, che il voto valesse anche per il candidato uninominale, ma non che
il voto dato al candidato uninominale in caso di coalizione vada diviso
proporzionalmente tra le liste in base alle scelte di altri elettori:
non
è più un voto personale, ma soprattutto diretto, cioè si violano gli artt. 48,
56 e 58 Cost., ma aberrante è la nullità del voto se il voto è disgiunto: a
quel punto di nega il voto libero e personale. Il voto uninominale
maggioritario deve valere esclusivamente per eleggere 3/8 dei seggi, non per
alterare la parte proporzionale.
La
legge elettorale Mattarellum prevedeva che al Senato per la parte
proporzionale si votasse su un’unica scheda, a differenza della Camera, e
pertanto andavano scorporati dal totale dei voti di una lista di candidati,
quelli utilizzati per proclamare eletti un candidato uninominale maggioritario,
altrimenti quel voto avrebbe avuto un valore maggiore e quindi non sarebbe
stato eguale.
Bastava prevedere il voto disgiunto per
rendere conforme a Costituzione e calcolare i voti solo nell’ambito in
cui sono stati espressi.
Consigli
agli elettori sul voto utile
Quindi
cosa fare?
Andare
a votare, comunque, tenendo conto che siamo un sistema bicamerale perfetto e
che gli effetti distorsivi maggiori delle leggi elettorali sono pericolosi se
si avverano nella stessa misura nelle due Camere: per esempio per evitare
persino il referendum su leggi costituzionali i 2/3 vanno raggiunti nelle due
Camere. Chi è in imbarazzo voti in modo disgiunto tra Camera e Senato. Nella
Camera le norme per la percentuale dei seggi tra i 3/8 maggioritari e i 5/8
proporzionali sono più favorevoli al proporzionale, mentre al Senato al
maggioritario. Pochi sanno che in una regione il Trentino-Alto Adige, al Senato
non c'è nemmeno un seggio proporzionale. È più facile raggiungere la soglia del
3% nazionale alla Camera, perché chi supera la soglia avrà sicuramente seggi,
mentre la base regionale del Senato non garantisce che chi superasse la soglia nazionale
li abbia, perché ci sono le soglie implicite regionali. Per avere un'idea si
deve dividere 100 per il numero dei seggi senatoriali assegnati alla regione
nella quota proporzionale. Nel senso che chi raggiunge quella percentuale ha la
certezza di avere un seggio, ma anche con una percentuale minore ma non di
molto, dipende dal numero di seggi da assegnare coi resti. Al Senato per avere
un voto non disperso bisogna votare per liste che possano vincere anche seggi
uninominali. In tal caso occorre anche che il candidato sia digeribile, non un
impresentabile. L'elettore può far verbalizzare suoi reclami ex art. 87
T.U. Camera, e il segretario, che si rifiuti deve tenere presente quanto
dispone l'art. 104 c. 5 dpr n. 361/1957 che stabilisce che “Il segretario
dell'Ufficio elettorale che rifiuta di inserire nel processo verbale o di
allegarvi proteste o reclami di elettori è punito con la reclusione da sei mesi
a tre anni e con la multa sino a lire 20.000.”
Pertanto
di può chiedere al presidente l'intervento della forza pubblica perché è un
reato. Per facilitare le operazioni è meglio che il reclamo sia stato redatto
per iscritto e richiedere la sua allegazione. I reclami ai sensi dell'art. 87
dpr 361/1957 devono giungere fino alla giunta delle elezioni delle due Camere.
Attraverso questa via un gruppo di elettori nel 2008 verbalizzo censure di
costituzionalità, che riprendevano le censure dei ricorsi contro il Porcellum.
Questi esposti furono esaminati dalle Giunte delle Elezioni di Camera e Senato
un anno dopo e respinti con varie motivazioni, ma la Giunta del Senato ritenne
che potessero investire la Corte Costituzionale, ma non lo fece perché il
Porcellum era costituzionale. Della smentita della Corte Costituzionale 4 anni
dopo con la sentenza n. 1/2014, (frutto di un ricorso dell'avv. Aldo Bozzi con
gli interventi ad adiuvandum, degli avvocati Claudio Tani e Felice
Besostri fino alle discussioni in Cassazione e Corte Costituzionale) non c'è
traccia nei verbali della Giunta delle elezioni.
Stavolta
potrebbe essere diverso, se veramente la difesa della Costituzione non è mero flatus
voci per chiedere voti, non meritati se non in nome del meno peggio,
turandosi il naso, ma anche, come le famose scimmiette cinesi, coprendosi con
le mani gli occhi per non vedere, le orecchie per non sentire e la bocca per
mantenere il segreto.
*Socialista del Gruppo di
Volpedo.
lunedì 29 agosto 2022
IL “PERIMETRO DRAGHI”
di Alfonso Gianni
Non
contiene le soluzioni alla crisi e alle speculazioni.
Non
si può certo dire che l’esercizio dell’ars
oratoria sia il pezzo forte del repertorio di Mario Draghi. Lo si è notato
anche a Rimini, durante il tradizionale appuntamento di Comunione e
Liberazione, oramai diventato una passerella per membri del governo presente o
futuro. L’unico momento nel quale il tono di voce del Presidente del Consiglio
uscente si è leggermente innalzato dalla monotona lettura del suo discorso, è
stato quando ha manifestato la sua convinzione che il prossimo governo “qualunque
sia il suo colore politico” riuscirà a superare difficoltà che “oggi appaiono insormontabili”
e che quindi “l’Italia ce la farà, anche questa volta”. A questa volitiva
previsione si sono voluti contrapporre i dati riportati dal Financial Times - che pure ha sempre
apertamente sostenuto la leadership di
Draghi - che dimostrerebbero la scommessa degli hedge fund su un fallimento
italiano. Il contrasto ha sollecitato la fantasia di dietrologi di vario
orientamento. Se si esclude che il passaggio di Draghi sia stata buttato lì per
puro patriottismo, è ancora più difficile pensare che “l’uomo delle
istituzioni”, ovvero della finanza, non fosse al corrente delle valutazioni
della agenzia americana S&P Global market su cui si è poi fondato l’articolo
del giornale londinese. Quei dati non sembrano, per ora, avere provocato particolari
traumi sui mercati finanziari. Lo scarto tra Btp e Bund tedeschi si è
addirittura ridotto di quasi dieci punti, così come è sceso il rendimento del
Btp a dieci anni. L’allarme lanciato dal Financial
Times nasce dal fatto che il
valore dei titoli ceduti senza possederli per poi ricomprarli a prezzi
inferiori ammonta nel caso dell’Italia a 39 miliardi di dollari. Le “vendite
allo scoperto” non sono una novità. È una delle pratiche che Luciano Gallino
proponeva di cancellare nella sua proposta di riforma della finanza. Si tratta
di un valore in assoluto superiore a quello verificatosi nel 2008. Ma se lo si
confronta con la crescita del debito pubblico italiano, attualmente di 2766 miliardi, mille in più rispetto al tempo della crisi innescata dai subprime, la cifra risulta in percentuale
ridimensionata. Altrove lo “scoperto” su cui si giocano le scommesse
speculative è più accentuato: circa 81 miliardi in Francia, quasi 98 in
Germania. Ma tutto ciò non nasconde la debolezza strutturale del nostro paese,
la sua maggiore esposizione al rischio di un blocco totale del gas russo, al
fatto che il sostegno della Bce è comunque molto diminuito rispetto a qualche
mese fa. Se ci si mette anche l’instabilità politica il quadro della maggiore fragilità
dell’Italia si arricchisce di un nuovo elemento. Ed è particolarmente su questo
aspetto che ha voluto insistere Draghi nel suo discorso di Rimini. In sostanza
ha voluto dire che il suo governo, implementando le politiche europee, ha
tracciato un solco ben preciso, dai bordi ben marcati - il Pnrr ci terrà per
mano almeno fino al 2026 - dai quali un nuovo governo, anche se di diverso
colore politico, ben difficilmente potrà uscire. Insomma Draghi ha postulato -
al di là di quella che sarà la sua personale collocazione futura -
l’ultrattività delle sue politiche, ben al di là della morte di poco prematura
dell’attuale legislatura. Sia per quanto riguarda le questioni economiche, sia
per ciò che concerne la collocazione internazionale piattamente atlantista, il
sostegno all’espansionismo della Nato e l’invio di armi in Ucraina.
Non è un caso che la Meloni si sia subito precipitata a lanciare messaggi di cautela e di acceso filoatlantismo alla stampa internazionale. Intanto si moltiplicano le previsioni di una recessione connessa a stagflazione per quanto riguarda l’Europa e in misura diversa anche gli Stati Uniti. La “stagnazione secolare” non appare più una esagerazione allarmistica, ma una previsione con seri fondamenti su cui ragionare. Ora si attendono le prossime decisioni che verranno prese a Jackson Hole, la riunione dei banchieri centrali, per quanto riguarda l’innalzamento dei tassi, l’unica medicina che viene offerta all’economia mondiale che ha in realtà ben altri problemi che non solo l’impennata dell’inflazione. Per questo bisognerebbe uscire dal perimetro politico ed economico tracciato da Draghi. Restarci dentro non significa solo dimostrare la propria inutilità, ma comporta il rischio di restarne stritolati. Non siamo più ai tempi del whatever it takes. Era già vero allora, ma adesso più che mai: le politiche monetarie non risolvono le crisi economiche e il tempo che passa dalla fase acuta di una crisi ad un’altra si sta restringendo sempre più. E la guerra - che non si vuole fermare, ma vincere, stando alle esplicite dichiarazioni dei suoi principali protagonisti - porta con sé la distruzione dell’ambiente e l’impoverimento di grande parte delle popolazioni europee. Un tempo dalla guerra poteva nascere una rivoluzione, ora solo un pacifismo concreto può innestare un processo di trasformazione.
TIGRI DI CARTA
di
Franco Astengo
L'avvio
della campagna elettorale sembra far registrare alcuni passaggi sulla base dei
quali dovrebbe esserne informato il successivo sviluppo:
1)
la situazione internazionale ha richiamato alcuni degli attori in campo da una
parte e dall'altra verso le logiche della ricerca del "complottismo"
ricostruendo anche termini desueti da "logica dei blocchi";
2)
per ora manca quasi completamente la volontà di mettere al primo posto la
propria elaborazione progettuale preferendo muoversi semplicemente per
contrastare l'avversario e rivolgendosi in buona parte dei casi su temi
marginali verso un'opinione pubblica impaurita e giorno per giorno
progressivamente impoverita;
3)
le due formazioni "maggiori", almeno a giudicare dai sondaggi,
lavoravano più in direzione del sottrarre spazio ai propri alleati che non a
privilegiare la crescita della coalizione di cui fanno parte (viene, infatti,
data per scontata l'assegnazione preventiva dei seggi nei collegi uninominali
che dovrebbe favorire fortemente il centro-destra). Per FdI la questione
riguarda l'assegnazione dell'incarico a formare il governo nel post-elezioni;
per il PD l'inseguimento del vecchio sogno della "vocazione
maggioritaria" e della "bipartizzazione" del sistema politico;
4)
risulta completamente trascurato il tema dell'astensionismo, considerato
erroneamente fisiologico, e la possibilità di un recupero in quella direzione.
Invece soltanto il recupero di una parte della diserzione dal voto (puntando a
ridurla attorno al 25%) potrebbe far pensare di modificare alcune situazioni
nel rapporto di forza che apparentemente appaiono incontrovertibili. Un
recupero che si trova però di fronte a tre elementi di difficoltà: a) la semina
di sfiducia verificatasi con l'avvento della politica illusionista e il
conseguente crollo del consenso al M5S; b) l'assenza di strutturazione
territoriale delle forze politiche; c) le liste bloccate in tempo di taglio
della rappresentanza con la conseguente scelta delle candidature affidata ai
"cerchi magici" e ai "paracadute da salvataggio".
Verifichiamo
allora qualche numero:
Nelle
elezioni politiche 2018 i votanti sul territorio nazionale furono il 72,94%
(con un totale di 32.841.025 voti validi con 1.500.000 circa di schede bianche
e nulle): alle Europee 2019 il 56, 09% (26.662.962 voti validi con 1.400.000
circa di schede bianche e nulle). Le elezioni regionali successive alle Europee
hanno fatto registrare questi dati: Umbria 64,69%, Emilia-Romagna 67.67%,
Calabria 44,33%, Veneto 61.15%, Liguria 53,42%, Campania 55,52% (La Liguria:
ultima regione del Nord o prima regione del Sud?), alla ripetizione del voto in
Calabria la quota di votanti è rimasta pressoché invariata al 44,36%. In
sostanza il recupero dei voti validi verificatosi in alcune regioni non è
apparso consolidarsi al punto da fare prevedere, almeno in questo momento, ad
un ritorno alla quota del 2018.
È
così ragionevolmente possibile prevedere un totale di votanti del 65%
corrispondente a circa 29.700.000.voti validi ferma restando a 1.500.000 la
quota di schede bianche e nulle. Quindi circa 3.000.000 di voti validi in meno.
Questi
dati ci forniscono allora alcune indicazioni:
1)
alla fine della favola è probabile che le due formazioni maggiori, nella somma
dei loro consensi si collocheranno al di sotto del 50% dei voti validi. In
questo senso è valida la definizione "tigri di carta" intesa come
indicazione di una debolezza di sistema. Fdi e PD stanno impostando una
fanciullesca campagna elettorale: da un lato puntando i piedi per reclamare un
incarico che non sarà comunque assegnato dall'esito elettorale di un singolo
partito e dall'altra riscoprendo una sorta di manicheismo ideologico dopo essersi trastullati per anni sulla fine delle
ideologie se non addirittura sulla "fine della storia". Materie
estremamente delicate e importanti sembrano completamente fuori dal dibattito:
industria, lavoro, informazione, stato sociale (al riguardo della sanità, ad
esempio, appare completamente assente una discussione sugli esiti della
regionalizzazione realizzata attraverso la tragica modifica del titolo V della
Costituzione), scuola, università.
Così
come appare latitante la riflessione sui temi istituzionali e sul combinato
disposto legge elettorale /riduzione nel numero dei parlamentari
Ebbene
alla fine questi due partiti che, almeno sulla carta, sembrano contendersi la
maggioranza relativa potrebbero avere all'incirca 13.500.000 voti in due. Ciò
significa che fuori dai loro rispettivi recinti starebbero più di 16.000.000 di
voti validi e all'incirca più di 20.000.000 astenuti, schede bianche e schede
nulle comprese verso i cittadini che stanno scegliendo questa strada non si sta
rivolgendo nessuno. Un sistema politico in grave crisi per una somma di ragioni
, senza rinvangare antiche storie del tempo dei partiti di massa quando i
protagonisti del "bipartitismo imperfetto" assommavano (1976) quasi 27.000.000 di voti validi su
36.700.000 espressi e un'astensione del 6% (2.400.000 diserzioni dalle urne)
più 1.000.000 tra schede bianche e nulle :restiamo alle cifre senza ricordare
compromesso storico, terza fase, conventio ad excludendum, democrazia
bloccata poi consociativa: tutta materia di responsabilità della classe
dirigente di allora, ma sistema solido fortemente ancorato alle contraddizioni
sociali e alla capacità di rappresentanza;
2)
Infine un avviso a chi si trova sulla soglia del 3%: serviranno più o meno
900.000 voti. Per chi ha dovuto raccogliere le firme per la presentazione è
evidente che c'è stato un dato di mobilitazione militante, ma questo discorso
vale anche per chi non ha dovuto sottoporsi a questa difficile prova. Il punto
della soluzione dell'impervia ascesa al quorum (qualcuno tanti anni fa titolò
sul raggiungimento del Karaquorum), in assenza di una sufficiente possibilità
di apparizione mediatica, risiederà soprattutto nella presenza territoriale: e
su questo punto si misurerà il dato di una organizzativamente insufficiente
offerta politica, un elemento quest’ultimo che riguarda direttamente la
sinistra e che dovrà essere affrontato nel dopo-voto. Forse si sarebbe dovuto,
per tutti, riflettere meglio sulla partecipazione dal basso nella composizione delle
liste.
domenica 28 agosto 2022
DONAZIONI
di
Angelo Gaccione*
Max Hamlet
"Omaggio alla Biennale di Venezia
Quello delle donazioni di natura
artistico-culturali (si tratti di libri, epistolari, collezioni, quadri,
sculture, oggetti di valore storico, strumenti scientifici, ecc. ecc.) agli
enti pubblici in Italia è un tema doloroso. Non è un caso che molte donazioni
sono finite all’estero dove la sensibilità, la cura e il rispetto per il
patrimonio intellettuale è mille volte più serio dell’oscena retorica del
nostro Paese. Da noi ci si riempie la bocca con le parole bellezza, cultura,
patrimonio storico-artistico-ambientale-paesaggistico, ma non si è capaci
nemmeno di salvaguardare l’iscrizione di una targa murata sulla facciata di un
palazzo. Potrei citare decine di casi di preziose collezioni donate ad enti
pubblici e poi costrette ad essere ritirate dai donatori per la pessima
gestione. Altre sono finite a città e Comuni diversi da quelli di pertinenza a
causa della stupidità e della ignavia di amministratori e assessorati
culturalmente sottozero. La vicenda del pittore e scultore Max Hamlet e dei
rapporti con il Comune di Gallipoli dove è nato o quello di Parabita, non mi scandalizza
affatto. È l’andazzo di un Paese alla deriva dove i governanti sono arrivati al
punto di mettere in vendita pezzi di patrimonio pubblico che dovrebbero
custodire, avendolo ricevuto in consegna dalla storia, come fossero di loro
proprietà. E questo senza che una insurrezione popolare li impicchi sulle
pubbliche piazze. Per quanto mi riguarda sono arrivato alla conclusione che è
meglio dare fuoco ai propri archivi artistico-culturali, piuttosto che farne
dono ai tangheri di certi gestori della Cosa Pubblica.
*scrittore
Max Hamlet "Omaggio alla Biennale di Venezia |
PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
La
piazza.
Il pastore greco aveva coniato
un verbo per indicare un’azione (radunare il gregge) che faceva tutti i giorni:
ἀγείρω: raduno, convoco, metto insieme,
avvalendosi di questa perifrasi: dal generare dall’andare lo scorrere, a
rappresentare, nel grembo, l’addensamento (come nucleo) del flusso
spermatico. Da questo verbo dedusse ἀγορά: adunanza,
assemblea popolare, piazza pubblica, mercato, tribunale,
quindi: discorso. Inoltre, da ἀγορά fu
coniato ἀγορεύω: parlo in pubblico, parlo
nell’assemblea, annuncio, proclamo. L’ἀγορά fu il cuore della città e, fra le tante
funzioni, sorse come luogo di raduno dell’ecclesia, quindi come centro
della vita politica, e divenne anche il luogo della vita economica (mercato),
giudiziaria e religiosa. L’ecclesia, in quanto adunanza/assemblea,
discende da ἐκ-καλέω: mando a chiamare, invito, convoco,
azioni, che sicuramente afferiscono a chi godeva di alcuni diritti politici (anche
perché faceva parte dell’esercito cittadino), che veniva convocato, per mezzo
degli araldi. Forum dei latini,
che, inizialmente, significò: mercato, piazza del mercato, è di
difficile decodifica, anche perché da forum fu dedotto, essenzialmente, forensis:
appartenente al foro, alla piazza pubblica, che si trova nel
foro. Livio utilizzò espressioni come queste: vestito forense (da
portare fuori, in piazza) e fazione forense (il partito
della piazza). Per questo motivo il legame di forum è,
presumibilmente, con foras o con foris, con il significato di: fuori.
Anche oggi, nel mio paese, che è un centro piccolissimo, come poteva essere la
Roma delle origini, con l’espressione: vado fuori, si vuol dire: vado
in piazza. Poi la parola è divenuta, anche e soprattutto, per lo sviluppo
edilizio della piazza. Il foro originario era un luogo largo di
aggregazione sociale, idoneo alle attività commerciali: forum boarium, forum
holitorium (mercato delle erbe), il mercato del pesce (forum
piscarium) ecc. Altri possibili significati potrebbero rimandare ad una
perifrasi di questo tipo: è ciò che faccio dopo che ho finito il mio lavoro.
Infine, potrebbe collegarsi ad un verbo conosciuto dai latini: φορ-έω: porto,
trasporto, mostro, ad indicare il luogo dove si porta quanto
sopravanza della pastorizia e dell’agricoltura. Anche a Roma, inoltre, come
nelle città della Grecia, il foro era il luogo delle assemblee e dei comizi.
Incidentalmente, si ricorda che dalla radice φορ,
da tradurre: quando nasce lo scorrere, furono dedotti: fors (sorte), fortuna,
fortis, fornix (volta) con il significato anche di bordello,
da cui, poi, fornicare, furnus/fornus e, nel mio dialetto,
furis’ (forese), che, nelle masserie, erano gli uomini che
trasportavano, addetti alle più dure fatiche.
La parola comizio
è un deverbale di comitor comitaris: unirsi come compagno, accompagnare,
da cui furono dedotte le aggregazioni sociopolitiche del mondo latino. Da comitor
fu dedotto il deverbale comitatus comitatus: accompagnamento, scorta,
séguito, mentre oggi ha acquisito il significato di raggruppamento
per.
Le aggregazioni
sociali, invece, presero il nome di classis, il cui significato, nel tempo,
è divenuto, ma che, inizialmente, fu collegata a: καλ-έω (per metatesi: kla/κλα):
chiamo, convoco e a: (klesis) κλῆσις: chiamata, invito, convocazione
di cittadini, ripartizione per classi. Infatti, come da κλῆσις fu
dedotta ecclesia ad indicare adunanza, così i latini da καλέω ricavarono classe per
indicare i convocati appartenenti allo stesso anno di nascita (esercito
o scuola), mentre, successivamente, con classe indicarono quelli che
avevano lo stesso censo. Nel linguaggio militare indicò: esercito e
flotta; quindi, da classis fu dedotto classico, ciò che
attiene all’esercito, ma anche cittadino della prima classe, mentre
Gellio parlò di classicus scriptor: di prim’ordine, esemplare.
Gli italici
coniarono piazza, parola dedotta da (plethos) πλῆθος, in dorico: (plathos) πλᾶθος, con i significati: moltitudine, folla,
plebe, anche: assemblea popolare. Da plethos furono
dedotti: pletora e pletorico. I filologi fanno discendere piazza
dal latino platea: strada larga/slargo/piazza, a sua volta
dedotta dall’aggettivo (platùs/plateia) πλατύς/πλατεῖα: largo,
ampio, che, diventando sostantivo, si traduce anche piazza. Personalmente,
propendo per un dedotto dα πλᾶθος, sia
perché il collegamento è più plausibile (la piazza si addice alla moltitudine),
sia perché non solo la cultura latina, ma anche quella italica adottarono parole
di origine dorica: μάτηρ al posto
di μήτηρ, στάμων: stame, trama, ordito, al posto di στήμων, per formare stamen staminis, σᾶμα, al posto
di σῆμα: segno
(del grembo), per dedurre eksamen/examen: esame, nel
senso di ciò che si esamina. Bisogna anche dire che i latini utilizzarono anche
σῆμα per
formulare: eksemplum/ exemplum o semper.
La piazza,
come l’agorà e il foro, è il luogo del popolo, in altri
termini dei prestatori d’opera, perché questo è il significato di demos [dem
si può rendere: dal legare (qui per indicare: faticare per produrre) il rimanere],
di popolo e di plebe. La piazza fu il luogo in cui il prestatore d’opera
era in attesa di una chiamata. In greco per indicare moltitudine, massa,
turba disordinata si adottò anche la parola (ochlos) ὄχλος,
che il Rocci indica come calco di vulgus, a seguito di questa metatesi:
(ϝolchos con oscuramento
dell’omicron) ϝόλχος e della trasformazione dei
suoni.
La massa del popolo è stata spesso contraddistinta per la mutevolezza degli
umori e per le grandi confusioni, che i latini definirono turba: confusione,
schiamazzo, tumulto, folla, calca, parola da
collegare a (tyrbé) τυρβή:
confusione, trambusto, tumulto. Le folle sono state sempre
manipolate, nel corso della storia, dai tanti demagoghi o tribuni di turno.
L’agorà,
il foro, la piazza, oltre alle funzioni sin qui dette, furono il cuore degli
scambi commerciali e delle compravendite. Il pastore e il contadino nelle
epoche primordiali socializzarono, mettendo tante cose in comune sia con lo
scambio di prestazioni di lavoro sia con il baratto di beni.
Con ἀλλάσσω: muto, cambio, prendo in cambio, baratto
e dai dedotti di questo verbo come: ἀνταλλαγή: scambio,
i greci indicarono non solo lo scambio di merci eccedenti, ma, inizialmente,
anche di prestazioni d’opera. Si ricorda che nel mio paese c’è una sorta di
istituto socioeconomico denominato “a ritenn‘ “, di cui ho parlato nel
testo: “Alla ricerca della genesi delle parole “.
I greci
avevano espresso questo modo di socializzare anche con il verbo ἀμείβω: do in cambio, prendo in cambio, da cui l’aggettivo:
ἀμοιβαῖος: scambievole,
mentre i latini coniarono reciproco e da muto mutas dedussero non
solo commutatio, ma soprattutto l’aggettivo mutuo. Molti lavori,
molte realizzazioni furono e sono possibili con il concorso (reciproco/mutuo)
di tanti. Per quanto riguarda la parola
della lingua italiana: baratto, bisogna dire che sicuramente fu ideata con
una delle immagini del divenire del grembo materno: la crescita iniziale del
flusso gravidico per ottenere la formazione dell’essere. Nel mio dialetto si
usa solamente il verbo “varattare (barattare)” ad indicare il dispensare (per
sovrabbondanza), a seguito dell’inseminazione, che rappresenta il mancare.
Inizialmente,
Il concetto di vendita fu mutuato da una metafora del grembo, da ciò che
si deduce dalla primigenia crescita: πιπράθκω/πιπράσκω: vendo, poi: πρᾶσις: vendita. Anche i latini si avvalsero della
stessa immagine per coniare vendo/ venditum: è ciò che si fa dentro
il concetto di accumulo, che per il pastore è il legare. Da
sottolineare che gli italici dedussero da vend: vendico e vendetta,
che rimanda a chi si lega le angherie, a chi non dimentica i torti
subiti.
I greci
dedussero il commercio da πόρος: passaggio
(per cui in italiano usiamo la parola: i pori), coniando emporio,
termine usato anche nella lingua latina. Questo legame di poros con emporio
si spiega, presumibilmente, con le merci di passaggio nei vari porti della
Grecia.
I latini per
indicare la compravendita inventarono il verbo deponente: mercor mercaris,
mercatus sum, mercari: compro, acquisto. Da chi ha
comperato furono dedotti: mercatus, mercato, mentre, inizialmente,
con mercantes si indicarono gli acquirenti. Da mercor fu
dedotta merx mercis, a voler dire che l’accumulo di un bene, oltre
quello che serve o può servire, determina l’alienazione. Da merce derivarono
mercede come ricompensa (in merce), mercenario, gli italici mercimonio
(per i latini: mercatus turpissimus) e mercè, nel senso di: per grazia,
in quanto quel legare che genera il mancare di ciò che acquisto rimanda
ad un parto difficile, risoltosi, miracolosamente, bene.
Voglio ribadire
una considerazione di carattere generale di formazione delle parole: la
desinenza di una parola contribuisce a determinare il significato, per cui nel
mio dialetto: merco/mirco (genera il legare il mancare il
rimanere) indica una cicatrice profonda deturpante, per cui in alcuni casi si
usa il verbo smircare/smercare, nel senso proprio di: sfregiare in
modo permanente. Tanto per restare in questo tema, nel mio dialetto, la
cicatrice viene denominata: cesa, da ricollegare a: caedo/caesum:
taglio, ad indicare quel che resta ad uno che si è tagliato,
mentre altri ricavarono cesoie.
Se c’è chi
vende, c’è anche chi compera. Greci, latini e italici videro nella nascita
della creatura ciò che si compera. Nel mio dialetto ai piccoli si dice: i nati
si comprano (s’accatt’n’). I greci, infatti, si erano avvalsi, e non
solo, di κτάομαι, metafora
della nascita e dell’attività del pastore, traducendo: acquisto, mi
procuro, guadagno, posseggo. Dato per certo che accattare del
dialetto è da collegare a κτάομαι, c’è il
verbo latino capio/captum (prendo/preso), che, verosimilmente, ha
dato luogo a: d’accatto, accattone, cattura, accattivare,
cattività, incattivire. Inoltre, dedussero compero da πρίαμαι attraverso questa perifrasi: è ciò che si
genera per me il far lo scorrere dal rimanere (che è: il nascere).
Tanto ho citato perché, nel mio dialetto, c’è il verbo priarsi, che è un
gioire dal profondo, per quanto di buono accade, in primis: la nascita. I
latini si avvalsero di πρίαμαι,
deducendo: pro-πριius: proprio
(mio personale), proprie: propriamente, in modo appropriato,
da cui furono ricavati: proprietà e proprietario.
I latini assegnarono
a emo il significato di: compero, acquisto da questa
brevissima perifrasi: è ciò che faccio dal rimanere, che può essere la
nascita o anche ciò che mi rimane, nel senso che diventa mio. Poi
da emo si ebbe: red-imo/red-emptum. Infine, gli italici coniarono
compero, che, parimenti, è la creatura che nasce.
RISTAMPE
di Federico Migliorati
Leonardo Sciascia
Torna in libreria il volume di Onofri su Sciascia.
Era il 1994 quando il giovane e poco più che trentenne critico letterario
Massimo Onofri dava alle stampe per le edizioni Laterza quella Storia di
Sciascia che metteva in risalto l’acume e la profondità di analisi su
uno dei massimi scrittori dell’epoca contemporanea tale da assurgere a canone
indiscusso. Un volume che ha segnato una tappa importante nella conoscenza dell’intellettuale
siciliano, ma che ha rappresentato anche un’ottima base di partenza per ulteriori
ricerche e approfondimenti se è vero che, come afferma lo stesso autore del
saggio, “proprio il destino di ogni critico letterario, se ha lavorato bene, è
quello di essere superato”. Da qualche mese Inschibboleth, attivissima casa
editrice romana, ha congedato in libreria la ristampa dell’opera (358 pagine,
24 euro) che mantiene, nonostante i quasi 30 anni di distanza dalla prima
edizione, una freschezza e un’attualità invidiabili. Merito, questo, di quelle
suggestioni che si rintracciano qua e là nel volume, forme, metodi e sistemi
mutuati dalla grande tradizione della critica che fu di De Sanctis, Borgese e
Debenedetti. La vita e l’opera letteraria di Sciascia finiscono anche
filologicamente sotto la lente di ingrandimento assumendo un valore ben più
rotondo e ampio rispetto a quello fino ad allora consegnato alla conoscenza dei
più. L’autore del Il giorno della civetta subisce una metamorfosi nel
corso della sua produzione: il suo esordio lo vede convinto assertore della
scrittura e della filosofia di Pirandello, verso quell’immagine di Sicilia “non
libera, non giusta, non razionale”, ma dal Premio Nobel se ne distaccherà fino a ripudiarlo in breve tempo (salvo
riavvicinarlo a più riprese in là con gli anni) in nome di Vitaliano Brancati,
altro nome prestigioso del Novecento in Trinacria, autore più solitario,
antidannunziano ad onta degli esordi giovanili, fieramente antifascista.
Cresciuto studiando Borges, Savinio, Trompeo e Cecchi, Sciascia affronta fin da
giovane quel Potere di cui sviscererà soprattutto i connotati metastorici più
che storici, all’insegna di una controstoria d’Italia di cui divenne
l’indiscusso, rigoroso campione. È un finissimo narratore e romanziere, complesso
e poliedrico, ci spiega Onofri che penetra nel linguaggio e nello stile sciasciano
per riemergere conducendoci nei risvolti della sua scrittura e senza mai
perdere di vista i fatti salienti dell’esistenza: scetticismo, pessimismo,
laica religiosità sono i tratti distintivi dello Sciascia maturo, quello che
riuscirà a dividere letterari e politici sulla sue prese di posizione e gli
scritti riguardanti in particolare la mafia, su cui discettava due anni prima
della nascita della ben nota commissione parlamentare antimafia. Come
dimenticare quel 1971 quando preconizzò il futuro “compromesso storico” tra Dc
e Pci, fulcro di una gestione del potere che non gli risparmiò, con l’affaire
Moro, feroci e virulente critiche anche dal mondo intellettuale per la
spietata, realistica analisi di quei drammatici 55 giorni, delle cause e delle
conseguenze prodotte.
La copertina del libro
Ma parlare dell’autore di capolavori come A ciascuno
il suo e Todo modo significa ripercorrere anche quel filone del
romanzo giallo e poliziesco su cui più volte Onofri (l’ultima occasione è stata
un editoriale apparso su Avvenire pochi giorni fa con susseguenti discussioni
social) ha avuto modo di sentenziarne la fine dopo Durrenmatt e Sciascia.
Proprio quest’ultimo sosteneva in tempi non sospetti di ravvisare in questo
genere “la zona più interessante, quella che riserva le sorprese più
autentiche”. In lui c’era l’attenzione e quasi l’ossessione di ricercare un
proprio riconoscibile stile nella scrittura, quell’aria della canzone, direbbe
Proust. Il critico viterbese con la perizia che gli è congeniale intesse un
lavoro di cesello, spostandosi costantemente dallo studio delle fonti, dalle
testimonianze alle tappe del percorso di scrittore al contesto sociale,
familiare e amicale di Sciascia fornendo in tal modo una visione completa di
colui che Calvino, con estrema lucidità, definì nel 1964 un “moralista civile”
invidiandogli l’assenza di “follia, di mito, di demoni”. Pagine illuminanti per
comprendere il retroterra e il sostrato di diversi suoi lavori sono quelle che
richiamano suggestioni e atteggiamenti tipici dello scrittore: “Una grande
cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici;
l’insicurezza come ‘componente primaria della storia siciliana’ per le continue
invasioni dal mare, radice di ‘paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni,
incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza,
pessimismo, fatalismo’; una specie di follia che tale insicurezza e
vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità e ancora una
vocazione al separatismo e all’indipendenza che, dando vita nei secoli a
privilegi e franchigie, ha generato quella ‘coscienza giuridica astratta e
involuta’ che è alla base di quelle ‘facoltà causidiche e sofistiche’ che già
Cicerone attribuiva ai siciliani”. Vita e letteratura che si incastrano, si
incrociano, si toccano ed ecco emergere, nel periodo di una temperie politiche
che vede il racalmutese candidato tra gli anni Settanta e Ottanta prima con il
Pci come indipendente e in seguito con i Radicali e in cui si innesta l’uscita
del volume sulla “Scomparsa di Majorana”: anche in questo caso l’autore sarà
vittima delle feroci invettive e contumelie che una parte della comunità
scientifica gli rivolgerà per le sue posizioni, prodromo di ciò che dovrà
affrontare negli ultimi anni di vita sulla questione Borsellino. Il Potere,
quello da lui combattuto, sviscerato, analizzato e narrato nei suoi più intimi
connotati, non perde occasione per manifestare la sua virulenza. Serve allora
ritornare alla breve prefazione dello stesso Onofri del volume in oggetto
laddove, richiamando padri e fonti nobili di Sciascia, egli afferma di vedere
in lui un illustre scrittore, ma altresì “un uomo giusto e moralmente
grandissimo”. È questo ritratto, intriso di virtù e di contraddizioni, di luci
e di ombre, di contraddizioni e di pregi, di disagi esistenziali e di rigore
etico, ma sempre e comunque di indubbio fascino culturale che il critico
letterario intende affidare alle giovani generazioni, “sicuro che si tratti
d’un atto non solo di civiltà, ma anche di bontà, perché di bontà abbiamo molto
bisogno in tempi cupissimi come i nostri, in cui la bontà è irrisa da maestri
di nulla, del nulla”.
sabato 27 agosto 2022
L’EGEMONIA DEL DOLLARO
Come può un paese che ha un debito pubblico superiore
al 120% del PIL; che avrà quest’anno un deficit di bilancio intorno al 5% del
PIL (era il 10% nel 2021, e il 15% nel 2020); che da decenni ha la bilancia dei
pagamenti in rosso per importi che stanno a cavallo del 3% del PIL; e che per
questo ha accumulato una posizione debitoria verso l’estero pari al 70% del
PIL, godere di una moneta egemone che consente di finanziarsi a condizioni
molto favorevoli sui mercati internazionali, e in parte addirittura “a gratis”
con l’emissione di banconote (l’estero ne possiede per 1.000 miliardi)? Il
mistero lo spiega brillantemente Thomas Palley, un economista
consapevole dei limiti della propria disciplina. I motivi sono
prevalentemente politici: l’egemonia del dollaro si spiega con l’egemonia
politico-militare degli Stati Uniti, della quale essa è al tempo stesso un
pilastro. C’è infatti un rapporto biunivoco tra potenza politico-militare e
potenza finanziaria: l’una sostiene l’altra. L’autore scrive che però non è sempre
stato così: per trent’anni, dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni
Sessanta, l’egemonia del dollaro aveva solide basi economiche. Poi, dopo la
crisi degli anni ’70, il dollaro è improvvisamente risorto: uno
dei protagonisti di questo miracolo è stato Volcker che abbattendo
l’inflazione con una politica monetaria restrittiva ha ristabilito le
condizioni minime di solidità della moneta – detto per inciso, le
preoccupazioni che l’inflazione suscita oggi negli ambienti della
Federal Reserve riflettono quelle di allora, ovvero il timore di perdere
l’esorbitante privilegio del dollaro. Ma Volcker è stato co-protagonista anche
di un’altra svolta, quella che ha portato a identificare
gli interessi del paese con quelli di una classe – Palley la chiama la
svolta neoliberista. È una classe transnazionale che ha in Wall
Street il tempio della liquidità dove celebrare successi e insuccessi. Gli
interessi di classe spiegano certamente più dell'efficienza dei mercati
finanziari americani l’egemonia del dollaro; la sostanza del fenomeno
resta tuttavia quella della sottomissione di una larga parte del resto del
mondo al volere di Washington – l’esorbitante privilegio del dollaro è insomma
l’equivalente contemporaneo del tributo feudale.
[Franco Continolo]
A TUTTO GAS…
Draghi ai fornelli...
Rimini. L’applauso di circa
due ore tributato all’ex presidente del consiglio Mario Draghi dalla platea di
Comunione e Ibernazione al Convegno di Rimini ha impedito al “migliore” di
chiudere il suo intervento con il passaggio a cui teneva molto. “Odissea” ne è
venuto in possesso per i suoi lettori e, come si può vedere, ne valeva la pena.
Draghi ai fornelli... |