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mercoledì 31 agosto 2022

IL LASCITO DI GORBACIOV

 
La scomparsa di Gorbaciov.
 
Gorbaciov ci lascia una condizione globale nel cui quadro emerge ancor più netto il giudizio di fallimento irreversibile del tentativo di inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del ’900. Una questione storica non risolta anche dal socialismo operante dentro al sistema liberale. Nello stesso tempo il riprodursi accelerato delle crisi cicliche del capitalismo ha rafforzato e reso ancor più urgente una necessità di sviluppo delle idee di uguaglianza.
Tensione verso l’uguaglianza collocata ben oltre lo schema imposto dall’antica priorità della “contraddizione principale”. Tensione verso l’uguaglianza da rivolgersi verso il costruire il senso di un “limite” che va posto alla ferocia di un falso sviluppo frutto della rapacità dell’intreccio tra tecnica e finanza agenti sulla politica in una forma neo-assolutistica. Siamo di fronte a contraddizioni non affrontabili senza il recupero di canoni di pensiero che abbiamo frettolosamente considerati desueti adagiandoci nella “fine della storia”.
Franco Astengo

LA SOTTRAZIONE DI ARGOMENTI
di Franco Astengo

 
In questa campagna elettorale dominata dalla paura le forze in lizza hanno compiuto una vera e propria sottrazione di argomenti: non ci sono il lavoro, l'informazione, lo stato sociale, l'idea dello sviluppo, l'acquisizione collettiva del senso del limite e della capacità di costruirvi sopra un'idea di società.
Manca soprattutto un'idea di convivenza civile che parta dalla Città intesa come luogo-simbolo della sperimentazione della modernità e da lì si trasferisca in una costruzione di visione alternativa del modo di vivere.
Quella parte politica che ha vinto le ultime elezioni amministrative e che è comunque faticoso chiamare centro-sinistra non riesce più (come ai tempi del "buon governo") a cominciare dalle Città, in particolare dalle periferie, sciupando così tesori di impegno e di ricerca di pensiero.
Le periferie vanno considerate come un processo e non come un prodotto: se si riuscisse a far passare questo messaggio allora l'uso delle risorse pubbliche potrebbe risultare più efficiente perché destinato a una visione del futuro e non al semplice "divorarsi dell'oggi" e il tessuto urbano reso più ricco e diversificato potrebbe svolgere un ruolo di integrazione anziché separare i reciproci ghetti. Le città sono i mattoni di una geografia nuova, pilastri indispensabili di un continente dei popoli.
La città come topografia del cuore verso la modernità.
Questo spunto di riflessione, questa visione che si muove dai luoghi abitati e vissuti, è assente da questa pretesa contesa elettorale dominata dal vuoto nel quale ciascun attore non riesce ad andare oltre il pretendere la sua "ipotesi di potere". Così sfugge il progetto di un equilibrio tra spazio pubblico e spazio privato e rimane totalmente assente una forma di democrazia partecipativa impegnativa al punto tale da coinvolgere la comunità nei progetti. La sola possibilità - scrive Alejandro Aravena - di disegnare traiettorie verso l'uguaglianza.

ELEZIONI E COSTITUZIONE
di Felice Besostri*

 
Stiamo facendo le elezioni più incostituzionali della storia grazie alla legge elettorale, Rosatellum, peggiorata dalla legge giallo-verde del Conte I, in combinazione con il taglio dei Parlamentari e per quello che non si è fatto, tra cui una cosa semplicissima come far venire meno per chi raccoglie le firme, veri eroi della democrazia, di richiedere il certificato di iscrizione alle liste elettorali, richiesta illegittima a partire dall'entrata in vigore il 2 settembre 1990,dell'art. 18 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
L'obbligo di presentare il certificato di iscrizione alle liste elettorali insieme con l'accettazione della candidatura è previsto dal dpr n. 361/1957 al suo art. 20, che non ha tenuto conto della legge n. 241 del 1990. L'art. 18 bis del T.U. Camera è stato più volte modificato dalle leggi 6 maggio 2015 n. 52 (Italikum), 3 novembre 2017 n. 165 (Rosatellum), 27 dicembre 2017 n. 205 e da ultimo dalla legge n. 84/2022 di conversione del decreto-legge n. 41/2022. Tuttavia, questi interventi non hanno mai toccato le norme obsolete come l'art. 20 del T.U., ma solo per esentare le formazioni presenti in Parlamento, con criteri di volta in volta diversi e valevoli solo per la prima elezioni successive. C'è la violazione del Codice di buona condotta in materia elettorale essendo stato lo stesso considerato parametro di legittimità dalla Corte Europea dei Diritti dell’UOMO da ultimo con la sentenza definitiva 24 marzo 2020 della Sez. IV nel Ricorso n. 25560/13, Cegolea contro Romania.
L’esenzione dalla raccolta delle firme, disposta nel passato sempre con legge ordinaria, è stata, per la prima volta, introdotta, con una modifica della Camera con l’art. 6 bis ad un D. L., il n. 41 del 4 maggio 2022 e relativa ad altra materia come si evince dal titolo della legge n. 84/2022 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 maggio 2022, n. 41, recante disposizioni urgenti per lo svolgimento contestuale delle elezioni amministrative e dei referendum previsti dall'articolo 75 della Costituzione da tenersi nell'anno 2022, nonché per l'applicazione di modalità operative, precauzionali e di sicurezza ai fini della raccolta del voto.” L’art. 6 bis è, invece, intitolato “(Disposizioni in materia di elezioni politiche)”, quindi relativo alle elezioni politiche 2022, che alla data di emanazione del d. l. non erano state nemmeno convocate. Lo furono, infatti, con il decreto del Presidente della Repubblica del 21 luglio 2022, n. 97. Al momento della sua introduzione, quindi non vi erano i presupposti del caso straordinario di necessità e urgenza, previsto dall’art. 77.2 Cost., affinché il Governo, sotto la sua responsabilità, non il Parlamento, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge. Al momento dell’introduzione dell’art. 6 bis, si applicavano gli artt. 60 e 61 Cost.: quindi, atteso che la prima riunione delle Camere, elette il 4 marzo 2018, si è tenuta il 23 marzo 2018 e pertanto l’ultima data utile avrebbe potuto essere la domenica 28 maggio 2023.



Inoltre, l’art. 6-bis del decreto-legge n. 41 del 2022 è anche una legge-provvedimento visto che descrive la situazione precisa di alcune liste. Le leggi provvedimento sono illegittime per irragionevolezza e disparità di trattamento (v. di recente la sentenza cost. n. 186 del 2022).
L’introduzione di materie estranee nei decreti-legge è stata più volte censurata dalla Corte costituzionale (sentenze 32 del 2014 e 94 del 2016). Inoltre,  le modalità di conversione dei decreti-legge violano il combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’art. 72 Cost., che richiede sempre la procedura normale per le leggi in materia “costituzionale ed elettorale”, mentre in sede di conversione di decreto legge si vota l’articolo unico di conversione, il cui contenuto coincide con il titolo della legge di conversione, che fa riferimento  generico alle modificazioni, al Senato, a differenza della Camera, il voto sulla fiducia, espressamente richiesta dal Ministro per i Rapporti col Parlamento, coincide col voto finale: l’art. 6 bis non è stato oggetto di specifica approvazione delle Camere.

 
La disparità di trattamento, rispetto alle liste autonome, con la stessa percentuale di voto, ad esempio PaP, che ha superato l’1% sia alla Camera che al Senato, è stata giustificata con la discrezionalità del legislatore e con riferimento alla giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale sentenza n. 48 del 2021, 394/2006, n. 84 del 1997, n. 83 del 1992 e n. 45 del 1967) di interpretazione dell’art. 51 Cost., per il quale le condizioni di eguaglianza del diritto di candidarsi è subordinato “ai requisiti stabiliti dalla legge”. Tuttavia, la discrezionalità del legislatore non può sconfinare nell’arbitrarietà e nell’irragionevolezza ovvero nella disparità di trattamento, con violazione dell’art.3.1 Cost. Per comprendere le censure occorre esaminare il testo dell’art. 6 bis, che di seguito si trascrive, con l’attenzione che richiede l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale:
((1. Le disposizioni dell'articolo 18-bis, comma 2, primo  periodo, del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di  cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, si applicano, per le prime elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica successive alla data di entrata in vigore della  legge  di  conversione del presente decreto, anche ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021 o che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale o abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione avendo conseguito, sul piano nazionale, un numero di voti validi superiore all'1 per cento del totale)).
Per la fretta il legislatore si è dimenticato che il nostro è un sistema bicamerale (art. 55 Cost.) paritario per la funzione legislativa (artt. 70, 71, 72 e 73 Cost.) e per la ratifica dei trattati internazionali (art.80 Cost.) e per la fiducia al Governo (art.94 Cost).
 

L’art. 18 bis è norma del T.U. Elezione Camera dei deputati, ma si applica anche al Senato per espresso rinvio dell’art. 9 d.lgs. n. 533/1993, T.U. Elezione Senato della Repubblica e ne tiene conto tanto che le esenzioni dalla raccolta firme si applicano alle “prime elezioni della Camera dei deputati e del Senato  della  Repubblica” successive all’entrata in vigore della legge di conversione a “partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021”: il bicameralismo è rispettato. Le due Camere sono equi ordinate e equivalenti: chi ha almeno un gruppo si può presentare senza raccogliere firme anche nella Camera nella quale non ha gruppo, anche se la ratio con la quale la Corte Cost. ha giustificato l’onere della raccolta firme viene meno, tanto più che fa riferimento ad elezioni nelle quali il corpo elettorale delle due Camere era differenziato (art. 56.1 Cost. per la Camera e art. 58.1 Cost. per il Senato), ora non più grazie alla legge cost. n. 1/2021. Il Bicameralismo viene rapidamente meno poiché l’esenzione viene estesa ai partiti o gruppi politici “che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale”, ma non al Senato della Repubblica. La discriminazione, con disparità di trattamento, diventa massima quando l’esenzione dalla raccolta firme viene estesa alle liste che “abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione”. Per molteplici ragioni il voto non aveva peso uguale con le coalizioni che potevano beneficiare del voto delle liste coalizzate sotto-soglia, dopo la riforma dell’art. 14 bis dpr n. 361/1957, con l’approvazione della legge n. 165/2017 (art. 1 c. 7), che non prevede più, rispetto al testo introdotto con la legge n. 270/2005, che “I partiti o i gruppi politici organizzati tra loro collegati in coalizione che si candidano a governare depositano un unico programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione”, ma, tuttavia, resta un secondo periodo nel comma 3 dell’art. 14 bis riformulato “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica ai sensi dell'articolo 92, secondo comma, della Costituzione”, anche se non ha più alcun senso in mancanza di unico capo della coalizione: quando era una foglia di fico, per nascondere un passaggio di fatto al cosiddetto premierato. Non è un caso che si rafforzò la tendenza a mettere nel logo della lista un cognome e una funzione come Berlusconi Presidente o Salvini Premier.
Con la normativa del voto obbligatoriamente disgiunto a pena di nullità il legislatore si sostituisce all’elettore. Al limite si poteva accettare che in assenza di voto espresso si facesse una presunzione ma solo quando non vi era dubbio, cioè quando un elettore avesse votato per una lista singola o coalizzata, che il voto valesse anche per il candidato uninominale, ma non che il voto dato al candidato uninominale in caso di coalizione vada diviso proporzionalmente tra le liste in base alle scelte di altri elettori:
non è più un voto personale, ma soprattutto diretto, cioè si violano gli artt. 48, 56 e 58 Cost., ma aberrante è la nullità del voto se il voto è disgiunto: a quel punto di nega il voto libero e personale. Il voto uninominale maggioritario deve valere esclusivamente per eleggere 3/8 dei seggi, non per alterare la parte proporzionale.
La legge elettorale Mattarellum prevedeva che al Senato per la parte proporzionale si votasse su un’unica scheda, a differenza della Camera, e pertanto andavano scorporati dal totale dei voti di una lista di candidati, quelli utilizzati per proclamare eletti un candidato uninominale maggioritario, altrimenti quel voto avrebbe avuto un valore maggiore e quindi non sarebbe stato eguale.
 Bastava prevedere il voto disgiunto per rendere conforme a Costituzione e calcolare i voti solo nell’ambito in cui sono stati espressi.


 
Consigli agli elettori sul voto utile
Quindi cosa fare?
Andare a votare, comunque, tenendo conto che siamo un sistema bicamerale perfetto e che gli effetti distorsivi maggiori delle leggi elettorali sono pericolosi se si avverano nella stessa misura nelle due Camere: per esempio per evitare persino il referendum su leggi costituzionali i 2/3 vanno raggiunti nelle due Camere. Chi è in imbarazzo voti in modo disgiunto tra Camera e Senato. Nella Camera le norme per la percentuale dei seggi tra i 3/8 maggioritari e i 5/8 proporzionali sono più favorevoli al proporzionale, mentre al Senato al maggioritario. Pochi sanno che in una regione il Trentino-Alto Adige, al Senato non c'è nemmeno un seggio proporzionale. È più facile raggiungere la soglia del 3% nazionale alla Camera, perché chi supera la soglia avrà sicuramente seggi, mentre la base regionale del Senato non garantisce che chi superasse la soglia nazionale li abbia, perché ci sono le soglie implicite regionali. Per avere un'idea si deve dividere 100 per il numero dei seggi senatoriali assegnati alla regione nella quota proporzionale. Nel senso che chi raggiunge quella percentuale ha la certezza di avere un seggio, ma anche con una percentuale minore ma non di molto, dipende dal numero di seggi da assegnare coi resti. Al Senato per avere un voto non disperso bisogna votare per liste che possano vincere anche seggi uninominali. In tal caso occorre anche che il candidato sia digeribile, non un impresentabile. L'elettore può far verbalizzare suoi reclami ex art. 87 T.U. Camera, e il segretario, che si rifiuti deve tenere presente quanto dispone l'art. 104 c. 5 dpr n. 361/1957 che stabilisce che “Il segretario dell'Ufficio elettorale che rifiuta di inserire nel processo verbale o di allegarvi proteste o reclami di elettori è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa sino a lire 20.000.
Pertanto di può chiedere al presidente l'intervento della forza pubblica perché è un reato. Per facilitare le operazioni è meglio che il reclamo sia stato redatto per iscritto e richiedere la sua allegazione. I reclami ai sensi dell'art. 87 dpr 361/1957 devono giungere fino alla giunta delle elezioni delle due Camere. Attraverso questa via un gruppo di elettori nel 2008 verbalizzo censure di costituzionalità, che riprendevano le censure dei ricorsi contro il Porcellum. Questi esposti furono esaminati dalle Giunte delle Elezioni di Camera e Senato un anno dopo e respinti con varie motivazioni, ma la Giunta del Senato ritenne che potessero investire la Corte Costituzionale, ma non lo fece perché il Porcellum era costituzionale. Della smentita della Corte Costituzionale 4 anni dopo con la sentenza n. 1/2014, (frutto di un ricorso dell'avv. Aldo Bozzi con gli interventi ad adiuvandum, degli avvocati Claudio Tani e Felice Besostri fino alle discussioni in Cassazione e Corte Costituzionale) non c'è traccia nei verbali della Giunta delle elezioni.
Stavolta potrebbe essere diverso, se veramente la difesa della Costituzione non è mero flatus voci per chiedere voti, non meritati se non in nome del meno peggio, turandosi il naso, ma anche, come le famose scimmiette cinesi, coprendosi con le mani gli occhi per non vedere, le orecchie per non sentire e la bocca per mantenere il segreto.
 
*Socialista del Gruppo di Volpedo.

lunedì 29 agosto 2022

IL “PERIMETRO DRAGHI”
di Alfonso Gianni

 
Non contiene le soluzioni alla crisi e alle speculazioni
.
 
Non si può certo dire che l’esercizio dell’ars oratoria sia il pezzo forte del repertorio di Mario Draghi. Lo si è notato anche a Rimini, durante il tradizionale appuntamento di Comunione e Liberazione, oramai diventato una passerella per membri del governo presente o futuro. L’unico momento nel quale il tono di voce del Presidente del Consiglio uscente si è leggermente innalzato dalla monotona lettura del suo discorso, è stato quando ha manifestato la sua convinzione che il prossimo governo “qualunque sia il suo colore politico” riuscirà a superare difficoltà che “oggi appaiono insormontabili” e che quindi “l’Italia ce la farà, anche questa volta”. A questa volitiva previsione si sono voluti contrapporre i dati riportati dal Financial Times - che pure ha sempre apertamente sostenuto la leadership di Draghi - che dimostrerebbero la scommessa degli hedge fund su un fallimento italiano. Il contrasto ha sollecitato la fantasia di dietrologi di vario orientamento. Se si esclude che il passaggio di Draghi sia stata buttato lì per puro patriottismo, è ancora più difficile pensare che “l’uomo delle istituzioni”, ovvero della finanza, non fosse al corrente delle valutazioni della agenzia americana S&P Global market su cui si è poi fondato l’articolo del giornale londinese. Quei dati non sembrano, per ora, avere provocato particolari traumi sui mercati finanziari. Lo scarto tra Btp e Bund tedeschi si è addirittura ridotto di quasi dieci punti, così come è sceso il rendimento del Btp a dieci anni. L’allarme lanciato dal Financial Times nasce dal fatto che il valore dei titoli ceduti senza possederli per poi ricomprarli a prezzi inferiori ammonta nel caso dell’Italia a 39 miliardi di dollari. Le “vendite allo scoperto” non sono una novità. È una delle pratiche che Luciano Gallino proponeva di cancellare nella sua proposta di riforma della finanza. Si tratta di un valore in assoluto superiore a quello verificatosi nel 2008. Ma se lo si confronta con la crescita del debito pubblico italiano, attualmente di 2766 miliardi, mille in più rispetto al tempo della crisi innescata dai subprime, la cifra risulta in percentuale ridimensionata. Altrove lo “scoperto” su cui si giocano le scommesse speculative è più accentuato: circa 81 miliardi in Francia, quasi 98 in Germania. Ma tutto ciò non nasconde la debolezza strutturale del nostro paese, la sua maggiore esposizione al rischio di un blocco totale del gas russo, al fatto che il sostegno della Bce è comunque molto diminuito rispetto a qualche mese fa. Se ci si mette anche l’instabilità politica il quadro della maggiore fragilità dell’Italia si arricchisce di un nuovo elemento. Ed è particolarmente su questo aspetto che ha voluto insistere Draghi nel suo discorso di Rimini. In sostanza ha voluto dire che il suo governo, implementando le politiche europee, ha tracciato un solco ben preciso, dai bordi ben marcati - il Pnrr ci terrà per mano almeno fino al 2026 - dai quali un nuovo governo, anche se di diverso colore politico, ben difficilmente potrà uscire. Insomma Draghi ha postulato - al di là di quella che sarà la sua personale collocazione futura - l’ultrattività delle sue politiche, ben al di là della morte di poco prematura dell’attuale legislatura. Sia per quanto riguarda le questioni economiche, sia per ciò che concerne la collocazione internazionale piattamente atlantista, il sostegno all’espansionismo della Nato e l’invio di armi in Ucraina. 



Non è un caso che la Meloni si sia subito precipitata a lanciare messaggi di cautela e di acceso filoatlantismo alla stampa internazionale. Intanto si moltiplicano le previsioni di una recessione connessa a stagflazione per quanto riguarda l’Europa e in misura diversa anche gli Stati Uniti. La “stagnazione secolare” non appare più una esagerazione allarmistica, ma una previsione con seri fondamenti su cui ragionare. Ora si attendono le prossime decisioni che verranno prese a Jackson Hole, la riunione dei banchieri centrali, per quanto riguarda l’innalzamento dei tassi, l’unica medicina che viene offerta all’economia mondiale che ha in realtà ben altri problemi che non solo l’impennata dell’inflazione. Per questo bisognerebbe uscire dal perimetro politico ed economico tracciato da Draghi. Restarci dentro non significa solo dimostrare la propria inutilità, ma comporta il rischio di restarne stritolati. Non siamo più ai tempi del whatever it takes. Era già vero allora, ma adesso più che mai: le politiche monetarie non risolvono le crisi economiche e il tempo che passa dalla fase acuta di una crisi ad un’altra si sta restringendo sempre più. E la guerra - che non si vuole fermare, ma vincere, stando alle esplicite dichiarazioni dei suoi principali protagonisti - porta con sé la distruzione dell’ambiente e l’impoverimento di grande parte delle popolazioni europee. Un tempo dalla guerra poteva nascere una rivoluzione, ora solo un pacifismo concreto può innestare un processo di trasformazione. 

TIGRI DI CARTA
di Franco Astengo
 


L'avvio della campagna elettorale sembra far registrare alcuni passaggi sulla base dei quali dovrebbe esserne informato il successivo sviluppo:
1) la situazione internazionale ha richiamato alcuni degli attori in campo da una parte e dall'altra verso le logiche della ricerca del "complottismo" ricostruendo anche termini desueti da "logica dei blocchi";
2) per ora manca quasi completamente la volontà di mettere al primo posto la propria elaborazione progettuale preferendo muoversi semplicemente per contrastare l'avversario e rivolgendosi in buona parte dei casi su temi marginali verso un'opinione pubblica impaurita e giorno per giorno progressivamente impoverita;
3) le due formazioni "maggiori", almeno a giudicare dai sondaggi, lavoravano più in direzione del sottrarre spazio ai propri alleati che non a privilegiare la crescita della coalizione di cui fanno parte (viene, infatti, data per scontata l'assegnazione preventiva dei seggi nei collegi uninominali che dovrebbe favorire fortemente il centro-destra). Per FdI la questione riguarda l'assegnazione dell'incarico a formare il governo nel post-elezioni; per il PD l'inseguimento del vecchio sogno della "vocazione maggioritaria" e della "bipartizzazione" del sistema politico;
4) risulta completamente trascurato il tema dell'astensionismo, considerato erroneamente fisiologico, e la possibilità di un recupero in quella direzione. Invece soltanto il recupero di una parte della diserzione dal voto (puntando a ridurla attorno al 25%) potrebbe far pensare di modificare alcune situazioni nel rapporto di forza che apparentemente appaiono incontrovertibili. Un recupero che si trova però di fronte a tre elementi di difficoltà: a) la semina di sfiducia verificatasi con l'avvento della politica illusionista e il conseguente crollo del consenso al M5S; b) l'assenza di strutturazione territoriale delle forze politiche; c) le liste bloccate in tempo di taglio della rappresentanza con la conseguente scelta delle candidature affidata ai "cerchi magici" e ai "paracadute da salvataggio".
Verifichiamo allora qualche numero:
Nelle elezioni politiche 2018 i votanti sul territorio nazionale furono il 72,94% (con un totale di 32.841.025 voti validi con 1.500.000 circa di schede bianche e nulle): alle Europee 2019 il 56, 09% (26.662.962 voti validi con 1.400.000 circa di schede bianche e nulle). Le elezioni regionali successive alle Europee hanno fatto registrare questi dati: Umbria 64,69%, Emilia-Romagna 67.67%, Calabria 44,33%, Veneto 61.15%, Liguria 53,42%, Campania 55,52% (La Liguria: ultima regione del Nord o prima regione del Sud?), alla ripetizione del voto in Calabria la quota di votanti è rimasta pressoché invariata al 44,36%. In sostanza il recupero dei voti validi verificatosi in alcune regioni non è apparso consolidarsi al punto da fare prevedere, almeno in questo momento, ad un ritorno alla quota del 2018.



È così ragionevolmente possibile prevedere un totale di votanti del 65% corrispondente a circa 29.700.000.voti validi ferma restando a 1.500.000 la quota di schede bianche e nulle. Quindi circa 3.000.000 di voti validi in meno.
Questi dati ci forniscono allora alcune indicazioni:
1) alla fine della favola è probabile che le due formazioni maggiori, nella somma dei loro consensi si collocheranno al di sotto del 50% dei voti validi. In questo senso è valida la definizione "tigri di carta" intesa come indicazione di una debolezza di sistema. Fdi e PD stanno impostando una fanciullesca campagna elettorale: da un lato puntando i piedi per reclamare un incarico che non sarà comunque assegnato dall'esito elettorale di un singolo partito e dall'altra riscoprendo una sorta di manicheismo ideologico dopo  essersi trastullati per anni sulla fine delle ideologie se non addirittura sulla "fine della storia". Materie estremamente delicate e importanti sembrano completamente fuori dal dibattito: industria, lavoro, informazione, stato sociale (al riguardo della sanità, ad esempio, appare completamente assente una discussione sugli esiti della regionalizzazione realizzata attraverso la tragica modifica del titolo V della Costituzione), scuola, università.
Così come appare latitante la riflessione sui temi istituzionali e sul combinato disposto legge elettorale /riduzione nel numero dei parlamentari
Ebbene alla fine questi due partiti che, almeno sulla carta, sembrano contendersi la maggioranza relativa potrebbero avere all'incirca 13.500.000 voti in due. Ciò significa che fuori dai loro rispettivi recinti starebbero più di 16.000.000 di voti validi e all'incirca più di 20.000.000 astenuti, schede bianche e schede nulle comprese verso i cittadini che stanno scegliendo questa strada non si sta rivolgendo nessuno. Un sistema politico in grave crisi per una somma di ragioni , senza rinvangare antiche storie del tempo dei partiti di massa quando i protagonisti del "bipartitismo imperfetto" assommavano  (1976) quasi 27.000.000 di voti validi su 36.700.000 espressi e un'astensione del 6% (2.400.000 diserzioni dalle urne) più 1.000.000 tra schede bianche e nulle :restiamo alle cifre senza ricordare compromesso storico, terza fase, conventio ad excludendum, democrazia bloccata poi consociativa: tutta materia di responsabilità della classe dirigente di allora, ma sistema solido fortemente ancorato alle contraddizioni sociali e alla capacità di rappresentanza;
2) Infine un avviso a chi si trova sulla soglia del 3%: serviranno più o meno 900.000 voti. Per chi ha dovuto raccogliere le firme per la presentazione è evidente che c'è stato un dato di mobilitazione militante, ma questo discorso vale anche per chi non ha dovuto sottoporsi a questa difficile prova. Il punto della soluzione dell'impervia ascesa al quorum (qualcuno tanti anni fa titolò sul raggiungimento del Karaquorum), in assenza di una sufficiente possibilità di apparizione mediatica, risiederà soprattutto nella presenza territoriale: e su questo punto si misurerà il dato di una organizzativamente insufficiente offerta politica, un elemento quest’ultimo che riguarda direttamente la sinistra e che dovrà essere affrontato nel dopo-voto. Forse si sarebbe dovuto, per tutti, riflettere meglio sulla partecipazione dal basso nella composizione delle liste.

 

domenica 28 agosto 2022

DONAZIONI
di Angelo Gaccione*

Max Hamlet
"Omaggio alla Biennale di Venezia
 
Quello delle donazioni di natura artistico-culturali (si tratti di libri, epistolari, collezioni, quadri, sculture, oggetti di valore storico, strumenti scientifici, ecc. ecc.) agli enti pubblici in Italia è un tema doloroso. Non è un caso che molte donazioni sono finite all’estero dove la sensibilità, la cura e il rispetto per il patrimonio intellettuale è mille volte più serio dell’oscena retorica del nostro Paese. Da noi ci si riempie la bocca con le parole bellezza, cultura, patrimonio storico-artistico-ambientale-paesaggistico, ma non si è capaci nemmeno di salvaguardare l’iscrizione di una targa murata sulla facciata di un palazzo. Potrei citare decine di casi di preziose collezioni donate ad enti pubblici e poi costrette ad essere ritirate dai donatori per la pessima gestione. Altre sono finite a città e Comuni diversi da quelli di pertinenza a causa della stupidità e della ignavia di amministratori e assessorati culturalmente sottozero. La vicenda del pittore e scultore Max Hamlet e dei rapporti con il Comune di Gallipoli dove è nato o quello di Parabita, non mi scandalizza affatto. È l’andazzo di un Paese alla deriva dove i governanti sono arrivati al punto di mettere in vendita pezzi di patrimonio pubblico che dovrebbero custodire, avendolo ricevuto in consegna dalla storia, come fossero di loro proprietà. E questo senza che una insurrezione popolare li impicchi sulle pubbliche piazze. Per quanto mi riguarda sono arrivato alla conclusione che è meglio dare fuoco ai propri archivi artistico-culturali, piuttosto che farne dono ai tangheri di certi gestori della Cosa Pubblica.
*scrittore  

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada

 

La piazza.


Il pastore greco aveva coniato un verbo per indicare un’azione (radunare il gregge) che faceva tutti i giorni: γείρω: raduno, convoco, metto insieme, avvalendosi di questa perifrasi: dal generare dall’andare lo scorrere, a rappresentare, nel grembo, l’addensamento (come nucleo) del flusso spermatico. Da questo verbo dedusse γορά: adunanza, assemblea popolare, piazza pubblica, mercato, tribunale, quindi: discorso. Inoltre, da γορά fu coniato γορεύω: parlo in pubblico, parlo nell’assemblea, annuncio, proclamo. L’γορά fu il cuore della città e, fra le tante funzioni, sorse come luogo di raduno dell’ecclesia, quindi come centro della vita politica, e divenne anche il luogo della vita economica (mercato), giudiziaria e religiosa. L’ecclesia, in quanto adunanza/assemblea, discende da κ-καλέω: mando a chiamare, invito, convoco, azioni, che sicuramente afferiscono a chi godeva di alcuni diritti politici (anche perché faceva parte dell’esercito cittadino), che veniva convocato, per mezzo degli araldi. Forum dei latini, che, inizialmente, significò: mercato, piazza del mercato, è di difficile decodifica, anche perché da forum fu dedotto, essenzialmente, forensis: appartenente al foro, alla piazza pubblica, che si trova nel foro. Livio utilizzò espressioni come queste: vestito forense (da portare fuori, in piazza) e fazione forense (il partito della piazza). Per questo motivo il legame di forum è, presumibilmente, con foras o con foris, con il significato di: fuori. Anche oggi, nel mio paese, che è un centro piccolissimo, come poteva essere la Roma delle origini, con l’espressione: vado fuori, si vuol dire: vado in piazza. Poi la parola è divenuta, anche e soprattutto, per lo sviluppo edilizio della piazza. Il foro originario era un luogo largo di aggregazione sociale, idoneo alle attività commerciali: forum boarium, forum holitorium (mercato delle erbe), il mercato del pesce (forum piscarium) ecc. Altri possibili significati potrebbero rimandare ad una perifrasi di questo tipo: è ciò che faccio dopo che ho finito il mio lavoro. Infine, potrebbe collegarsi ad un verbo conosciuto dai latini: φορ-έω: porto, trasporto, mostro, ad indicare il luogo dove si porta quanto sopravanza della pastorizia e dell’agricoltura. Anche a Roma, inoltre, come nelle città della Grecia, il foro era il luogo delle assemblee e dei comizi. Incidentalmente, si ricorda che dalla radice φορ, da tradurre: quando nasce lo scorrere, furono dedotti: fors (sorte), fortuna, fortis, fornix (volta) con il significato anche di bordello, da cui, poi, fornicare, furnus/fornus e, nel mio dialetto, furis’ (forese), che, nelle masserie, erano gli uomini che trasportavano, addetti alle più dure fatiche.

La parola comizio è un deverbale di comitor comitaris: unirsi come compagno, accompagnare, da cui furono dedotte le aggregazioni sociopolitiche del mondo latino. Da comitor fu dedotto il deverbale comitatus comitatus: accompagnamento, scorta, séguito, mentre oggi ha acquisito il significato di raggruppamento per.



Le aggregazioni sociali, invece, presero il nome di classis, il cui significato, nel tempo, è divenuto, ma che, inizialmente, fu collegata a: καλ-έω (per metatesi: kla/κλα): chiamo, convoco e a: (klesis) κλσις: chiamata, invito, convocazione di cittadini, ripartizione per classi. Infatti, come da κλσις fu dedotta ecclesia ad indicare adunanza, così i latini da καλέω ricavarono classe per indicare i convocati appartenenti allo stesso anno di nascita (esercito o scuola), mentre, successivamente, con classe indicarono quelli che avevano lo stesso censo. Nel linguaggio militare indicò: esercito e flotta; quindi, da classis fu dedotto classico, ciò che attiene all’esercito, ma anche cittadino della prima classe, mentre Gellio parlò di classicus scriptor: di prim’ordine, esemplare.
Gli italici coniarono piazza, parola dedotta da (plethos) πλθος, in dorico: (plathos) πλθος, con i significati: moltitudine, folla, plebe, anche: assemblea popolare. Da plethos furono dedotti: pletora e pletorico. I filologi fanno discendere piazza dal latino platea: strada larga/slargo/piazza, a sua volta dedotta dall’aggettivo (platùs/plateia) πλατύς/πλατεα: largo, ampio, che, diventando sostantivo, si traduce anche piazza. Personalmente, propendo per un dedotto dα πλθος, sia perché il collegamento è più plausibile (la piazza si addice alla moltitudine), sia perché non solo la cultura latina, ma anche quella italica adottarono parole di origine dorica: μάτηρ al posto di μήτηρ, στάμων: stame, trama, ordito, al posto di στήμων, per formare stamen staminis, σμα, al posto di σμα: segno (del grembo), per dedurre eksamen/examen: esame, nel senso di ciò che si esamina. Bisogna anche dire che i latini utilizzarono anche σμα per formulare: eksemplum/ exemplum o semper.



La piazza, come l’agorà e il foro, è il luogo del popolo, in altri termini dei prestatori d’opera, perché questo è il significato di demos [dem si può rendere: dal legare (qui per indicare: faticare per produrre) il rimanere], di popolo e di plebe. La piazza fu il luogo in cui il prestatore d’opera era in attesa di una chiamata. In greco per indicare moltitudine, massa, turba disordinata si adottò anche la parola (ochlos) χλος, che il Rocci indica come calco di vulgus, a seguito di questa metatesi: (ϝolchos con oscuramento dell’omicron) ϝόλχος e della trasformazione dei suoni. La massa del popolo è stata spesso contraddistinta per la mutevolezza degli umori e per le grandi confusioni, che i latini definirono turba: confusione, schiamazzo, tumulto, folla, calca, parola da collegare a (tyrbé) τυρβή: confusione, trambusto, tumulto. Le folle sono state sempre manipolate, nel corso della storia, dai tanti demagoghi o tribuni di turno.
L’agorà, il foro, la piazza, oltre alle funzioni sin qui dette, furono il cuore degli scambi commerciali e delle compravendite. Il pastore e il contadino nelle epoche primordiali socializzarono, mettendo tante cose in comune sia con lo scambio di prestazioni di lavoro sia con il baratto di beni.
Con λλάσσω: muto, cambio, prendo in cambio, baratto e dai dedotti di questo verbo come: νταλλαγή: scambio, i greci indicarono non solo lo scambio di merci eccedenti, ma, inizialmente, anche di prestazioni d’opera. Si ricorda che nel mio paese c’è una sorta di istituto socioeconomico denominato “a ritenn‘ “, di cui ho parlato nel testo: “Alla ricerca della genesi delle parole “.



I greci avevano espresso questo modo di socializzare anche con il verbo μείβω: do in cambio, prendo in cambio, da cui l’aggettivo: μοιβαος: scambievole, mentre i latini coniarono reciproco e da muto mutas dedussero non solo commutatio, ma soprattutto l’aggettivo mutuo. Molti lavori, molte realizzazioni furono e sono possibili con il concorso (reciproco/mutuo) di tanti.  Per quanto riguarda la parola della lingua italiana: baratto, bisogna dire che sicuramente fu ideata con una delle immagini del divenire del grembo materno: la crescita iniziale del flusso gravidico per ottenere la formazione dell’essere. Nel mio dialetto si usa solamente il verbo “varattare (barattare)” ad indicare il dispensare (per sovrabbondanza), a seguito dell’inseminazione, che rappresenta il mancare.
Inizialmente, Il concetto di vendita fu mutuato da una metafora del grembo, da ciò che si deduce dalla primigenia crescita: πιπράθκω/πιπράσκω: vendo, poi: πρσις: vendita. Anche i latini si avvalsero della stessa immagine per coniare vendo/ venditum: è ciò che si fa dentro il concetto di accumulo, che per il pastore è il legare. Da sottolineare che gli italici dedussero da vend: vendico e vendetta, che rimanda a chi si lega le angherie, a chi non dimentica i torti subiti.
I greci dedussero il commercio da πόρος: passaggio (per cui in italiano usiamo la parola: i pori), coniando emporio, termine usato anche nella lingua latina. Questo legame di poros con emporio si spiega, presumibilmente, con le merci di passaggio nei vari porti della Grecia.
I latini per indicare la compravendita inventarono il verbo deponente: mercor mercaris, mercatus sum, mercari: compro, acquisto. Da chi ha comperato furono dedotti: mercatus, mercato, mentre, inizialmente, con mercantes si indicarono gli acquirenti. Da mercor fu dedotta merx mercis, a voler dire che l’accumulo di un bene, oltre quello che serve o può servire, determina l’alienazione. Da merce derivarono mercede come ricompensa (in merce), mercenario, gli italici mercimonio (per i latini: mercatus turpissimus) e mercè, nel senso di: per grazia, in quanto quel legare che genera il mancare di ciò che acquisto rimanda ad un parto difficile, risoltosi, miracolosamente, bene.



Voglio ribadire una considerazione di carattere generale di formazione delle parole: la desinenza di una parola contribuisce a determinare il significato, per cui nel mio dialetto: merco/mirco (genera il legare il mancare il rimanere) indica una cicatrice profonda deturpante, per cui in alcuni casi si usa il verbo smircare/smercare, nel senso proprio di: sfregiare in modo permanente. Tanto per restare in questo tema, nel mio dialetto, la cicatrice viene denominata: cesa, da ricollegare a: caedo/caesum: taglio, ad indicare quel che resta ad uno che si è tagliato, mentre altri ricavarono cesoie.
Se c’è chi vende, c’è anche chi compera. Greci, latini e italici videro nella nascita della creatura ciò che si compera. Nel mio dialetto ai piccoli si dice: i nati si comprano (s’accatt’n’). I greci, infatti, si erano avvalsi, e non solo, di κτάομαι, metafora della nascita e dell’attività del pastore, traducendo: acquisto, mi procuro, guadagno, posseggo. Dato per certo che accattare del dialetto è da collegare a κτάομαι, c’è il verbo latino capio/captum (prendo/preso), che, verosimilmente, ha dato luogo a: d’accatto, accattone, cattura, accattivare, cattività, incattivire. Inoltre, dedussero compero da πρίαμαι attraverso questa perifrasi: è ciò che si genera per me il far lo scorrere dal rimanere (che è: il nascere). Tanto ho citato perché, nel mio dialetto, c’è il verbo priarsi, che è un gioire dal profondo, per quanto di buono accade, in primis: la nascita. I latini si avvalsero di πρίαμαι, deducendo: pro-πριius: proprio (mio personale), proprie: propriamente, in modo appropriato, da cui furono ricavati: proprietà e proprietario.
I latini assegnarono a emo il significato di: compero, acquisto da questa brevissima perifrasi: è ciò che faccio dal rimanere, che può essere la nascita o anche ciò che mi rimane, nel senso che diventa mio. Poi da emo si ebbe: red-imo/red-emptum. Infine, gli italici coniarono compero, che, parimenti, è la creatura che nasce.

 

RISTAMPE
di Federico Migliorati
 

Leonardo Sciascia

Torna in libreria il volume di Onofri su Sciascia.


Era il 1994 quando il giovane e poco più che trentenne critico letterario Massimo Onofri dava alle stampe per le edizioni Laterza quella Storia di Sciascia che metteva in risalto l’acume e la profondità di analisi su uno dei massimi scrittori dell’epoca contemporanea tale da assurgere a canone indiscusso. Un volume che ha segnato una tappa importante nella conoscenza dell’intellettuale siciliano, ma che ha rappresentato anche un’ottima base di partenza per ulteriori ricerche e approfondimenti se è vero che, come afferma lo stesso autore del saggio, “proprio il destino di ogni critico letterario, se ha lavorato bene, è quello di essere superato”. Da qualche mese Inschibboleth, attivissima casa editrice romana, ha congedato in libreria la ristampa dell’opera (358 pagine, 24 euro) che mantiene, nonostante i quasi 30 anni di distanza dalla prima edizione, una freschezza e un’attualità invidiabili. Merito, questo, di quelle suggestioni che si rintracciano qua e là nel volume, forme, metodi e sistemi mutuati dalla grande tradizione della critica che fu di De Sanctis, Borgese e Debenedetti. La vita e l’opera letteraria di Sciascia finiscono anche filologicamente sotto la lente di ingrandimento assumendo un valore ben più rotondo e ampio rispetto a quello fino ad allora consegnato alla conoscenza dei più. L’autore del Il giorno della civetta subisce una metamorfosi nel corso della sua produzione: il suo esordio lo vede convinto assertore della scrittura e della filosofia di Pirandello, verso quell’immagine di Sicilia “non libera, non giusta, non razionale”, ma dal Premio Nobel se ne distaccherà  fino a ripudiarlo in breve tempo (salvo riavvicinarlo a più riprese in là con gli anni) in nome di Vitaliano Brancati, altro nome prestigioso del Novecento in Trinacria, autore più solitario, antidannunziano ad onta degli esordi giovanili, fieramente antifascista. Cresciuto studiando Borges, Savinio, Trompeo e Cecchi, Sciascia affronta fin da giovane quel Potere di cui sviscererà soprattutto i connotati metastorici più che storici, all’insegna di una controstoria d’Italia di cui divenne l’indiscusso, rigoroso campione. È un finissimo narratore e romanziere, complesso e poliedrico, ci spiega Onofri che penetra nel linguaggio e nello stile sciasciano per riemergere conducendoci nei risvolti della sua scrittura e senza mai perdere di vista i fatti salienti dell’esistenza: scetticismo, pessimismo, laica religiosità sono i tratti distintivi dello Sciascia maturo, quello che riuscirà a dividere letterari e politici sulla sue prese di posizione e gli scritti riguardanti in particolare la mafia, su cui discettava due anni prima della nascita della ben nota commissione parlamentare antimafia. Come dimenticare quel 1971 quando preconizzò il futuro “compromesso storico” tra Dc e Pci, fulcro di una gestione del potere che non gli risparmiò, con l’affaire Moro, feroci e virulente critiche anche dal mondo intellettuale per la spietata, realistica analisi di quei drammatici 55 giorni, delle cause e delle conseguenze prodotte. 


La copertina del libro

Ma parlare dell’autore di capolavori come A ciascuno il suo e Todo modo significa ripercorrere anche quel filone del romanzo giallo e poliziesco su cui più volte Onofri (l’ultima occasione è stata un editoriale apparso su Avvenire pochi giorni fa con susseguenti discussioni social) ha avuto modo di sentenziarne la fine dopo Durrenmatt e Sciascia. Proprio quest’ultimo sosteneva in tempi non sospetti di ravvisare in questo genere “la zona più interessante, quella che riserva le sorprese più autentiche”. In lui c’era l’attenzione e quasi l’ossessione di ricercare un proprio riconoscibile stile nella scrittura, quell’aria della canzone, direbbe Proust. Il critico viterbese con la perizia che gli è congeniale intesse un lavoro di cesello, spostandosi costantemente dallo studio delle fonti, dalle testimonianze alle tappe del percorso di scrittore al contesto sociale, familiare e amicale di Sciascia fornendo in tal modo una visione completa di colui che Calvino, con estrema lucidità, definì nel 1964 un “moralista civile” invidiandogli l’assenza di “follia, di mito, di demoni”. Pagine illuminanti per comprendere il retroterra e il sostrato di diversi suoi lavori sono quelle che richiamano suggestioni e atteggiamenti tipici dello scrittore: “Una grande cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici; l’insicurezza come ‘componente primaria della storia siciliana’ per le continue invasioni dal mare, radice di ‘paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo’; una specie di follia che tale insicurezza e vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità e ancora una vocazione al separatismo e all’indipendenza che, dando vita nei secoli a privilegi e franchigie, ha generato quella ‘coscienza giuridica astratta e involuta’ che è alla base di quelle ‘facoltà causidiche e sofistiche’ che già Cicerone attribuiva ai siciliani”. Vita e letteratura che si incastrano, si incrociano, si toccano ed ecco emergere, nel periodo di una temperie politiche che vede il racalmutese candidato tra gli anni Settanta e Ottanta prima con il Pci come indipendente e in seguito con i Radicali e in cui si innesta l’uscita del volume sulla “Scomparsa di Majorana”: anche in questo caso l’autore sarà vittima delle feroci invettive e contumelie che una parte della comunità scientifica gli rivolgerà per le sue posizioni, prodromo di ciò che dovrà affrontare negli ultimi anni di vita sulla questione Borsellino. Il Potere, quello da lui combattuto, sviscerato, analizzato e narrato nei suoi più intimi connotati, non perde occasione per manifestare la sua virulenza. Serve allora ritornare alla breve prefazione dello stesso Onofri del volume in oggetto laddove, richiamando padri e fonti nobili di Sciascia, egli afferma di vedere in lui un illustre scrittore, ma altresì “un uomo giusto e moralmente grandissimo”. È questo ritratto, intriso di virtù e di contraddizioni, di luci e di ombre, di contraddizioni e di pregi, di disagi esistenziali e di rigore etico, ma sempre e comunque di indubbio fascino culturale che il critico letterario intende affidare alle giovani generazioni, “sicuro che si tratti d’un atto non solo di civiltà, ma anche di bontà, perché di bontà abbiamo molto bisogno in tempi cupissimi come i nostri, in cui la bontà è irrisa da maestri di nulla, del nulla”.

sabato 27 agosto 2022

IL PENSIERO DEL GIORNO



“Quando la sinistra imita la destra
la gente sceglie quella originale”.
Arsenico

L’EGEMONIA DEL DOLLARO

 
Come può un paese che ha un debito pubblico superiore al 120% del PIL; che avrà quest’anno un deficit di bilancio intorno al 5% del PIL (era il 10% nel 2021, e il 15% nel 2020); che da decenni ha la bilancia dei pagamenti in rosso per importi che stanno a cavallo del 3% del PIL; e che per questo ha accumulato una posizione debitoria verso l’estero pari al 70% del PIL, godere di una moneta egemone che consente di finanziarsi a condizioni molto favorevoli sui mercati internazionali, e in parte addirittura “a gratis” con l’emissione di banconote (l’estero ne possiede per 1.000 miliardi)? Il mistero lo spiega brillantemente Thomas Palley, un economista consapevole dei limiti della propria disciplina. I motivi sono prevalentemente politici: l’egemonia del dollaro si spiega con l’egemonia politico-militare degli Stati Uniti, della quale essa è al tempo stesso un pilastro. C’è infatti un rapporto biunivoco tra potenza politico-militare e potenza finanziaria: l’una sostiene l’altra. L’autore scrive che però non è sempre stato così: per trent’anni, dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta, l’egemonia del dollaro aveva solide basi economiche. Poi, dopo la crisi degli anni ’70, il dollaro è improvvisamente risorto: uno dei protagonisti di questo miracolo è stato Volcker che abbattendo l’inflazione con una politica monetaria restrittiva ha ristabilito le condizioni minime di solidità della moneta – detto per inciso, le preoccupazioni che l’inflazione suscita oggi negli ambienti della Federal Reserve riflettono quelle di allora, ovvero il timore di perdere l’esorbitante privilegio del dollaro. Ma Volcker è stato co-protagonista anche di un’altra svolta, quella che ha portato a identificare gli interessi del paese con quelli di una classe – Palley la chiama la svolta neoliberista. È una classe transnazionale che ha in Wall Street il tempio della liquidità dove celebrare successi e insuccessi. Gli interessi di classe spiegano certamente più dell'efficienza dei mercati finanziari americani l’egemonia del dollaro; la sostanza del fenomeno resta tuttavia quella della sottomissione di una larga parte del resto del mondo al volere di Washington – l’esorbitante privilegio del dollaro è insomma l’equivalente contemporaneo del tributo feudale.
 
[Franco Continolo]

 

 

 

A TUTTO GAS…

Draghi ai fornelli...
 
Rimini. L’applauso di circa due ore tributato all’ex presidente del consiglio Mario Draghi dalla platea di Comunione e Ibernazione al Convegno di Rimini ha impedito al “migliore” di chiudere il suo intervento con il passaggio a cui teneva molto. “Odissea” ne è venuto in possesso per i suoi lettori e, come si può vedere, ne valeva la pena.



Cari concittadini, permettetemi di chiudere questa prolusione con un fraterno suggerimento. La grave crisi economica alimentata soprattutto da speculatori di ogni sorta e ai quali il mio Governo ha lasciato campo libero - ma, del resto, il motto del liberismo economico si fonda sul “laissez faire” -, in autunno procurerà molti suicidi. Come sapete, la situazione energetica è alquanto critica, ragion per cui chiedo a tutti voi un gesto di grande responsabilità patriottica. Non ricorrete per nessuna ragione al gas, non dobbiamo sprecarne un decimo di metro cubo. Usate qualsiasi altro componente e metodo per togliervi la vita (tritolo, nitroglicerina, polvere da sparo, topicida, forca, barbiturici, metropolitana e qualunque altro la vostra fantasia vi suggerirà), ma per l’amor di Dio, non ricorrete al gas. Ora potete applaudire. Grazie”.
[Arsenico]