Le formule sono
inessenziali al problema della pace. Leggoconattenzione l’intervista adAgnoletto su “Odissea” di lunedì 12 settembre 2022 [https://libertariam.blogspot.com/2022/09/le-voci-della-ragione-vittorio.html]durantequestoennesimoperiodo di guerra che rievocain mel’immagine
diquando nei paesi,alloscoppio
dellaPrima guerra mondiale,la gentepiangevaperchésentiva lacatastrofe; il pianto rimandava al senso della fragilità umana
che la guerraminava. Oramai da
lustri nei paesi la vita sociale è uniformeal
liberismoproduttivo della città che
distoglie, edulcora oppure cancella il senso dellatragedia che ogni guerra, anche in chiave economica, comporta.
Vivendo inuna piccola frazione
collinare di un paese del fiorentino sento molto questauniformenormalizzazione.Sel’artedelladialetticapoliticaesisteancora,questaècontraddistintadalmovimentoconcuiposizioniantitetiche nonsianogelosamentedifesemaeserciziodimessaindiscussionedelleloroproposizioni in vista di un’utilità per la
formazione del pensiero. Da questopresuppostovorreicominciarecoldirechelapersonalecondivisionedeicontenuti espressi nell’intervento di
Agnoletto è piena, lo è meno riguardoall’articolazione
di alcuni tra questi concetti: articolare, nella prospettiva cheintendo qui offrire, riguarda il modo di
rendere il discorso meno divulgativo,meno
occluso.
Mi riferisco in particolare
all’assoluta importanza (sulla qualequestocontributovuolsoffermarsi)diusciredaognitrattatoeogniorganizzazione internazionaleche abbiano (ancora!) la guerra come mezzo ela pace come fine. Invero questa correlazione, determinata storicamente,
hadalla sua la forza legittimante di
tutto l’ordine sociale per renderla “normale”,conducendoci - questo è l’unico dato empirico - a vivere appesi ad un
baratrodalqualeparenonvisiauscita.Chelapacesiaunproblema,difficile,composito, conflittuale, dialettico, contraddittorio financo
ambiguo e spessoretoricoèquestionechetalvoltasidimentica:scivolandosuquellabucciadi banana che indica la prassi gandhiana come bacchetta magica.
Gandhi, la sualotta etico-politica
diventano precetti e formule buone da esportare ovunque,frutto solo di de-storicizzazione. Troppo spesso il pacifismo si
apparenta alproselitismo del più
bieco opportunismo, un sociologismo fine a sé stesso, inquantolaquestione,inmediasres-chelapacesiailproblemapereccellenza -questotipodiatteggiamentonon loponeaffatto.Sealloralapace
èilproblema occorre rigorosamente porlo innanzitutto, non risolverlo. È
perciòuna questione di metodo
correlato al modo di articolarlo col fine di acquisireunabitomentalecapacedipensarelecondizioni,lecaratteristicheeledeterminazioni con le quali il problema
della pace si ponga scientificamenteallastreguadialtriproblemiteoreticiepratici.Poichéilrischio, almeno secondo la mia
sensibilità, è che l’analisi di Agnoletto, e la sua conseguentepratica politica, si chiudano in una sorta
di lista delle ricette: “per costruire lapaceènecessariousciredai
trattatidi proliferazionediqualsiasiarma sitratti”. È apodittico. Ma non pone il problema della pace come teoria e
prassiquotidianechesipossanorivolgereall’uomoinmododaindurloaripensare lacoscienza(diclasse)comeattocritico,autoriflessivo,emancipantecheabbisognadiformazione,dipazienza,disobrietà.Comenonvienepostoadeguatamente ilproblemadell’organizzazione
storica epolitica dello statonel quale ogni governo opera in un certo
modo, entro determinati rapporti diforza.Denunciarel’endemicasudditanzadeivarigoverninazionalièimportante ma rischia di occultare
l’elemento cardine che non è del governoma
dello stato: la sicurezza.
Il concetto di sicurezza appartiene ad una dataorganizzazione culturale ed etica dello
stato, rappresenta appieno la logica del suo
essere nazione. Se una nazione, infatti,
pone la propria esistenza comeobiettivo
della vittoria, può voler ottenere come frutto della vittoria solo lagaranziadellapropriasicurezza;cosachesembrainnocente,machesignifica in realtà l’eliminazione del pericolo
che l’ha condotta alla guerra;ora,
questo pericolo è un’altra nazione, o diverse altre nazioni (S. Weil, Sullaguerra,p.98).Senontocchiamoquestitastirimaniamoingabbiati nella retoricadelladomandapercuisenoncisarannopiùarmiin giroautomaticamente accadrà la pace? Se si
lascia ancora taciuto il problema diporre
la pace- rinunziando inoltre a
demistificarel’apparato simbolico elinguistico con cui la sicurezza è
sinonimo di vita “pacifica e normale” - essadiventapurotecnicismo,avulsadallarealtà;robachesirimbalzanogliintellettuali,
i tecnici, i politici di carriera e i loro governi e che ancora unavoltavienesottrattodallemanidellacollettivitàedegliindividuichelacompongono.Chedovrebberoessereiprotagonististoricidinuoviecoraggiosimodidipensarelerelazionisociali,quindilostato.Èquestoche vorrei indicare attraverso il senso di queste righe.
Riportare la pace in quantoproblema
significa restituirlo all’ambiente storico-sociale da cui esso è statocancellato affinché qualcuno ce lo risolva
o ci fornisca quei metodi o queimezzi
ai qualisolo in misura ridotta(o mancante)una collettività vi si èdavvero
impegnata. La lotta di classe, pur nelle sue necessarie differenziazioni attualirispettoalpassatoenellasuasempiternalottapernondiventaredogma, non può rinascere sotto queste
condizioni. Operare invece in questomodo
ripropone il problema della pace come capacità e volontà quotidiane incuiognunoècoinvoltoinprimapersona;coinvolgimentochedovrebbegiungere a esprimersi, come atto politico, in forme di organizzazione in
cui ildissensoeilconsensosianoorganizzati(cfr.Gramsci)ononsiano;non siano, ad esempio, esperiti con un voto
già morto dato per un “dovere” civicoma
rappresentino invece ilnerbo stesso
della ricerca sistemicaper una unitàdi
intenti edi intelligenze.
E dell’innegabilee ineliminabilefaticadi lungalena di cui questa ricerca è intrisa; un consenso così conquistato e
maturato,dove la pace sia oggetto di
riflessione pratica quotidiana, rivela inoltre che lequalitàcivicheemorali-cheoggivengonosoloimpostetramiteun’educazione repressiva e normalizzatrice - nella loro essenza devono
esserepartorite solo nella libertà
che è autodisciplina. Se la pace continua a nonessere posta come il problema, offrire soluzioni (mi verrebbe da
dire verticistici sia detto con
rispetto senza eccessiva polemica…) diventa esso stesso parte del problema, elemento di confusione che
non fa altro che fare lievitare lamatassainestricabiledicuiilcollassoattualesinutreperproliferareegenerare
angoscia, paura, rabbia, morte. Certo è che la pace non è un blandomedicamento,unplacebo.Alloraoccorreneutralizzarequell’ilotismointellettuale(cfr.Gramsci)chetantocaratterizzairapportisociali di classe che governano la vita
culturale. Se davvero il problema dellapace
lo si vuol porre, ciò deve avvenire a fianco di quello della formazionecriticaeintellettuale(noeticainsensoaristotelico)dell’individuo(acuinessunoguardapiù,tantomenolascuolacheèluogostoricodellariproduzione sociale del dominio, cfr.
Bourdieu). Individuo che non viene piùvistocomeoggetto-pedinadiconsenso(Ilsoggettodellenorme,cfr.P.Macheray)diinteressieterogeneimasiformaevieneaiutatoinquesto,secondotuttiqueimodichenerispettinol’individualità,lepropensioninaturali,gliistintitantoquantoleformeeducativeconcuiraffrenarli,correggerli
e superarli. Se non è eccessivamente pleonastico, asseverare che lapacenonèassurtaaproblemaèperchél’uomononègiuntoadessere problemaaséstesso.Lapacecomericettacoloèspurioviaticocheservea mantenereinalteratigliequilibridiunsistemaditerroretramitelinguaggi chenedissimulanoleveritànocive.