Il
salario del nostro scontento. Èufficiale. Abbiamo raggiunto un record di cui avremmo fatto volentieri a meno.
L’inflazione a ottobre è all’11,8%, bisogna tornare al 1984 per trovare un
simile livello. A settembre era all’8,9%, quindi è aumentata di tre punti in un
mese, non succedeva dal 1954. Ma per il mondo del lavoro, delle pensioni e del
non lavoro l’inflazione reale è ancora più alta poiché si abbatte su consumi
essenziali incomprimibili. Il dato italiano è tra i peggiori in Europa. E il pensiero
corre, o dovrebbe, a chi vive di reddito fisso e assiste alla sua riduzione
senza strumenti di difesa. Già i salari italiani in trent’anni erano diminuiti
del 2,9%. Ma ora la prospettiva è ancora peggiore. È chiaro che, sic stantibus rebus, già l’inflazione acquisita
per l’anno in corso, non meno dell’8%, non potrà essere recuperata dalla
contrattazione sindacale. Come
se non bastasse il governatore di Bankitalia ammonisce che non è possibile
alzare i salari, timoroso dell’innescarsi della spirale con i prezzi. Ma il
paragone con gli anni Settanta non regge da nessun punto di vista, non ultimo
il fatto che le cause della violenta spinta inflazionistica sono in grande
parte legate alla guerra in corso in Europa e alle sue conseguenze sui prezzi,
a cominciare dall’energia. In più la Bce nel suo rapporto di novembre stima
probabile una recessione tra l’ultimo trimestre di quest’anno e il primo di
quello prossimo. E non è detto che si fermi lì. La stagflazione – questa sì ci
ricorda gli anni Settanta – è tornata: ovvero la presenza congiunta di
inflazione e di recessione. Quando se ne parlava su queste pagine, più d’uno
sosteneva altrove che era una previsione fuori dal mondo. Purtroppo avevamo
ragione. Ed ha ancor più ragione da vendere Landini, quando afferma che i bonus
sono pannicelli neppure troppo caldi e che i fringe benefit e la detassazione del salario di produttività sono
armi spuntate in partenza, dal momento che la contrattazione aziendale riguarda
solo il 20% dei lavoratori e tra i leitmotiv
delle analisi economiche sulla crisi italiana compare sempre lo scarso aumento
di produttività, che peraltro non andrebbe riferita al lavoro ma al sistema in
generale. Fermo restando che anche il sindacato dovrebbe rivolgersi qualche
domanda su come mai si sia lasciato sfuggire di mano quella potestà salariale
che orgogliosamente rivendica quando invece si propone – come sarebbe giusto e
necessario – l’introduzione per legge di un salario minimo indicizzato
all’aumento dell’inflazione.
Il
segretario della Cgil chiede ora giustamente, di fronte alla drammatica
emergenza salariale e al crollo del potere d’acquisto dei pensionati e dei
precari, di usare lo strumento fiscale. Ma a parte che questo non dovrebbe
sostituire l’apertura di un fronte di lotta per gli aumenti retributivi, (in
Germania l’IgMetall minaccia lo sciopero per ottenere l’aumento dell’8% dei
salari) non può sfuggire ad alcuno che il governo si muove in tutt’altra
direzione. Mentre il decreto “aiuti quater” si preoccupa di autorizzare le
trivellazioni tra le 9 e le 12 miglia dalla costa o di aumentare il tetto del
contante a 5mila euro, esponenti governativi corrono in soccorso della
Confindustria, promettendo che il taglio del cuneo fiscale andrà almeno per un
terzo a loro vantaggio, anziché interamente per alleviare la crisi dei salari
reali. Mentre si prevede che la tassazione degli extraprofitti delle imprese
energetiche si fermi al 33%, quando vista la natura di quei guadagni tassarli
almeno al 90% sarebbe una misura di normale equità. Ma
il governo non sembra limitarsi a questo. La tassazione forfettaria del 15% si
allargherebbe a circa due milioni di partite Iva, portando il limite da 65mila
a 85mila euro, ampliando quindi quel tax
gap, messo in rilievo da una corposa relazione di esperti, che porta ad
un’ulteriore riduzione delle entrate fiscali. A ciò possiamo aggiungere
l’intenzione di riaprire il condono per i capitali fuggiti illegalmente
all’estero (la chiamano voluntary
disclosure per confondere le acque). Se non bastasse il governo Meloni ha
in testa di istituire un flat tax “incrementale”
per gli autonomi, per cui i guadagni superiori al migliore degli ultimi tre
anni, godrebbero di una tassa al 15%. Due ingiustizie (e violazione dei
principi costituzionali) in una: chi guadagna di più pagherebbe meno tasse e
tra due cittadini a pari reddito risparmierebbe chi lo ha maggiormente incrementato
nell’ultimo anno. Ci
si augura che l’opposizione parlamentare faccia la sua lotta fino in fondo. Ma
nelle condizioni in cui si trova il parlamento questa non basterebbe in ogni
caso. C’è urgente bisogno che lo scossone parta dai luoghi di lavoro, dalle
scuole, dalle piazze, quindi dell’apertura di un largo conflitto sociale. Fino a
programmare uno sciopero generale.