LA
“CARTOGRAFIA AUDACE DELLE ALLODOLE” di
Gabriella Galzio
Nel tentare un approfondimento della scrittura di Claudio
Zanini, occorre sempre tener presente che in questo autore convergono più anime
espressive: la poesia, il romanzo e le arti visive; e che in tutte e tre si
agita uno spirito filosofico e scientifico inquieto. In questo libro di poesia
in particolare - Ansiose geometrie - si va dalla teoria della curvatura
spazio-tempo alla fisica quantistica, dalle geometrie non euclidee
all’aritmetica dell’infinito, sempre nella percezione del carattere illusorio
di ogni apparente conquista (“illudersi”, “illusorio”, “enigma” essendo –
insieme a “pensiero” – parole chiave del lessico ricorrente del libro).
Intanto il titolo reca l’impronta ossimorica che permea tutta la raccolta,
laddove all’ossimoro (figura della poesia) corrisponde il principio di
contraddizione (figura della filosofia). Quindi siamo catapultati tra aporie,
antinomie, enigmi, teoremi irrisolti – finito-infinito, visibile-invisibile,
apparire-essere – e se il pensiero è lucido per il filosofo che osserva il
confine con la mente, l’ansia dell’oltre è del poeta che quel confine abita con
tutto il suo sé emozionato, laddove “ci si chiede se sia veramente/ esangue la
geometria delle figure, / ed incorporea la sostanza loro”. E sono ansiose le
sue geometrie poiché il poeta si pone sulla “soglia di un altrove/ informulato
laddove naufraga il pensiero”. Come non sentire in questo naufragio lo stesso
vago infinito di Leopardi, come in questi due versi: “dolce è tuttavia sostare
laddove il confine è vago/ sommersi dall’onda temporale che trascorre.”
L’altro grande immaginario poetico è certamente Borges, con i suoi labirinti e
realtà parallele e la biblioteca infinita tra verità e finzione, immaginario
borgesiano che informa anche la narrativa di Zanini e i suoi enigmi. E anche in
poesia assistiamo alla comparsa di personae – il cartografo valente, il
matematico, il chierico geometra, il calligrafo di vaglia – che nella narrativa
si svilupperebbero in veri e propri personaggi.
Ma prima ancora predomina il pensiero che parla in terza persona al tempo
presente della registrazione oggettiva dei fenomeni; cui si accompagna una
lingua caratterizzata da limpidezza di comunicazione che si addice al nitore
filosofico quasi incline all’aforisma. Se dunque oscuro, ignoto ed enigmatico
appare il volto invisibile del reale, chiari sono i versi che illuminano il
mondo degli oggetti. Non c’è posto per l’io in questi versi, le cui ansie
vengono proiettate proprio sugli oggetti, così “ansiose geometrie” o
“tenerissime aporie” o misteriosi “occhiali smessi” che continuano a guardare
prendendo ad animarsi come creature che sfuggano al loro creatore e a lui si
ribellino come i triangoli che si vendicano e feriscono un supporto cartaceo
indifeso, o come i numeri detti irrazionali poiché “dediti ai turbamenti della
passione”.
Nella sfida del perturbante alla chiarezza razionale c’è tutta l’ansia del
poeta che ora tenta di opporre un baluardo all’eccessiva vastità, ora ne è
pericolosamente attratto, tentato a evadere da quella “miope strategia di
reclusione”. E questa tensione tra il bisogno di contenimento razionale e
l’insofferenza di spezzarne i vincoli è palpabile, tanto in poesia (si legga a
p. 27), quanto nei romanzi, dove si fronteggiano luoghi chiusi come istituzioni
totali e spirito di rivolta (v. La carrozza n. 7 dove la questione del
potere è centrale).
Quanto all’abitudine alla perfezione in Zanini è dunque un’abitudine inquieta,
contrastata, combattuta, poiché all’”aurea perfezione” egli preferisce “un’aura
stupefatta”. E che la bellezza non risieda tanto nella perfezione delle forme,
ma che “il giardino più bello è l’incompiuto”, trova riscontro anche nel finale
dei romanzi che ci consegnano a un senso di apertura. Così in Ansiose
geometrie il poeta si affida alla “cartografia audace delle allodole: /
alla misura irridente del loro canto. Un canto, quello di Zanini, retto da assonanze e
rime interne, in una versificazione libera di versi più lunghi che brevi, più
intenta a seguire le volute del pensiero che non una metrica regolare. E caso
mai incline all’inversione sintattica (p.es. del soggetto “Folgorante appare
l’intuizione del geometra” oppure “nell’artificio illusorio della luce,
varco”).
Ma forse tra parallele, triangoli, quadrangoli e numeri irrazionali merita
infine un’attenzione particolare l’ambivalenza che l’autore riserva al tempo:
perché da un lato “il tempo non è percorso lineare, ma/ forse ritorna, come il
volgersi dell’onda/ che di sé ribagna lo stesso lido,/ si ritrae e, quindi,
fluisce nuovamente”, consegnando il tempo, e noi con esso, alla speranza in un’eterna
rinascita; ma dall’altro il tempo “non può volgendosi ritrarsi e/ guardando
indietro prova nostalgia e dolore”. Ed è in questo umanizzarsi del tempo che,
dopo un’intera testimonianza in terza persona, l’ultimo verso del libro si
chiude con un “noi”, accomunati in un destino ineluttabile: “Noi siamo figli
suoi e lui, Crono, avido ci divora.”