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sabato 31 dicembre 2022

BANCHIERE, A CHE PUNTO È LA NOTTE?  
di Alfonso Gianni 


 
Parafrasando il celebre testo biblico potremmo chiedere “Banchiere, a che punto è la notte?”, ma rischieremmo di ricevere la stessa risposta che la sentinella nel sacro testo fornisce al suo angosciato interlocutore: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; tornate e interrogate ancora”. Il fatto che in queste settimane compaiano libri e testi teatrali - tra gli altri un saggio di critica della geopolitica di Isidoro Mortellaro e una pièce teatrale scritta e interpretata da Nichi Vendola - che fanno, ognuno per suo conto, riferimento a questo interrogativo senza risposta, ci dà, forse più di ogni altra cosa, la dimensione nella quale viviamo. La cifra dell’anno che verrà, non solo dal punto di vista economico di cui principalmente qui ci si occupa, è segnata da un’elevata incertezza. Non è una novità assoluta. In effetti più di cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che “la differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza attribuita all’incertezza”, includendo nell’economia neoclassica anche il tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con un famoso articolo di John Hicks del 1937. Ma è indubbio che “l’economia del disastro”, per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi l’intervallo fra una crisi e l’altra. Secondo alcuni economisti (ad esempio Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, “saranno visti come un periodo di instabilità unico nella nostra storia moderna”. 



Previsione azzardata, proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso. Se guardiamo alla guerra, l’esile fiammella dell’apertura di un processo di pace sul versante russo-ucraino è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni al confine fra la Serbia e il Kossovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale. Se guardiamo alla situazione economica e finanziaria e cerchiamo di fare una media tra le valutazioni dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di multinazionali, i famosi funzionari del capitale, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione strisciante. Solo i più ottimisti si pronunciano per una timida inversione di tendenza nella seconda parte del 2023. Ma non si capisce come, tanto che appare più un wishful thinking che non una ponderata previsione. 



Tra le maggiori 26 banche centrali del mondo, ben 22 hanno alzato i tassi di interesse. Lo hanno fatto 137 volte aumentando così il costo del denaro di 82,6 punti percentuali. Diverse tra loro, tra cui la Bce, hanno iniziato o annunciato la riduzione del bilancio (quantitative tightening). Le attese delle decisioni sui tempi e sull’entità dell’innalzamento dei tassi tengono col fiato sospeso non solo le famiglie alle prese con l’aumento dei prezzi e dei mutui, ma i governi. L’indipendenza delle banche centrali - mantra del neoliberismo - si è risolta nella dipendenza degli esecutivi da queste. Perciò si alza il richiamo alla trasparenza e alla necessità che le banche centrali traccino un percorso definito. Cosa che la Lagarde non fa, andando avanti giorno per giorno. Anche gli editorialisti de Il Sole 24Ore chiedono che l’autonomia dalle interferenze dei governi venga almeno bilanciata dal rendere conto nei parlamenti. In primo luogo ciò dovrebbe avvenire a livello europeo, non in modo occasionale e non solo sulla valutazione del già fatto, ma sulla programmazione del fare. Ma quanto riferisce la Commissione sulle linee guida della riforma del patto di stabilità si muove in tutt’altra direzione: quella di accentrare potere nelle mani della Commissione stessa, riducendo ulteriormente il ruolo del Parlamento. Non solo di quello europeo, ma anche dei parlamenti nazionali le cui decisioni sui bilanci dovrebbero sottostare ai percorsi decisi dalla Commissione. Sparisce l’incredibile norma del rientro al 60% del rapporto fra debito e Pil in venti anni, ma si irrigidisce il controllo della Commissione sul percorso economico dei singoli stati. La Ue in particolare rimane così stretta fra aumento dell’inflazione - essendosi preclusa la possibilità di agire sulle sue cause esogene, in particolare la guerra - e precipitazione nella recessione. Ma una simile tenaglia non è inevitabile: sfuggire ad essa è il terreno per la ricostruzione di una sinistra. Non è vero che l’unica cura contro l’inflazione sia una politica restrittiva nella speranza che il calo dei consumi trascini con sé quello dei prezzi. Ce lo ha insegnato la stagflazione, cioè la compresenza di inflazione e recessione. Se negli Usa l’inflazione è in gran parte dovuta all’innalzamento dei prezzi dei beni di consumo, in Europa questa dipende per due terzi dal caro-energia. Qui più che altrove il tema è: quali consumi e quali investimenti. Affrontarlo a livello europeo è necessario. La conversione ecologica dell’economia - articolabile in una miriade di realistici progetti - è la leva indispensabile.

 

Poeti
Ma poi cos’è un sogno?


 
Non so più
se sia un sogno o
un’illusione.
Il mio sogno si avvererà mi dice...
il veggente, ma…
non so più
cos’è un sogno e
forse
nel mio mondo insonne
i sogni volano
per far cadere le illusioni
come scie di stelle cadenti nei
deserti umani.
Allora penso di sognare...
un sogno
perché lo devo trovare se no
non si avvererà il mio sogno
predetto che...
nemmeno conosco fra
le illusioni del mio tempo.
Il mio sogno allora è...
morire?
Forse per non vedere più
deserti
di cinica umanità.
 
Laura Margherita Volante

 

venerdì 30 dicembre 2022

LE TRE PIETÀ
di Angelo Gaccione


Michelangelo Buonarroti

La materia ha la sua importanza e il gesso non è il marmo. L’aver visto le tre opere marmoree più e più volte, fatalmente stempera le impressioni e le aspettative trovandoti davanti ai calchi, e questo sia detto senza nulla togliere alla buona fattura delle realizzazioni. Mi sto riferendo alle Tre Pietà di Michelangelo, quella super-celebre della Basilica di San Pietro, la Pietà Bandini di Santa Maria del Fiore a Firenze e la Pietà Rondanini di Milano custodita all’interno del Castello Sforzesco, i cui calchi in gesso sono esposti ora nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale qui a Milano. Certo è che non si poteva trovare ambiente migliore per presentarli al pubblico, considerato che due calchi riproducono i capolavori non terminati del Buonarroti, e la Sala delle Cariatidi abbonda di statue smozzate, decapitate, ferite negli arti, come ferito è rimasto il Salone a seguito dei bombardamenti anglo-americani sulla città. Un vero e proprio tiro a segno contro obiettivi che non avevano nulla di militare (il Palazzo Reale, la Galleria, il Poldi Pezzoli, il Teatro alla Scala e via enumerando) e con il solo scopo di distruggere per distruggere. Ma si sa, quanto a barbarie gli Stati in guerra si somigliano tutti. 


Le tre Pietà

L’esposizione ha l’intento di mostrarle assieme le tre Pietà per metterle a confronto e darcene i dettagli con proiezioni su dei giganteschi teli che rendono gigantesche anche le sculture. Il senso profondo di queste opere è legato all’idea della morte, della caduta, della fragilità della vita. Andrebbero pertanto guardate e meditate nel più assoluto silenzio e raccoglimento. Purtroppo non è così, anche se le visite sono limitate a 40 visitatori alla volta, c’è sempre chi chiacchiera senza curarsi degli altri e lo farebbe anche se gli si mettesse la mordacchia. È lo scotto che si paga alla fruizione di massa. In verità a me dà fastidio anche la musica e non si capisce perché debba essere utilizzata in ogni situazione. Ci sono casi e momenti in cui il silenzio può bastare: un silenzio denso, profondo, assoluto. Come si dovrebbe fare davanti alla morte che abbiamo trasformato in spettacolo.


La Sala delle Cariatidi
 massacrata dalle bombe anglo-americane

Ognuno vede e sente in base alla propria sensibilità, è naturale, ma se possiamo tollerare le grida disperate di una madre davanti al corpo del figlio morto, intollerabile ci appaiono le sceneggiate delle prefiche, come gli applausi che accompagnano i funerali, le chiacchiere patetiche sugli altari come se fossimo a teatro. La Pietà Vaticana Michelangelo l’aveva realizzata nel 1498 all’età di 23 anni, ne ha 72 quando inizia a scolpire la Pietà Bandini e ne avrà 80 quando smetterà di lavorarci senza portarla a termine. Per la Pietà Rondanini siamo addirittura al limitare della sua scomparsa, a 89 anni, e non terminerà neanche questa. In un arco di tempo così ampio, qualsiasi uomo muta idee, modo di sentire, concezioni, visioni, carattere, e l’artista è anch’egli prima di tutto un uomo. Non ci è dato sapere se i suoi lavori non finiti siano il rifiuto di una perfezione che non ha più ragioni, o se invece la convinzione certa che il tempo toglie, scarnifica, sottrae, e dunque non c’è da aggiungere nulla a ciò che il tempo si prende. Alla folgorazione che coglie il nostro sguardo davanti a quella madre bambina che regge un corpo di figlio tanto adulto, della Pietà Vaticana, si contrappone la meditazione tutta interiore e dolente davanti a quei due corpi della Pietà Rondanini, che sembrano sorreggersi l’un l’altro e che non hanno finito del tutto di uscire dalla pietra.  



La Sala delle Cariatidi
prima della devastazione


L’INDICE 
di Ottavio Rossani

 

Tra fede e ragione: il credo di Cesare Cavalleri.
 
Cesare Cavalleri è morto il 28 dicembre. Ma lui aspettava la morte “con serenità” per la grande fede. Aveva scritto al direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, annunciando la sentenza che “graziosamente” gli aveva letto il suo medico secondo cui gli restavano 9 settimane di vita per il “grande salto”. Era il 23 novembre scorso. Ma di settimane ne ha avute solo cinque e mezza. Lucidissimo fino all’ultimo giorno, in un’intervista concessa a Francesco Ognibene, pubblicata venerdì 23 dicembre 2022 su “Avvenire”, il quotidiano al quale ha collaborato dalla fondazione nel1968, ha voluto sottolineare che “tra fede e ragione non c’è dissidio”. Ha spiegato che la fede può esaltare, ma la ragione completa e rende consapevoli. Lui è stato “membro numerario” dell’Opus Dei, alla quale ha aderito all’età di 22 anni. Nella sua storia c’è anche l’incontro con il fondatore, san Josemaría Escrivá. Come giornalista ha battuto ogni record, facendo il direttore della rivista “Studi Cattolici” per ben 57 anni. Era nato a Treviglio nel 1936. Laureato in Economia alla Cattolica di Milano, per alcuni anni aveva fatto l’assistente in statistica. Ma la sua passione era la letteratura, ma anche l’arte, la moda, i costumi e le tradizioni delle diverse società. Quello che ha dato valore alla sua cultura enciclopedica è stato l’impegno con cui ha affrontato il giornalismo e soprattutto l’editoria. Ha diretto la “Ares” dal 1968: un altro record. Oggi si è svolto il funerale nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano.


 
 
Questa breve notizia che ho elaborato non dice tutto della sua vita, ovviamente. Non dice quanto fosse aperto verso gli altri, quanto lui amasse le persone, e di quanto fosse disponibile anche ad aiutarle, sia sul piano spirituale, sia su quello materiale. Si distingueva per la sua dedizione a comprendere, ma anche per il rigore intellettuale, che però non era rigidità. Aperto al dialogo, aveva tuttavia valori fondamentali inderogabili che illuminavano la sua esperienza esistenziale. Aveva anche una predisposizione all’ascesi. Dico questo perché l’ho conosciuto negli Anni Sessanta, quando da giovane aveva già deciso la strada da percorrere. L’incontro con Escrivà gli ha cambiato la prospettiva. Più volte ha detto: “Da lui ho imparato tutto”.
Questo mio ricordo è la testimonianza di un’amicizia forte, continua, lunga, culturale prima di ogni altro aggettivo. Ero da poco arrivato a Milano. Ho frequentato anche io l’università Cattolica. Su questo terreno comune ci siamo incontrati. Ho collaborato con alcuni articoli alla rivista. Ma per poco perché sono entrato al Corriere della Sera nel 1970, e non ho avuto più tempo per collaborare sulle riviste. Ma il rapporto di amicizia è continuato negli anni, anche se gli incontri non erano frequenti. Ma spesso ci sentivamo al telefono.
E sono rimasto legato a lui perché non si può dimenticare chi ti aiuta. Nel 1967 ero un po’ in crisi. Non era facile la città in quegli anni.  Avevo perso un anno universitario per colpa di una malattia che mi aveva debilitato. La ripresa era stata dura. L’umore aveva subito qualche colpo. Averlo conosciuto, poter parlare con lui, ascoltare i suoi ragionamenti, che erano suggerimenti indiretti, mi aveva aiutato, mi aveva spinto a recuperare fiducia in me stesso. Lui non dava consigli, lui ragionava. A lui ho fatto leggere i miei primi scritti, i primi racconti, le prime poesie. E anche dalle sue letture mi sono venute riflessioni importanti. La sua recensione a un mio libro di poesie, pubblicato nel 2013, Riti di seduzione, uscita nella sua rubrica “Leggere, rileggere” su “Avvenire” nel 2014, mi rimane molto cara, non per il suo riconoscimento del valore poetico dell'opera, ma per la sua capacità di comprensione dei miei temi e di penetrazione nella mia tenuta emotiva. 

                                                             

 

L’AFORISMA


G. Pinelli in un disegno
di Giuseppe Biagi

“Piazza Fontana: per secoli, acqua soltanto.
Poi, sangue abbondante.
Oggi, ingiustizia e pianto”.
Nicolino Longo

giovedì 29 dicembre 2022

MILANO IN AMICIZIA
di Federico Migliorati

Migliorati e Gaccione
(Foto di Marzia Borzi)
Milano 27 dicembre 2022 


Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta.
Dei signori e dei cani
…”.
Giovanni Raboni [versi di “Città dall’alto”, da Tutte le poesie]
 
 
La Biblioteca Ambrosiana


La Milano che colgo e già rattengo nella mente, in questo mattino di fine anno, tra torme inverosimili di turisti a sciamare lungo le vie dello shopping, riluce dalle finestre d’antichi palazzi frementi ancora di storia e di prestigio, da basiliche rinate alla conoscenza, simboli diuturni di possente gloria cristiana, oltre i muri di quartieri dimessi eppur ancora carichi di vita. È città orizzontale e verticale insieme, quella che fu capitale morale d’Italia, costellata da lunghi rettifili, da ariose rotonde, da costruzioni edilizie imponenti a svettare sempre più in alto, quasi una gara senza sosta per superarsi. I vari livelli di stratificazione della storia abbisognano di una calma di vento che non disperda in me la mole di date, cifre, luoghi, protagonisti fagocitata or qui or là lungo il percorso da flaneur improvvisato. Hemingway, Sant’Ambrogio, Gadda, la strage di Piazza Fontana, il Giornale, una lapide partigiana, la casa natale di Gadda, Piazza degli Affari, il Dito/L.O.V.E., i caffè letterari, le stanze plumbee in cui il duce arringò la folla, delizie alle vetrine d’una centenaria pasticceria, i tram che sferragliano su pavimentazioni promiscue… Milano gentile e superba invita ad assaporare ogni andito, foss’anche il più anonimo all’apparenza, in una bellezza che qua s’impone e là s’allenta, a guisa del nostro sapere in continuo tumulto.


Interno della Basilica di S. Ambrogio

Eppure, se si abbandona un poco la metropoli frenetica punteggiata dagli instancabili movimenti delle formiche umane, ecco il modo di godere di silenzi sinceri, da riempire di docili sguardi sulla vegetazione che permane su case di ringhiera, nei giardini interni di sontuose dimore, in atri appartati tra i condomìni, sui Navigli cantati da Alda Merini che racchiudono mestieri ormai scomparsi e vedute su orti dimenticati. Qui, allora, si respira un poco quiete e tranquillità, rifugio dal tedio di paese per chi come lo scrivente proviene dalla nebbiosa provincia bresciana o dalla folla cittadina che alla distanza crea disagio, per scoprire un poco di sé e dell’altro: si riscopre quanto sia gradevole condividere con cari amici un pranzo al desco familiare assaporando cultura e diletto e passandosi il testimone di questo o quel ricordo, tra viaggi ideali per l’Italia, come in giuoco che a Milano, grazie alla sua forza centripeta, è sempre gradevole fare. Un accordo, una corrispondenza di amorosi sensi tra vite differenti, accomunate tuttavia dalla passione per le “lettere”, che di tanto in tanto s’incrociano in terra meneghina. Un doveroso, sentito grazie pertanto ad Angelo Gaccione e alla moglie Mirella, calabresi trapiantati in città, ma milanesi ben più di molti nativi, e all’ormai salda presenza dell’amica Marzia per la compagnia fraterna e colta di questo spicchio d’anno che ormai volge al termine.


Palazzo liberty tra via Piacenza
e via Passeroni definito da
Gaccione Il Titanic


IL CANE E LA MORTE

 

Al mio cagnolino voglio bene ed anche lui a me, ma non sarà sempre così, ci dividerà la morte.
Ricordo i miei parenti che hanno allietato la mia infanzia, che mi hanno cresciuto, stavo bene con loro e non ci sono più. Rivedo i loro volti, sento riecheggiare le loro voci ed è quasi come se fossero ancora qui con me. Mia madre che mi ha dato la vita non l’ho neanche conosciuta. Hanno fatto dei sacrifici queste persone ed in particolare mia nonna per allevarmi. Tutti sono presenti nel mio ricordo con le loro virtù e le loro debolezze ma soprattutto con l’amabilità, la gioia e l’amore per me che ero un bambino. Li vado a omaggiare di fiori al camposanto ma come dice il poeta Ugo Foscolo nel poemetto I Sepolcri, “Dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro”.
Oggi sono un vecchio con altre persone che mi stanno vicino, altri affetti, mia moglie, i figli, il nipote, ma i ricordi mi prendono con assai nostalgia.
Come recita la canzone di Jimmy Fontana “Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue il giorno ed il giorno verrà”; la vita è una ruota che gira; Luigi Tenco cantava “Un giorno dopo l’altro la vita se ne va...”.
Il Leopardi nella poesia “L’infinito” scrive “E mi sovvien l’eterno e le morte stagioni...”; come credente dovrei abbandonarmi dolcemente ad una vita eterna oltre la morte, ma come uomo che ha tanti dubbi e poche certezze davanti a tutta questa realtà apparente e concreta mi sento annichilito.
Per il momento accarezzo con dolcezza il mio cagnolino.
 
Tiziano Rovelli
 

POETI
Le braccia di mio fratello


Pablo Picasso "I due fratelli"

Le braccia di mio fratello
sono le braccia di nostra
madre
che ci portò nel grembo
come trofeo d'amore e di
vita.
Nostra madre non è più
ed io agogno
le braccia di mio fratello,
che piccolo m’accolse
sorpreso e confuso
davanti a quel piccolo
essere
più piccolo di lui.
Non fece domande ma
 se gli chiedevano
chi fossi...
“una sorella...”.
Le braccia di mio fratello
sono il calore di nostra
madre per un incontro
di vita insieme.
Vorrei le braccia di mio fratello
per il tempo rimasto come dono a
nostra madre, che 
ferma attende un perdono.
 
Laura Margherita Volante 

PIACENZA. GALLERIA ALBERONI


Cliccare sulla locandina per ingrandire


CON I CURDI CONTRO I TIRANNI
E perché no anche sotto il consolato iraniano?





mercoledì 28 dicembre 2022

SICILIA E GUERRAFONDAI
di Antonio Mazzeo e Luigi Sturniolo


Il Ponte sullo Stretto come il Muos di Niscemi e Sigonella.
  
Non prova neanche a mimetizzarlo il suo punto vista, Lucio Caracciolo, sul ponte sullo Stretto. Ne ha parlato in un pezzo scritto per La Stampa il 7 dicembre scorso. Per lui sono secondari gli argomenti, e gli scontri, sugli aspetti ingegneristici, economici, ambientali dell’infrastruttura d’attraversamento. Ciò che conta è la sua valenza strategica, geopolitica, militare. Per questa ragione assimila il ponte sullo Stretto al Muos di Niscemi, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare della Marina militare USA per governare i conflitti globali del XXI secolo, “senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria”. Perché ciò che conta è il valore strategico della Sicilia, il suo collocarsi in un’area che Limes chiama Caoslandia, nel Mediterraneo “allargato” che è tornato ad essere centrale per i flussi commerciali provenienti da Oriente e per l’intervento politico, militare, economico di Cina, Russia e Turchia.


Limes aveva già insistito in altre occasioni su questo tema. Proprio un anno fa la rivista di geopolitica, i cui redattori, dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, sono stabilmente sui canali televisivi nazionali, aveva pubblicato un numero speciale sulla Sicilia. “L’Italia senza la Sicilia non esiste”, questo era l’argomento. Per questa ragione la Sicilia non può “annegare” nel Mediterraneo. E nel pezzo pubblicato su La Stampa Caracciolo è esplicito fino al didascalico. “Se non lo volete capire la Sicilia è la Frontiera e senza la difesa della Frontiera gli Stati periscono”, sembra dire, perché dallo Stretto di Sicilia (così quelli di Limes chiamano il Canale di Sicilia per sottolineare la esigua distanza che separa l’Isola dall’Africa) passa la principale rotta migratoria, perché da lì passa la via della seta cinese, perché “i turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto”, perché quel tratto di mare è attraversato dai cavi sottomarini transcontinentali della Rete.


Caracciolo ci ricorda che la Sicilia fu il luogo dell’invasione alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quella volta gli invasori erano i “liberatori americani” e ce la cavammo, ma stavolta chi potrebbe essere il nuovo invasore? Per questo l’Italia (ma a questo punto perché non l’Europa o l’Occidente?) senza la Sicilia non esiste. Perché la Sicilia deve essere la piattaforma militare nel Mediterraneo, la difesa dell’Occidente dalle armate dei Bruti o degli Extranei. Noi siamo la Barriera costruita a difesa. Questo è il nostro destino. Lucio Caracciolo si spinge fino a lamentare la scarsa presenza militare nell’area” e ad auspicare una “più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque” di quello che insiste a chiamare il “mare nostro”. L’ennesima ode al militarismo e al riarmo a cui gli analisti mainstream ci hanno abituato nell’ultimo anno di fratricida guerra in Ucraina. Ipocrita narrazione di una “Isola indifesa” quando è sotto gli occhi di tutti il devastante e invasivo processo di militarizzazione che ha investito ogni angolo della Sicilia e delle sue isole minori e l’abnorme presenza statunitense nella stazione aeronavale di Sigonella, “capitale mondiale dei droni”. Per questo il ponte serve, per Caracciolo: per la sicurezza, per stabilizzare le aree di frontiera e per collegare militarmente l’Italia, l’Europa, l’Occidente alla Sicilia, non viceversa.


In passato avevamo già invitato a guardare ai rischi che il ponte portava con sé anche sotto questo profilo. Ci avevano guardati un po’ perplessi. Il ponte ci metterebbe in pericolo, farebbe da traino ad una ulteriore forte militarizzazione e ad un più asfissiante controllo del territorio proprio perché naturale obbiettivo strategico in caso di conflitto. Eccoci serviti. Lucio Caracciolo ce lo sbatte in faccia senza neanche prepararci con parole di circostanza. E a chi pensa che con il ponte i propri figli non emigrerebbero più potremmo consigliare di arruolarli, che forse lì di lavoro ne troverebbero.
Ciò che è incredibile è che il ritorno del Mediterraneo come luogo centrale e l’importanza della Sicilia per la sua collocazione geografica debba essere necessariamente declinato sotto il profilo della guerra. La Sicilia, che nelle vecchie carte appariva più estesa di quanto lo fosse proprio per l’importanza che assumeva nei commerci mondiali, la Sicilia raccontata da sempre dai viaggiatori, deve essere piattaforma di guerra? E perché, invece, non potrebbe essere piattaforma di pace? Perché gli abitanti dell’isola non potrebbero trarre “vantaggio” dall’affacciarsi della propria terra su un continente africano in crescita? Perché non possiamo pensare di crescere insieme con le popolazioni africane che lavorano, viaggiano, portano avanti le loro famiglie, socializzano e trasferiscono risorse e conoscenza? Il nostro No al ponte è anche questo. Un No alle logiche di guerra, alle militarizzazioni dei territori e del mare, ai muri armati innalzati tra Nord e Sud. È il nostro Sì, forte, per la Pace, il Disarmo e la Giustizia tra i Popoli.
 

 

FRATELLI CERVI


Ricordiamoli
 
28 dicembre 1943 - 28 dicembre 2022

Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi.
Sette rami dell’albero maestoso della Libertà, quel 28 di dicembre, la ferocia fascista e nazista volle potare, senza pietà, con l’orrore che non si può né si deve dimenticare. Ma la morte può anche essere seme: quei rami li fa rifiorire nel nostro ricordo. Ancora una volta, allora, tocca a noi, proprio oggi, farci loro voce, e dire chiaro e forte ai fascisti di ieri, e a quelli di oggi: noi siamo lì, con quelle sette vite, sull’aia di quella cascina a difendere la nostra Storia, la nostra Resistenza, la nostra Costituzione. Noi non dimentichiamo.                                                                                                                    


Rileggiamo “Ai Fratelli Cervi, alla loro Italia” 
di Salvatore Quasimodo.

“In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d'antiche meditazioni.

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte, e ridono, i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e lacrime.
Nel mio cuore e finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa terra è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue”.

 (Da: Il falso e vero verde 1954)

 

 

 

martedì 27 dicembre 2022

FONTI DI PACE: NOUS SOMMES TOUS KURDES



Fascisti e criminali turchi uccidono i curdi, l’Europa e la Francia stanno a guardare.
 
Lo stato turco ha portato ancora una volta il suo terrore di stato in Europa! Gli attentati non li fa più l’ISIS ma chi ha sempre finanziato i jihadisti e sappiamo tutti chi è. Lo sa la Unione Europea, lo sa la Nato, lo sa Biden e lo sa anche Putin. E lo sa il macellaio turco che si è autorganizzato un colpo di stato nel 2016 per avere pieni poteri e mettere in carcere migliaia e migliaia di militanti curdi impegnati nel partito curdo legale HDP, e migliaia di democratici turchi, avvocati, magistrati, giudici, docenti, studenti. È sempre lo stesso macellaio che un mese fa ha organizzato un attentato a Istanbul per avere l’ok dalla UE, dalla Nato, da Biden e dal suo amico Putin per poter entrare in Siria e bombardare i curdi del Rojava. Sì, proprio loro che hanno combattuto anche per noi per sconfiggere lo Stato Islamico (10 mila giovani curdi hanno perso la vita combattendo contro lo stato islamico) ma il macellaio turco li tratta da terroristi con l’avvallo della burocratica e parassitaria UE. A difendere le donne yazide nell’agosto del 2014 a Shengal (zona curda in Iraq) non c’erano né la Nato né gli USA, né l’esercito iracheno e nemmeno i peshmerga del clan Barzani, ma c’era il PKK. Quel PKK che in tutto l’Occidente, su richiesta del macellaio turco, è considerata una organizzazione terroristica. Quel PKK che Erdogan ha eletto a suo personale nemico, non solo perché non si arrende all’assimilazione ma anche, e forse oggi soprattutto, perché le donne del PKK hanno combattuto contro lo stato Islamico ma anche contro il patriarcato. Perché quelle donne hanno elaborato un percorso di liberazione per le donne del Medioriente, un paradigma che fa paura agli ayatollah, al dittatore turco, ai talebani afghani ma anche al nostro ipocrita Occidente. 
L’ennesimo attentato contro il Centro culturale curdo a Parigi è la replica dell’assassinio avvenuto il 9 gennaio nel 2013 delle tre dirigenti curde Sakine Cansiz, Fidan Dogan, Leyla Saylemez del Centro Culturale di Parigi e degli attentati contro dirigenti curdi in Belgio. Per questi omicidi mirati nessuno è stato incarcerato, la disponibilità della UE verso il macellaio è infinita. Durante questi 10 anni gli avvocati difensori dei curdi hanno verificato che le squadre degli assassini turchi in Europa hanno la loro base principale in Francia. Per questo, da tempo, il Centro Culturale Curdo a Parigi chiedeva protezione. Una protezione che non è mai arrivata. Si tratta quindi di Omicidi mirati:
Ermine Kara, responsabile del movimento delle donne curde in Francia, una rivoluzionaria che ha dedicato la sua vita alla lotta del popolo curdo e alla liberazione delle donne. È stata ferita mentre combatteva contro l’ISIS in Rojava, assassinata a Parigi dove era venuta anche per curarsi, il musicista Mir Perwer fuggito dalla Turchia dopo una condanna a 20 anni di carcere per presunta appartenenza ad una “organizzazione terroristica”, aveva chiesto asilo politico in Francia e Abdurrahman Kizil, un patriota curdo sulla sessantina sempre presente al Centro Culturale Kurdo. Altro che omicidi casuali dovuti alla follia di un esaltato, ma omicidi mirati così come erano mirati gli omicidi delle tre dirigenti del centro curdo uccise 10 anni fa. Niente è stato lasciato al caso. L’autore della strage sarebbe stato portato in macchina nella strada del Centro Culturale Curdo e allora: chi lo ha portato lì? Le minacce fasciste negli ultimi tempi sono state numerose e tutte trasmesse alle autorità di sicurezza francesi alla polizia. Perché non è stato organizzato un servizio di sorveglianza? E neanche la data è casuale, visto che, al momento dell’attacco, al Centro culturale si sarebbe dovuto tenere un incontro per commemorare il massacro avvenuto nel gennaio 2013. Quanti attentati ancora dovremo aspettarci dal macellaio Erdogan prima delle elezioni di maggio in Turchia?



È notizia della scorsa settimana della condanna del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu a due anni e sette mesi con interdizione degli incarichi pubblici per aver “insultato” dei pubblici ufficiali. Nel 2019 Imamoglu vinse le elezioni a Istanbul, Erdogan le fece annullare, rifecero le elezioni e rivinse nuovamente ottenendo un ottimo risultato. Oggi rappresenta il candidato dell’opposizione di gran lunga più pericoloso per il sultano - nei sondaggi lo danno avanti 20 punti - ed è per questo che è stato accusato e incarcerato. È evidente, secondo la propaganda del terrore con cui Erdogan sostiene il suo potere, che il procedimento contro Imamoglu, in corso da settembre, terminerà con una sentenza di condanna al carcere a cavallo delle elezioni. È così che Erdogan eliminerà il candidato più pericoloso. È notizia di pochi giorni fa che la dottoressa turca Sebnem Korur Fincanci, presidente del più importante sindacato dei medici, oltre ad essere un’esperta internazionale di medicina legale, è stata tenuta ancora in prigione dopo l’udienza di ieri venerdì (23 dicembre) a Istanbul. La donna rimarrà in carcere preventivo fino alla prossima udienza di giovedì. La colpa della dottoressa è di aver avanzato la richiesta per un’inchiesta autonoma sull’uso da parte dell’esercito turco di armi chimiche contro i villaggi curdi nel nord dell’Iraq. Fincanci è stata arrestata il 26 ottobre in seguito ad un’intervista televisiva. È accusata dalle autorità turche di diffusione di notizie false atte a turbare la quiete pubblica e sostegno al terrorismo. Al giudice durante l’udienza di ieri ha detto: “Sostengo la necessità di un’inchiesta indipendente sulle notizie pubblicate dalla stampa e che riguardano l’uso di armi vietate internazionalmente. In quanto difensora dei diritti umani, mi assumo la responsabilità di difendere la libertà d’espressione e il diritto del pubblico ad accedere alle informazioni”. Ogni giorno si potrebbe scrivere un libro sui casi di repressione che colpisce curdi e democratici turchi in Turchia. Mi limiterò a raccontarvi ancora ciò che è successo a una carissima amica.
Giovedì 15 ho ricevuto una e-mail (da leggere in calce a questa nota) dalla nostra amica turca. Era stata la nostra interprete quando io e mio marito (all’epoca parlamentare europeo) abbiamo seguito, nel 2003 e nel 2004, udienza dopo udienza, il rifacimento del processo ai quattro deputati curdi Leyla Zana, Hatip Dicle, Selim Sadat, Orhan Dogan in carcere da 10 anni con l’accusa di terrorismo e arrestati nell’aula del parlamento turco. In questa lettera ci spiega di essere agli arresti domiciliari e di aver subito una devastante perquisizione (non posso inviarvi il video perché appesantirebbe troppo l’email). Per informazione, la nostra amica turca tra il 2017-2018 aveva già subito 15 mesi di carcere con l’accusa, rivoltagli da uno sconosciuto, di aver fatto da interprete a terroristi arabi. 15 lunghissimi mesi, prima che ottenesse un confronto con questo individuo che, durante il confronto, ha dovuto ammettere di non averla mai vista. Nel corso di questi 15 mesi è stata spostata in 4 diversi carceri. L’accusa, per lei e per tutti, da anni e anni, è sempre “terrorismo”.
 Ecco l’email ricevuta:
 
Inviata: giovedì 15 dicembre 2022 23:31 a Silvana Barbieri
silbarbieriao@gmail.com
Carissima,
Sto venendo dalla custodia. Lunedì, alle due della mattina le forze speciali, poliziotti, blindati, idranti sono arrivati a casa mia. Hanno fatto una perquisizione violenta. Hanno preso il mio cellulare. L’accusa è di finanziare i terroristi ma io ho solo inviato dei soldi ai detenuti politici. Ho fatto quattro giorni di custodia in condizioni terribili. Mi hanno dato prigione domiciliare. Hanno anche messo molti amici delle associazioni curde in carcere. Ora hanno messo in carcere gli attivisti dei diritti umani. Tutti gli amici di Göç Der sono in carcere con l’accusa di finanziare il terrorismo. Noi non siamo i terroristi ma siamo gli attivisti dei diritti umani.
Un abbraccio forte.


 
U
n’ultima informazione: pochissimi sanno che il gruppo etnico più colpito dalle esecuzioni nel mondo sono i curdi. Secondo Amnesty International quasi il 12% delle esecuzioni della pena di morte in tutto il mondo riguardano donne curde. Nel primo semestre del 2020 un quarto delle vittime era composto da curde. Fino a quando il mondo continuerà ad accettare la barbarie iraniana, turca, afgana? E perché la “civile” Unione Europea e gli Stati Uniti continuano a criminalizzare i curdi mentre ai veri criminali viene sempre dato il lasciapassare. Non si può più tacere su queste gigantesche e vergognose ingiustizie. Confesso che nutro da tempo molti dubbi sull’utilità dell’UE, un grandissimo baraccone di burocrati senza ideali, troppo spesso dalla parte dei macellai, con fette di patate sugli occhi e il naso chiuso tanto da non vedere né sentire la puzza della gigantesca corruzione di una commissione, quella dei diritti umani, che dovrebbe rappresentare il faro di una istituzione che vorrebbe presentarsi come un modello democratico.
 
Le donne curde, la democrazia curda, hanno bisogno del vostro aiuto. In Rojava la Clinica Mobile è la struttura sanitaria che permette di raggiungere i luoghi più colpiti dai bombardamenti che hanno colpito solo strutture civili. Non dimenticate di aiutare donne e bambini così duramente colpiti dai bombardamenti turchi
nell’indifferenza dell’Unione Europea. Il tuo aiuto può fare la differenza.



 
 
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