ALLA
PERIFERIA DELLA GUERRA
di Christian Eccher
Frontiera Moldavia - Ucraina
Reportage dalla Moldavia.
La frontiera
Frontiera Moldavia - Ucraina |
La fila infinita dei camion in attesa di passare la dogana comincia già alla periferia di Galați, città rumena a una decina di km dal confine moldavo. La maggior parte dei Tir ha targa ucraina: il passaggio di frontiera fra Galați e Giurgiulești è l’unico utile per raggiungere Ismail, il più importante porto ucraino sul Danubio. A separare Giurgiulești, in Moldavia, da Reni, in Ucraina, ci sono solo 3 km di strada asfaltata a due corsie. Da quando è cominciata l’aggressione russa nei confronti di Kiev, la striscia di terra che divide Moldavia e Ucraina è una delle più trafficate in Europa. La polizia di frontiera controlla approfonditamente i bagagli di tutti i passeggeri in transito e i tempi di attesa per entrare in Moldavia sono lunghissimi.
Deportazione
L’autista che mi
accompagna dalla dogana rumena a quello ucraina è particolarmente loquace. Non
è possibile passare la frontiera a piedi, per cui ho dovuto chiedere un
passaggio. Al poliziotto moldavo, l’uomo confida incautamente che sono un
giornalista. Cominciano i controlli: il tesserino identificativo del quotidiano
serbo con cui collaboro, “Danas”, il passaporto, la valigia. La guardia dà
ordine di parcheggiare l’auto per far passare gli altri automobilisti, scompare
in un edificio dai muri scrostati, si trattiene una decina di minuti e quando
esce mi comunica che non posso entrare in Moldavia perché non sono accreditato
presso il ministero dell’informazione di Chișinau. Protesto, ho amici in
Moldavia e ho solo intenzione di andarli a trovare, per poi proseguire verso
l’Ucraina. Il poliziotto non vuole sentire ragioni, insiste che devo tornare in
Romania. Mi rifiuto, prendo la valigia e rispondo che, se proprio mi vogliono
rispedire a Galați, dovranno usare la forza. È sera, il sole è già tramontato,
comincia a fare freddo ma sono pronto a passare la notte all’addiaccio, se
necessario. L’uomo ritorna nell’edificio dai muri scrostati e, dopo alcuni
minuti, esce accompagnato da un dirigente della dogana, anche lui in divisa ma
con numerosi gradi sulla giacca linda; non riesco a vedere di che gradi si
tratti a causa del buio: il posto di controllo è poco illuminato, si trova al
di là del cono di luce che i riflettori proiettano sulla strada. Intorno a noi
scodinzolano i cani randagi in cerca di un po’ di cibo. Il dirigente mi
comunica che mi permette di entrare in Moldavia ma ho un’ora per lasciare il
Paese; la frontiera con l’Ucraina è vicina. L’autista loquace esclama: “E dove
va questo poveraccio? Che fa in Ucraina a quest’ora, fra poco comincia il
coprifuoco...”. Il dirigente risponde: “Problema suo, può sempre tornare
indietro. Abbiamo già avvisato i colleghi al posto di blocco di Reni.
Accompagnalo. Se non gli va bene, può tornare in Italia, o in Serbia, non si
capisce da dove venga questo tizio. E poi dove ha imparato il moldavo?”. “In
Romania, a Craiova”, rispondo secco e scocciato. Il dirigente mi guarda
contrariato, si gira e scompare, senza salutare. L’autista e io ci rimettiamo
in macchina e ci avviamo verso la frontiera. Il mio compagno di viaggio non
parla, si sente in colpa. Sdrammatizzo, gli dico, era quello che volevo, andare
in Ucraina. “Ci tieni così tanto a vedere la guerra?”, mi chiede preoccupato.
Superiamo la fila ininterrotta di camion che occupa la corsia di destra e che
aspetta di entrare in Ucraina. Arriviamo al posto di blocco, passo la frontiera
e al di là, lungo la strada polverosa, solo silenzio e buio. È iniziato il
coprifuoco, i tir provenienti da Ismail hanno spento i motori e gli autisti
stanno già dormendo. Fino all’alba, qui non si muove nessuno. In lontananza,
vedo delle luci fioche: è una piccola osteria, entro, ci sono dei camionisti
che mangiano e bevono. L’oste dice di avere una stanza libera, non passerò la
notte al gelo. Nel prezzo è compreso anche un piatto di borsch: il più buono
che abbia mangiato in vita mia.
Di nuovo in Moldavia
Dopo una settimana
trascorsa in Ucraina, riesco a tornare in Moldavia. Nel frattempo, ho avuto
modo di viaggiare fra Reni, Ismail, Odessa, poi di nuovo in Bessarabia, a Tarutino,
a Serpneve dove finisce l’Ucraina e comincia la Moldavia. Passo il confine con
Svetlana Kruk, bellissima e intelligentissima signora che, dopo l’aggressione
russa, ha deciso di non lasciare l’Ucraina e continua a investire nelle proprie
aziende alberghiere in Bessarabia. I poliziotti sono gentilissimi, questa volta
sono benvenuto in Moldavia.
Gli amici ucraini,
profughi, che mi aspettano al di là del confine e che mi portano a Tvardița,
una cittadina del sud, giustificano i poliziotti moldavi che mi avevano negato
l’ingresso nel Paese una settimana fa. La strada non asfaltata segue
testardamente il confine di Stato con l’Ucraina, segnato da un terrapieno e da
alcuni paletti di ferro: “Hanno paura, una paura che a tratti sfiora la
paranoia - mi dice A.L. - ma che è assolutamente giustificata. Temono di essere
i prossimi: se la Russia dovesse sfondare a sud e arrivare a Mikolaiv e a
Odessa, in meno di un giorno arriverebbero a Tiraspol”. È vero: la
Transnistria, la regione a est del fiume Nistrio, ha proclamato l’indipendenza
nel 1990; dopo una guerra breve ma sanguinosa, che lo sguarnito esercito
moldavo ha combattuto contro le truppe transistriane sostenute dai russi e
dagli ucraini, Chișinau ha perso il controllo sulla regione; la Transnistria,
nonostante non sia riconosciuta da nessuno Stato al mondo, si è de facto distaccata
dalla Moldavia. Dopo il ritiro da Herson, l’esercito russo sembra essere
lontano da Tiraspol ma il Cremlino ha altre armi per piegare Chișinau, prima
fra tutte quella energetica, dato che la Moldavia dipende totalmente dal gas
russo. La Romania cerca di aiutare il vicino come può, ma non riuscirà a
coprire il fabbisogno dell’intero paese. La Transnistria, inoltre, anche se
ottiene il gas da Mosca a buon prezzo, ha debiti enormi con Gasprom e Putin,
che, furbamente, non ha mai riconosciuto il governo di Tiraspol, ha presentato
il conto a Chișinau.
La Moldavia, se non dovesse pagare il gas proprio e quello transistriano, potrebbe rimanere da un momento all’altro al freddo. Il Governo di Chișinau è filo-occidentale: la presidentessa Maia Sandu, del Partito Azione e Solidarietà, ha la maggioranza anche in Parlamento: dopo le elezioni del 2021, infatti, ha ottenuto 63 seggi su 101; la Sandu ha promesso di riformare la giustizia e di avvicinare la Moldavia all’UE. I nemici però sono tanti, a cominciare dall’ex Presidente Igor Dodon, che la stessa Sandu aveva sconfitto alle presidenziali del 2020. Finanziato a e appoggiato dai russi, Dodon, insieme all’oligarca Ilan Shor, segretario del Partito Shor, organizza meeting contro il governo e aizza il malcontento popolare nei confronti della povertà dilagante e della crisi economica. Fra i moldavi, che rapprentano il 75% della popolazione totale, ci sono forti tensioni fra chi vorrebbe l’unione con la Romania e gli indipendentisti. A sud del Paese, i gagausi, una popolazione di origine turca, vorrebbe una maggiore autonomia e per ottenerla è pronta anche a chiedere l’aiuto di Mosca. A fine luglio, proprio in Gagausia c’è stata una grande manifestazione contro la Sandu e il Governo centrale in cui sono stati scanditi slogan come “La Russia è con noi”. I prezzi del gas alle stelle, l’inflazione al 30%, la crisi dei rifugiati che arrivano ininterrottamente dall’Ucraina sta mettendo a dura prova il Governo, che per ora non è riuscito a mantenere le promesse, soprattutto quelle legate alla riforma della giustizia: gli oligarchi sono in libertà e stanno dalla parte di Mosca; Igor Dodod è agli arresti domiciliari per corruzione ma il suo potere è ancora immenso e la sua influenza si fa sentire. Per Chișinau si prospettano tempi davvero duri.
Tvardita |
Tvardiţa e la Gagausia
Tvardiţa è una città che sorge sulle pendici di una dolce collina e la maggior parte della popolazione è russofona. Il centro è abitato soprattutto da bulgari, moldavi, gagausi, russi e bulgari e l’idioma di Tolstoj funge da lingua franca. Molte case, lasciate libere da coloro che sono emigrati (il 25% del pil della Moldavia è frutto delle rimesse di chi lavora all’estero), sono ora abitate dai profughi ucraini. “Che dire, aspettiamo che finisca la guerra - dice Dmitri, muratore trentacinquenne di nazionalità bulgara - noi siamo abituati a vivere tutti insieme e in pace. Questo conflitto sta compromettendo gli equilibri, non vorrei che ci fossero scontri anche qui”. La situazione è al momento abbastanza tranquilla e le recenti vittorie dell’esercito ucraino hanno allontanato, almeno per ora, l’incubo di un’invasione russa. “Ciò non significa che la Russia non faccia pressioni su di noi con altri mezzi, primo fra tutti il ricatto energetico. A Tvardiţa ci sono spesso blackout e i costi del gas e del carbone sono alle stelle. Ci arrangiamo come possiamo, facciamo legna, compriamo il carbone, quando si trova nei negozi, e in qualche modo finirà anche questo inverno”, conclude Dmitri.
Gaugasia |
Della guerra, invece, si parla poco a Comrat, che è il capoluogo della Gagausia e si trova a pochi chilometri da Tvardiţa. L’amministrazione comunale organizza molti festival e attività culturali che rimarchino le peculiarità della cultura e della lingua gagausa, che è un idioma turco. Di religione ortodossa, i gagausi vivono in questa zona da sempre. Comrat è stata la capitale della Repubblica di Gagausia, proclamata nel 1991 dopo il crollo dell’URSS e integrata nella Repubblica di Moldavia nel 1994. I gagausi sono una delle rare popolazioni di quest’area ad aver appoggiato fino all’ultimo l’URSS, e questo per un semplice motivo: dato che non hanno mai avuto l’opportunità di formare uno Stato autonomo, ritengono sia meglio che la capitale alla quale si devono sottomettere sia il più lontano possibile dai loro territori; in più, il Cremlino ha sempre garantito una certa autonomia a questa piccola popolazione. Anche il governo centrale moldavo garantisce l’autonomia, ma solo perché costretta dai rapporti di forza interni e perché teme rivolte popolari; i gagausi non si sentono liberi e hanno paura di perdere i privilegi di cui godono. La maggior parte di loro è contro l’ingresso del Paese nell’UE e vorrebbe rapporti più stretti con la Russia. Un funzionario gagauso, che vuole rimanere anonimo, ci spiega il perché: “Se la Moldavia entra nell’UE, noi gagausi siamo pronti a chiedere l’indipendenza, anche con il supporto di Mosca. Cosa ci ha dato la Moldavia, con la sua apertura totale all’economia di mercato imposta dall’Occidente? Nulla, siamo solo manodopera a basso costo, sia noi, sia i moldavi, sia i rumeni che qui vivono. Stavamo meglio al tempo dell’URSS! Vivevamo con poco, ma a casa nostra, e non eravamo costretti a emigrare per lavorare”.
Chisinau |
Chișinau
Il funzionario di Comrat non ha tutti i torti nel dire che la Moldavia, dopo il crollo dell’URSS, si è impoverita. Lo testimonia anche la capitale, Chișinau, soprattutto la sua periferia, grigia di cemento e di inquinamento atmosferico; la zona vicina alla stazione degli autobus ricorda le scene dei film del regista ungherese Bela Tarr: un indefinito e continuo formicolio di persone e minibus per ogni destinazione, gente che vende abiti usati o la frutta raccolta sull’albero del proprio giardino; chi ha un’auto si improvvisa taxista. I mendicanti chiedono l’elemosina ai viaggiatori in fila alla biglietteria e gli ubriachi barcollano fra i negozi di bevande e il marciapiede. Le insegne dei cambiavalute occhieggiano rosse e intermittenti ovunque, qui è possibile comprare lei moldavi e rumeni, dollari, euro, grivnie ucraine, rubli russi. Un tassista abusivo aspetta i clienti ai lati del mercato cittadino; guarda i passanti ed esclama: “In Moldavia c’è di tutto, gente di tutte le nazionalità, russi, ucraini, moldavi, gagausi! Perché dovremmo schierarci con l’Occidente o con la Russia? Sono l’Occidente e la Russia che dovrebbero prendere esempio dalla Moldavia, venire qui a imparare come si vive tutti insieme e in pace. I padroni del mondo possono far guerra quanto vogliono: noi qui dobbiamo vivere insieme anche in futuro, per cui è meglio se troviamo subito un accordo, almeno fra di noi. Adesso vorrebbero eliminare la lingua russa, il nostro governo forza quella moldava. Che stupidaggine! Guarda, io sono moldavo, parlo moldavo e russo. Il russo è la lingua franca, quella che capiamo tutti, perché dovremmo sforzarci di dimenticarla? La dobbiamo mantenere, i russi sono sì imperialisti, ma la lingua non ne ha colpa. Che facciamo, abbandoniamo tutti il russo e andiamo a studiare l’inglese? No grazie, esigo che qui i miei figli parlino moldavo e russo; certo, quando vanno per il mondo parleranno inglese, ma se perdessimo la lingua russa, saremmo tutti più poveri qui in Moldavia!”.
Alexanderfeld
Anche ad Alexanderfeld, un paese del Sud della Moldavia, a pochi km dalla città di Cahul, il russo è la lingua franca. Alexanderfeld è un tipico centro abitato della Bessarabia: un grande boulevard, al centro un marciapiede con due filari di platani a chiudere il passaggio pedonale come fosse un parco, e ai lati case a due piani con il tetto a spiovente, il giardino e l’orto. Qualcuno alleva anche galline e conigli. Le galline escon spesso fin sulla via, beccano qualche seme ai margini della strada polverosa ma tornano nel cortile non appena sentono un’automobile arrivare. Intorno al paese, campi di grano e girasoli. Qui abitano 14 nazionalità e il paese, che ora ha poco più di 1300 abitanti, fu fondato dai tedeschi nel 1907. Quegli stessi tedeschi furono esiliati in Siberia da Stalin a partire dal 1940. Un caso unico nella storia dei tedeschi della Bessarabia: ad andarsene furono non i figli o i nipoti, ma gli stessi fondatori del centro abitato. A prendere il posto dei profughi furono moldavi, russi, guagasi e ucraini che avevano perso le proprie abitazioni durante la guerra. Ora ad Alexandefeld c’è un museo che conserva gli oggetti lasciati dai primi abitanti del paese. Nell’edificio del municipio, il sindaco, la signora Liubov Arnautova incontra il professor Alexander Prigarin di Odessa che, insieme ai suoi studenti, sta conducendo una ricerca di etnologia sulla Bessarabia. Aperta e gentile, il sindaco racconta la propria storia: “Io sono nata in Ucraina, a Ismail; i miei genitori sono stati mandati in Siberia, a Tomsk, durante la guerra, per fuggire ai combattimenti che da queste parti erano feroci; lì sono nata io; siamo tornati dopo qualche anno a Ismail ma la nostra casa non c’era più; abbiamo trovato un’abitazione libera qui, ad Alexanderfeld, e ci siamo subito trasferiti. In quegli anni, i tedeschi che abitavano in Ucraina e che non erano nei campi di concentramento facevano domanda di asilo in Germania; dovevano passare per forza di qua, perché il consolato tedesco era a Odessa”. Ad Alexanderfeld, spesso, i tedeschi aspettavano l’esito della propria richiesta di trasferimento in Germania, a casa dei pochi connazionali rimasti o nelle abitazioni libere. “Poi, un giorno, a inizi anni Cinquanta, non si sono visti più, se ne sono andati tutti. Erano brave persone, contadini e soprattutto artigiani, del ferro e del legno, bravi e indefessi lavoratori. Hanno pagato per gli errori commessi dalla classe dirigente tedesca, loro che in Germania da secoli non vivevano. E lì, nella cosiddetta madrepatria, hanno presto capito di essere stranieri: la signora Alina, che se ne è andata negli anni Cinquanta ed è tornata ogni estate ad Alexanderfeld fino alla morte, si è pentita amaramente di aver lasciato il paese. Credo si siano pentiti anche gli altri tedeschi - asserisce Liubov - ed è nostro dovere, adesso, mantenere in vita la memoria dei fondatori di questo villaggio”. Mentre il sindaco parla, la luce si spegne all’improvviso e la sala consiliare rimane al buio: la guerra in Ucraina e la mancanza di gas, il sistema di distribuzione elettrico antiquato rendono difficile l’erogazione dell’elettricità e, di conseguenza, anche l’acqua - che arriva nelle case grazie a delle pompe che dalle profondità della terra la portano in superficie - manca per diverse ore al giorno. Gli abitanti, però, sono abituati e non si lamentano; il sindaco va da chiunque abbia bisogno, è sempre a disposizione e corre da una parte all’altra del paese per risolvere i problemi dei suoi concittadini. Liubov è molto attiva ed è molto amata dagli abitanti di Alexanderfeld, che sembrano voler mantenere, anche in questi tempi difficili, lo spirito di comunità che è da sempre la principale caratteristica della Bessarabia.