Un
libro che si impone con cadenze e intrecci che sono, per chi ha seguito le
evoluzioni creative di Massimo Pamio, costitutive della sua inarresa misura con
i temi più profondi del nostro esistere. Ma se forma e stile definiscono un
Autore, qui ritroviamo confermato - pur nell’impegno richiesto dall’alveo
tematico - il rigetto di ogni seriosità supponente, a favore dei panni
variegati e dinamici sintetizzati dal Cantimbanco,
sintagma e invenzione di uno dei primi testi poetici di questa raccolta
antologica che abbraccia un decennio. Una raccolta che è corredata - a
sottolinearne il rilievo espressivo - da una ricca Antologia critica, con contributi di Giovanni D’Alessandro, Rossano
De Laurentiis, Erica Gazzoldi, Daniela Forni, Renato Minore, Elio Pecora, oltre
a una lettera di Gabriella Sica (alcuni dei quali, con fraterne condivisioni
del processo decennale di editing, riportano
anche le interessanti varianti, precedenti il testo definitivo). I temi
affrontati coinvolgono la totalità di pensiero ed emozioni del Soggetto
Scrivente, ma come detto il moto testuale tende a svolgersi nella leggerezza
del Cantimbanco, termine che è “un calco
di saltimbanco” (come rileva Erica Gazzoldi), e insieme “termine medievale per
indicare il cantastorie” (lo ricorda Daniela Forni, che incastona lo stile dell’Autore
in giullare del mistero), alias, il
cantore, il poeta, che rifugge dal “prendersi troppo sul serio, a mo’ di Aldo
Palazzeschi, che si definiva il saltimbanco
dell’anima.” Il Cantimbanco,
vola e svolazza (ridacchiando anche sul Volo romanziere popolare) con le sue poesie
volte a una Teomantica, prima parte
della raccolta, e un altro dei molti termini inventati e necessari alla
interminabile ricerca interrogante di cui si nutre (e ci nutre) il libro. “La ‘teomantica’
unisce il dio (teo) all’arte della divinazione (mantica). È dunque
ispirazione divina, che fa vedere in profondità” (Gazzoldi), coniugando
continuamente opposti, paradossi e ossimori, alimenti verbali che qui non sono Jeu de mots autoappaganti,
ma segni di una insaziabile fame di canoscenza.
È la prima comunicazione complessa che questa poesia e questo libro
trasmettono. “Mio Dio che sei l’unica
parola/ che avrei voluto dire e pensare/ echeggiare nel silenzio e nell’anima/
mio Dio che sei tutto ciò che non so/ che sei il più lontano dei miei no”.
Dio è parola
di ricerca nel mistero, esteriore ed interiore del giullare. Un esteriore che
tra i grani del suo rosario, declina ignominie di violenze e guerre di dominio,
unite a autodistruzioni di ogni equilibrio della “Madre Terra”. Non meraviglia
perciò lo sbocco nell’invettiva: “scaglia gli ignoranti / che vivono sul tuo
volto dolcissimo”. Mentre il singolo diventa collettivo: “Schiaffeggiati dal
guanto del mondo,/ pretendiamo ragione”, e si fa profetico, tra gli estremi frutti
velenosi delle logiche in atto, di “grande freddo” e “riscaldamento globale”,
con “desertificazione del futuro”. Che nella campitura mistica domanda: “che
sia questo del Maligno” il disegno? Domanda rivolta anche al qui-ora e
al noi: “C’è una persona in noi o c’è uno spiraglio del vero del mondo… un
segnale del divino che ci avvisa ogni volta del nostro misterioso ingannarci?”.
Domande che non salvano lo stesso cantimbanco:
“inguaribile egocentrico” e “fingitore”, quale denudato da Fernando Pessoa?
“Narciso trasformista” che rimane chiuso in sé, o Autore di sé, che sa uscire dai
deliri di essere Fattore del Mondo e Castello di Dio, facendone uscio di un
senso D’Io?Domande, interrogazioni e
ribaltamenti di sensi compongono la struttura retorica portante del testo:
“L’uomo, misura di tutte le cose che non sono,/ di tutte le assenze in sé
cumulate, come di quelle/ neanche immaginate. Precluse, tutte, all’interiorità/
come all’esteriorità: escluse da ogni mondo, per amore”.
Pochi
versi che incidono il nucleo portante del libro, sintetizzato nel titolo, anonimie. Le minuscole evidenziano il
senso di cancellazione di una soggettività che si afferma, Io o Sé che sia. Ma
quel “non sono” non ha qui - come ben sottolinea Giovanni D’Alessandro - il
significato storicizzato montaliano, di “ciò che non siamo… non vogliamo” - ma
di un soggetto singolo-collettivo che si sente smarrito, annullato, non da un
gioco autoreferenziale di pensiero, ma dalla immensità dell’esperienza
dell’universo, presente e per lui intangibile, come rileva Elio Pecora. Ma
questo vuoto, questo zero, non sono ripiegamento piangente, perché si fa pedana
di ripresa del “cammino verso la conoscenza del sé” (D’Alessandro). Siamo dunque
alle origini della sofia, dell’essere conscio della propria infima e
insignificante essenza e presenza di fronte a un universo dal significante e
significato ignoti. Ribaltati però a fondamento di moto verso domande
inesauste, di ricerca che può essere solo del senso dell’Altro e dell’Oltre, ma
ricongiunte a specchio nel proprio sconosciuto Sé. Il vuoto diventa così fonte
e utero di conoscenza, coscienza dell’interminabile circuito di nascita e rinascita,
senza il quale il tutto rimane nulla. Il gioco e la sfida di Pamio vanno perciò
al di là del moderno e di qualunque suo post. Se in tali fasi storiche siamo
stati folgorati e sommersi da forme di hybris,
deliri di onnipotenza di incrollabili certezze di “magnifiche sorti e
progressive” (La Ginestra, Leopardi),
Pamio declina e ci sconvolge con versi: “l’incanto/ della fissità d’un bambino
mai nato/ il poeta che io sono, mai avuto/ da nessuna madre, da nessun uovo”. Versi
che sanno coniugare umiltà e ripresa di sé, nel volo di rinascita di una
Fenice-Poesia. Rinascere alla vita, nonostante i suoi orrori è l’imperativo
categorico che ci dona l’astro (come
è chiamato dall’Autore) della sua poesia. Davanti al Tutto che parla ed è muto, nasce lo stupore,
lo smarrimento, la sofia e la poesia, che danno anche il nome di Dio a tutte le
domande interminabili, cui l’atteggiamento mistico risponde col fervore della
fede, e l’atteggiamento agnostico, con diversa umiltà lascia sospese. Ma il Sacro
è campo aperto per entrambi, imprescindibile fondamento del senso del limite e
dell'etica, il cammino umano negli impervi ed esaltanti passi del pensiero
moderno ha piantato lapidi con su scritto “Dio
è morto”. Ma l’uomo è vivo? Pamio su questo crinale riparte dalla lapide
della morte dell’uomo, eredità di un processo
antropologico, senza il quale siamo nulla. In tale alveo, le domande riguardano
anche la teomantica e il campo pieno
di croci e orrori consegnato dalla storia. Pamio ci invita a ripartire davanti
a un immane fallimento che, se è di Dio, è in primo luogo del suo presunto
vertice o specie eletta della Creazione. Nel circuito
vitale misterioso, che continua e non ci appartiene, la morte e la vita sono
due facce dello stesso Tutto, congiunte in un punto che è Amore, con mille nomi
e forme al pari di ogni altro ramo e nucleo della Cosa che chiamiamo Vita. È il nome del mistero che ci dona e domina
con la sua petite mort - geniale
dicto-scintilla, verbale, materiale e spirituale - di nuova vita. È il
campo aperto di infinite anonimie, che attendono da noi di riavere la dignità
di un nome.
Può il poièin morire e rinascere in questo campo di croci offrendo il suo
canto straziato di corpi senza nomi? È la domanda aperta, senza pace ma
affamata di gioia, che questo libro ci lascia. Un libro che si libra in
precario equilibrio, di un soggetto che dopo aver inscritto lapidario “Fugge da me ogni
certezza”, ribalta come clessidra gioiosa l’invito a “orfanarsi” nel volo di
una “cartaventosa”, di una “Cartadittamondo” per porsi e porci, nudi e
indifesi, tra paure e
tragedie, in uno smarrimento che si fa luogo di linfa singola-collettiva di utopia
resistente: “uniti
nella speranza nella pienezza dei tempi/ disseppelliremo il nuovo contratto con
il mondo”, fino a reinventare il lampo sotto le bombe del mattino ungarettiano, in una forma che è una sorta di balbettio
infante: “M’incantesimo d(’)i/m - (m)en(s)o. Scoppiano le bombe e insieme
scoppia la gioia-poesia: “vita è scostare le tende/ per vedere ogni altro mondo”.
L’insegnamento è: bisogna partire dal minimo, ma occorre salvare il sogno critico
capace di re-agire e smascherare il pensiero unico del turbocapitalismo,
tendente a cancellare differenze e a ridurre la ricchezza dell’umanità in
un’unica metropoli mondiale. La
ricerca espressiva di Pamio va dunque oltre appagamenti minimalistici o
chiusure in torri d’avorio parnassiane, per misurarsi col vento di tutta la
storia umana. Un libro vitale e ricchissimo di stimoli, di filosofia, scienze sociali
e poesia, da quella più alta fino ai cantautori moderni. L’Io
è sbeffeggiato e rincorso tra sarcasmo e autoironia, colma infine di pietas: “il mio io…consenziente,
vigliacco, imbecille, codardo. lo conosco come le mie tasche. Vorrebbe
corrompermi o vendermi per pochi denari, tradirmi. Non sa chi sono e di che
cosa sono capace. Prima o poi lo trovo e lo ammazzo, con le sue stesse mani. E
lo perdono”. E
uguale contropelo è riservato al contesto storico attuale, coi suoi simboli e
poteri, che mentre marchiano la vita di massacri e “dal seme della sconfitta
del bene”, continuano le declamazioni retoriche di trattati e sigle inutili
(ONU, UNESCO, FAO), in un “teatro delle Illusioni” e delle falsità. Allo stesso
Dio, nome di Tutto e Nulla della sua Teomantica,
non concede sconti e quella pietas
riservata all’umano: “Mio Dio che sei l’unica parola/ che avrei voluto dire e
pensare; “Dio, solo l’inizio d’una negazione senza fine”; L’Eterno,
L’Onnisciente… L’Onnipotente… lo cerchi in ogni dove./ Fin quando - in un filo
d’erba che oscilla/ con superbia per aver resistito/ allo strazio del vento,/
lo trovi: il tuo Io.”; sì, se “Sono: ti annullo, Dio./ E poiché mi doni la
parola,/ sia Tu maledetto, compiaciuto in Te stesso…/ amarTi del Tuo Amore,
demente Dio ingordo di me,/ che io non sia mai Tuo”. Le
domande su Dio e sulla Poesia sono entrambe interminabili e senza possibili
risposte definitive. Altrettanto si può dire della scienza e del soggetto
interrogante, Io o Sé che sia. Ma senza queste domande la vita umana è monca.
Il valore di questo libro è di farne testo in forma di poesia. Per cui, chiosa
opportunamente Forni: “La sua poesia potrebbe sembrare a una lettura
superficiale scevra dagli agganci al presente, intrisa di metafisica e di
spiritualità”. È un profilo rispondente a quello proposto da Gabriella Sica: “Forse
sei anche tu, almeno un po’, come un tuo antenato, il bellissimo pre-italico
guerriero di Capestrano. Anche lui non smette di combattere nell’istante e nei
secoli, orgoglioso e docile, ‘l’eroico protagonista/ e l’umile comparsa’”.
Massimo
Pamio Anonimie (Poesie 2010-2020) Edizioni
Mondo Nuovo, 2023 pp.
272 € 25,00