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mercoledì 11 gennaio 2023

Libri
LA SIGNORA DEI DESIDERI
di Pietro Verratti


 
Mario Micozzi

 
Colto da inguaribile curiosità, mi sono catapultato nella lettura dell’ultimo romanzo di Mario Micozzi, La signora dei desideri, percependo l’immediata convinzione di trovarmi di fronte alla conversione di uno degli autori più prolifici, originali, poliedrici, d’avanguardia nel panorama letterario nazionale. Alla prima impressione, infatti, mi è parso un lavoro innovativo, non inquadrabile nella canonica classificazione dei generi narrativi, generato per assecondare una incontenibile fantasia: un gradevolissimo mix di horror e giallo composto come mero esercizio di letteratura esoterica, senza un apparente messaggio etico. Son dovuto giungere alla fine del libro per cambiare idea e provare addirittura vergogna per un giudizio colpevolmente frettoloso. Ho ripensato che Micozzi, attraverso una poderosa produzione di qualità generata in oltre mezzo secolo di forte tensione ideativa, ha saldamente costituito un inconfondibile stile che si caratterizza per una particolare sensibilità verso i principali temi sociali del suo tempo ed una straordinaria abilità di giocare con la parola, di cui domina etimologia, varietà, significato e significante. Non avrebbe mai potuto tradire un consolidato e apprezzato modello compositivo nella fase della sua maturità. E infatti, sia pure tardivamente (a confermare che i messaggi dell’autore non sono mai espliciti, mai immediatamente percepibili), ho riscontrato l’assoluta coerenza con le tante opere precedenti. 



La signora dei desideri è una grande metafora concepita con finalità didascalica: denuncia vizi e difetti dilaganti nella nostra società, destinati a produrre effetti deleteri, catastrofici, irreversibili, e lo fa con il ricorso al macabro, al raccapricciante, alla paura, come facevano i nonni delle passate generazioni per trasmettere ai loro nipoti, attraverso la narrazione di miti e fiabe, il concetto di male. Qui il male è insito nell’idea di “desideri”: è l’avidità, la gelosia, l’edonismo, la competitività, il protagonismo, la perdita di valori che hanno inquinato e mandato in pensione un sano modello culturale di ispirazione rurale e artigiana basato sulla semplicità, sulla solidarietà, sulla fede. Una denuncia senza spazio per la speranza? Certamente no, non è questo il compito di uno scrittore impegnato! Il romanzo, infatti, ci fornisce l’identità della forza del bene, capace di porre rimedio ad una situazione compromessa, e la identifica nell’armonia, nell’ordine, nell’equilibrio della natura che trovano concretezza nelle espressioni artistiche e letterarie, confermando l’intuizione di dostoevskijana memoria. Ma è nel linguaggio e nella struttura compositiva che Micozzi esalta le sue non comuni doti di navigato narratore. Attraverso la creazione di un caleidoscopio di personaggi e il ricorso a conoscenze psicologiche, antropologiche, sociologiche, storico-geografiche, sviluppa il suo progetto di scrittura con un susseguirsi frenetico di momenti di suspense e di flash-back, che uniti a descrizioni esageratamente dettagliate, a prima vista finiscono per innervosire il lettore perché rallentano la scoperta di una situazione che stava per chiarirsi, ma in effetti assolvono alla funzione di prendere tempo, di far crescere la curiosità e rendere più intrigante, più affascinante la lettura.
E poi il lessico! Una raffica di aggettivi ed espressioni spesso messi artatamente in contrasto (molto improbabile ma quasi possibile - ebbre di tutto e di niente - ecc.); un ampio ed esplicito uso delle marche, per trasmettere un senso di modernità e precisione; stranierismi volutamente rivisitati (scic, scioc, ecc.); toponimi reali misti ad altri artefatti, ma facilmente individuabili; autentici fuochi d’artificio di termini colti e ricercati, neologismi di scopo, storpiature suggestive e accattivanti.
Tutto nel solco della migliore tradizione micozziana, anzi, oltre!