Colto da
inguaribile curiosità, mi sono catapultato nella lettura dell’ultimo romanzo di
Mario Micozzi, La signora dei desideri, percependo l’immediata
convinzione di trovarmi di fronte alla conversione di uno degli autori più
prolifici, originali, poliedrici, d’avanguardia nel panorama letterario nazionale.
Alla prima impressione, infatti, mi è parso un lavoro innovativo, non
inquadrabile nella canonica classificazione dei generi narrativi, generato per
assecondare una incontenibile fantasia: un gradevolissimo mix di horror e
giallo composto come mero esercizio di letteratura esoterica, senza un
apparente messaggio etico. Son dovuto giungere alla fine del libro per cambiare
idea e provare addirittura vergogna per un giudizio colpevolmente frettoloso.
Ho ripensato che Micozzi, attraverso una poderosa produzione di qualità generata
in oltre mezzo secolo di forte tensione ideativa, ha saldamente costituito un
inconfondibile stile che si caratterizza per una particolare sensibilità verso
i principali temi sociali del suo tempo ed una straordinaria abilità di giocare
con la parola, di cui domina etimologia, varietà, significato e significante.
Non avrebbe mai potuto tradire un consolidato e apprezzato modello compositivo
nella fase della sua maturità. E infatti, sia pure tardivamente (a confermare
che i messaggi dell’autore non sono mai espliciti, mai immediatamente
percepibili), ho riscontrato l’assoluta coerenza con le tante opere precedenti.
La signora dei desideri è una grande metafora concepita con finalità
didascalica: denuncia vizi e difetti dilaganti nella nostra società, destinati
a produrre effetti deleteri, catastrofici, irreversibili, e lo fa con il
ricorso al macabro, al raccapricciante, alla paura, come facevano i nonni delle
passate generazioni per trasmettere ai loro nipoti, attraverso la narrazione di
miti e fiabe, il concetto di male. Qui il male è insito nell’idea di “desideri”:
è l’avidità, la gelosia, l’edonismo, la competitività, il protagonismo, la
perdita di valori che hanno inquinato e mandato in pensione un sano modello
culturale di ispirazione rurale e artigiana basato sulla semplicità, sulla
solidarietà, sulla fede. Una denuncia senza spazio per la speranza? Certamente
no, non è questo il compito di uno scrittore impegnato! Il romanzo, infatti, ci
fornisce l’identità della forza del bene, capace di porre rimedio ad una
situazione compromessa, e la identifica nell’armonia, nell’ordine,
nell’equilibrio della natura che trovano concretezza nelle espressioni
artistiche e letterarie, confermando l’intuizione di dostoevskijana memoria. Ma
è nel linguaggio e nella struttura compositiva che Micozzi esalta le sue non
comuni doti di navigato narratore. Attraverso la creazione di un caleidoscopio
di personaggi e il ricorso a conoscenze psicologiche, antropologiche,
sociologiche, storico-geografiche, sviluppa il suo progetto di scrittura con un
susseguirsi frenetico di momenti di suspense e di flash-back, che uniti a
descrizioni esageratamente dettagliate, a prima vista finiscono per innervosire
il lettore perché rallentano la scoperta di una situazione che stava per
chiarirsi, ma in effetti assolvono alla funzione di prendere tempo, di far
crescere la curiosità e rendere più intrigante, più affascinante la lettura. E poi il lessico! Una raffica di
aggettivi ed espressioni spesso messi artatamente in contrasto (molto
improbabile ma quasi possibile - ebbre di tutto e di niente - ecc.); un
ampio ed esplicito uso delle marche, per trasmettere un senso di modernità e
precisione; stranierismi volutamente rivisitati (scic, scioc, ecc.);
toponimi reali misti ad altri artefatti, ma facilmente individuabili; autentici
fuochi d’artificio di termini colti e ricercati, neologismi di scopo,
storpiature suggestive e accattivanti. Tutto nel solco della migliore
tradizione micozziana, anzi, oltre!