L’economia
non l’hanno inventata i protestanti dell’Europa della Riforma. In una pagina di apertura del volume di
Benedetto Cotrugli Il libro dell’arte della mercatura (2022, pagg. 352)
pubblicato dalla Guerini Next, ma anche con il sostegno economico della Vitale
- Zane & Co. con scritti di Carlo Carraro, Tiziana Lippiello, Fabio L.
Santin, a cura di Vera Ribaudo che è autrice anche del testo in lingua italiana
corrente rispetto a quello originale in lingua volgare, Marco Vitale ha messo
per me questa dedica: l’economia non l’hanno inventata i protestanti. E
infatti, nelle sue ben quaranta pagine di introduzione al volume, Vitale cerca
di farci capire che l’umanista e cristiano dalmata Cotrugli non è spuntato dal
nulla, e annovera Albertano da Brescia fra i precursori di quel Quattrocento
tanto vitale e dinamico dal punto di vista dell’intrapresa e della mercatura.
Come ci ricorda Vitale, citando un passo del suo concittadino: “sono onesti
li guadagni se son fatti con giustizia”; Albertano vergava queste parole un
paio di secoli prima di Cotrugli, elogiando il lavoro e la vita attiva di colui
che intraprende e commercia. L’intento di Vitale è di dimostrare come Albertano
con la sua visione apra la strada a quella attività mercantile che si affermerà
con forza nei secoli successivi rendendo prospere le città. “Legittimazione di
lavoro e profitto” lecito, “spirito di impresa” sono già ben radicati nel
pensiero del giurista bresciano, anch’egli profondamente cristiano. Una
visione, la sua, che conciliando sentire cristiano ed etica, darà una spinta importante
al dinamismo della nascente borghesia mercantile. Ceto, questo, che non potrà
non trovarsi in contrasto con i dettami rigidi e oramai superati, dei vincoli
frapposti all’intrapresa dalle gerarchie cattoliche. Ricordiamoci, tuttavia,
che le repubbliche marinare italiane si affermano già tra il IX e X secolo, e i
mercanti viaggiatori di queste repubbliche muovevano idee, merci e
denari, secoli prima che il puritanesimo protestante entrasse in rotta di
collisione con la Chiesa istituzionale. Non l’hanno inventata i protestanti
l’economia, questo è certo, e troviamo mercanti e prestatori di pecunia
italiani nei luoghi dell’Occidente ovunque: dalle Fiandre a Lisbona, da Londra
a Siviglia, da Bordeaux a Bruges e così via.
L’economia
nasce con la produzione di beni e con lo scambio dei prodotti necessari per
alimentarsi e sopravvivere, ma sarà con l’introduzione della moneta che
l’economia moderna diventa capitalistica. Sono i mercanti che scambiando merci
in cambio di denaro daranno vita e forma a quest’ultima. L’economia, dunque, è
antica quanto l’uomo che ha imparato a lavorare la terra e agli artigiani a
produrre oggetti da scambiare. Per un tempo lunghissimo si è creduto, sulla
scia di Max Weber, che era stata l’etica protestante del lavoro a informare di
sé e dare forza allo spirito del capitalismo. Niente di più falso. Gli uomini
hanno sempre lavorato e hanno sempre saputo il valore del lavoro: non fosse
altro perché si spaccavano la schiena e vivere è sempre costato fatica, sudore,
dolore. Di lavoro si muore oggi, come ai primordi di lavoro si moriva. I
parassiti fanno storia a sé, e fra i parassiti annoveriamo Re, nobili dai
titoli fra i più diversi, uomini d’arme, alti prelati, ecc. Buona parte di loro
estorcevano con la forza i prodotti per alimentarsi; obbligavano con la
schiavitù ed il servaggio al lavoro i diseredati e lasciavano a costoro il
minimo per la sopravvivenza, ma spesso neppure quello. Le terre coltivabili, i
boschi e le risorse naturali appartenevano alla nobiltà e al clero che li
avevano usurpati con la forza e con le guerre. Se da una parte esistevano
comunità religiose che avevano nella loro regola l’obbligo della preghiera e
del lavoro (bonificavano, coltivavano, raccoglievano, conservavano), dall’altra
si affermeranno i mercanti che daranno vita al commercio su larga scala:
investono, mercanteggiano, comprano merci e le trasformano. Con la loro entrata
in scena il divieto di esercitare il dannoso commercio imposto dal Codex
ai nobili di nascita e a chi ha conseguito ricchezze ed onori, diventa più
rigido. In che modo avessero conseguito ricchezze ed onori i nobili e i
militari, il Codex non se lo poneva. Non se lo ponevano neppure i dottori della
Chiesa, dediti alla nobile pratica del pensiero e della scrittura, ma qualcuno
l’ignobile mestiere di produrre il cibo che mangiavano e i panni con cui si
coprivano era pur sempre costretto a farlo.
Diversamente
dai lavoratori manuali, quasi tutti stanziali, i mercanti si muovono,
viaggiano, navigano, rischiano. Vanno anche molto lontano a procurarsi le merci
e a loro volta portano le loro su altri mercati. Commerciano con l’intento di
arricchire e nella loro visione questo principio è logico, naturale,
necessario. Il guadagno è radicato nella natura stessa del commerciare, diventa
consustanziale all’impresa della vita activia. Non ci vedono nulla di
peccaminoso e di contrario alla loro religione, perché il mondo mercantile
delle origini è ancora profondamente cristiano e ha fatto suo il motto di
acquistare roba con honoreetsenza ofendere Dio et lo proximo.
Il fine de lo mercante è guadagniari et inrichire, come annota Benedetto
Cotrugli ne Il libro dell’arte della mercatura scritto nel 1458. E non è
un caso se il Secondo libro della sua opera Cotrugli lo dedica tutto alla religione
che è necessaria al mercante, fissando i princìpi etici e comportamentali
che sono tutti rigorosamente circoscritti all’interno dell’ortodossia dei testi
sacri della Chiesa.
Sono grato a
Vitale di avermi fatto conoscere questo libro perché al di là degli aspetti
legati alla mercatura e ai suoi artefici, lo spirito culturale che vi domina è
quello tipico del dotto umanista. Filosofia, religione, morale, buon governo
della casa, buon vivere e moderati costumi, sono sparsi nell’opera con continui
rimandi all’autorità degli antichi, ai loro libri e con richiami ai loro
insegnamenti. Purtroppo anche a quelli più odiosamente misogini e autoritari.
Ma non dobbiamo mai dimenticare che l’eredità culturale si radica nella storia
per periodi lunghissimi, e permane dentro quegli stessi secoli che a noi
appaiono illuminati e di rinascita. Ma, in particolare, ho apprezzato questo
dono di Vitale perché il linguaggio opera sempre su di me una fortissima
seduzione. Ed è stato magnifico che Cotrugli lo abbia scritto in lingua volgare
questo libro rinunciando al latino, lingua “multo più degna che la vulgare”. Il
godimento che ne ho provato è stato immenso, maggiore che se lo avesse “scripto
in sermon latino” come si proponeva. E poi, come sempre accade, la gioia di
imbattermi in decine e decine di parole così simili a quelle tuttora usate
nella mia lingua madre calabrese.