Silvio Aman
condensa in Garten (puntoacapo, 2022)
la grande maggioranza del suo lavoro ad oggi edito, rinfrescandolo e
riorganizzandolo in vari comparti a esibire la sua prismatica personalità. È
questo infatti un “ritratto dell’esteta”, attratto dalla bellezza nelle sue
molteplici espressioni, tra tutte quella musica che è la dimensione che compone
la forma e che ogni forma prende a comporre. In questo libro, Aman pare
raggiungere le musicalità di un Ravel, di un Satie e di un Debussy, e lì dove i
ritmi delle sue ‘sinfonie’ parrebbero girare intorno ad una sola tonalità, di
poesia in poesia esse mutano dinamicamente come di melodioso loop in melodioso
loop. Non si deve poi cadere nel facile errore di considerare Garten come un “libro di giardini”, o
meglio, il poeta ne rievoca in quanto luoghi della propria infanzia, come pure
luoghi delle metamorfosi più mature: scatenatori della sua memoria proustiana
sino a trasmutarlo in ape o fiore, nell’acqua del lago su cui riluce in scaglie
una carezza divina, etc. Garten è
anzitutto il diario di un iperboreo, di quello straniero che non si riconosce
tra gli indelicati, gli sgomitanti, gli asseverativi: egli non intende lasciare
pesi, con l’amicizia preferisce donare libertà. L’iperboreo, creatura liquida
che si fa luogo della propria contemplazione e contemplatore di quello stesso
luogo (per metafora, giardino e giardiniere), non ha verità e sembra riferirsi
a un Dio che non può essere detto, un Dio che è nel mistero svelato in modo
tanto sottile e confuso negli sprazzi della Natura. Aman si fa forse
“giardiniere” anche e soprattutto in interiore dissidio con quella natura umana
che rende aggressivi e vili, ma la Bellezza chiede di rimettere una tale
costituzione per poterci immergere nell’infinito non-tempo e non-essere del
contemplare.