Gutta cavat lapidem: può essere così sintetizzato
l'utilizzo dell'opera di Gramsci nell'ambito della "doppiezza
togliattiana" per far sì che si scavasse nel monolite del
"marxismo-leninismo" (solidificato in chiave idealistica)? Il tema percorre la prima parte di En attendant Marx di
Marcello Montanari (2023 edizioni Biblion) che descrive l'itinerario del
marxismo italiano dal 1945 al 1989.Almeno fino al convegno
gramsciano del 1958 con le relazioni di Togliatti e Garin il confronto teorico
sul marxismo sembrava misurato tra lo storicismo di "Società" che
conservava un rapportocon la filosofia
idealistica (anche se verso di questa era fortemente critica) nel modo di
immaginare la trasformazione di una classe particolare in classe generale e il
collocarsi tra "uomo copernicano" e "uomo totale"
nell'interlocuzione con i livelli più alti della filosofia moderna (il
neo-kantismo di Banfi e il neo-positivismo di Dalla Volpe).Il tutto però non oltrepassava il marxismo ortodosso.Togliatti (nel corso del convegno già citato e
rispondendo anche a Bobbio) utilizza Gramsci (di cui aveva già fatto pubblicare
un'edizione "ragionata" dei Quaderni) sorpassando l'interpretazione
di Sereni che lo riduceva a esponente del materialismo storico - dialettico.Nell'occasione Togliatti richiama come la stessa
formazione del gruppo dirigente del PCI fosse avvenuta al di fuori dagli
orientamenti ideali e politici sovietici (nel testo di Montanari si fa cenno al
volume "La formazione del gruppo dirigente del partito comunista
italiano1923-24).È da questo
orientamento che deriva (riprendo il testo di Montanari): "il Partito
non più espressione degli interessi di una sola classe sociale, ma di una
soggettività politica di massa, co-fondatrice della nuova democrazia
costituzionale nata nel'48". Così di seguito: "il
marxismo doveva mostrare di sapersi misurare anche con una lettura della storia
nazionale (della storia del Risorgimento così come di quella del fascismo, cui
Togliatti stesso aveva dedicato le lezioni pubblicate da ‘Stato Operaio’)
per offrire una propria lettura dei processi costitutivi dell'identità
nazionale, per mostrare la sua capacità di guardare agli interessi collettivi
e, infine, per giungere a una esatta comprensione delle mutazioni della
morfologia sociale indotte dalla modernizzazione capitalistica".
Su di un punto però la riflessione post-togliattiana accumulò un
sensibile ritardo: nella costruzione diquell'intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni
dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci aveva
indicato (un ritardo che poi si sarebbe visto, spaventosamente, al momento
della liquidazione del partito nell'89): riforma culturale e morale che avrebbe
dovuto colmare, nel disegno del grande pensatore sardo, la realtà di un paese
che non aveva avuto la riforma religiosa e che aveva costruito il suo
“Risorgimento” soltanto attraverso l'opera di una élite intrisa di
romanticismo.Non si può fare a meno di considerare la
"centralità gramsciana" pur nell'articolazione della riflessione
marxista sviluppata in Italia nel corso del XX secolo.Gramsci infatti fu il solo, tra i marxisti della sua epoca,
che non si limitò a spiegare il fallimento della rivoluzione nei punti alti
dello sviluppo capitalistico con la teoria del “tradimento” dei
socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso
tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era
immatura ed il suo consolidamento in Stato un errore.
Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della
Rivoluzione Russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate.La
rivoluzione russa rappresentava, però, il retroterra necessario (e il leninismo
un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente, di percorso
diverso e di esito più ricco.La rivoluzione
era dunque, per Gramsci, un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la
conquista del potere statale, pur necessaria, interveniva ad un certo punto
secondo le condizioni storiche, e in Occidente presupponeva comunque un lungo
lavoro di conquista di “casematte”, la costruzione di un blocco storico tra
classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con
proprie radici culturali e politiche.Nel
contempo, una tendenza già inscritta nello sviluppo capitalistico e nella
democrazia ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole
che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo
umano già in formazione. Tutto questo è stato disperso e sospeso nella
polverizzazione degli anni ’80-’90.