Continuandole
considerazioni fatte nella pubblicazione intitolata: “La cricca”, mi
soffermerò su parole che acquisiscono significato da metafore del grembo o da
processi formativi attinenti al grembo. I latini individuarono quies quetis:
quiete, riposo, tempo del sonno (notte), sonno della
morte nella fase iniziale del concepimento, quando cresce il flusso
gravidico e il grembo non dà segni di vita. Da quies: quiesco, quetus,
requies: riposo, pace, quindi: inquieto, inquietudine,
acquietarsi, che ha in sé la cessazione di fragori, di chiasso, di
rumori, di tensioni. Con munusmuneris indicarono: compito,
funzione, dovere, ma anche: dono, offerta,
attraverso questa perifrasi che rimanda a ciò che avviene nel grembo: durante
la gestazione, a seguito della crescita del flusso gravidico, avviene
il legare, che indica la fatica del pastore, ma anche la funzione, il
compito del pastore stesso. Per quanto riguarda il significato di: dono/offerta
bisogna pensare che tra i compiti, in quel periodo, ci fosse anche quello
di fare doni/offerte, oppure, supporre che si tratti di omofonia
e, quindi, di una seconda perifrasi.
I latini dalla radice ru, alla greca ρου, dedussero: ρουmpo/ruptus,
ragionando così: quando finisce il tempo stabilito avviene la rottura della
bolla, in cui è contenuta la creatura, con conseguente rottura delle acque,
quindi, dedussero: irrompo/irruzione, erompo/eruzione, corrompere/corruzione.
Da precisare che il primo concetto di corruzione rimanda al deterioramento di
quanto ormai maturo non nasce, quindi acquisì il concetto di: sedurre/subornare.
Per citare qualche altro dedotto: rumino e, in dialetto, runnar’,
che è il temporeggiare, l’attardarsi. Da ρoυ, con una serie di generativi logici e cambiando il
contesto, il pastore latino elabora: e-ru-dio/eruditum: istruisco,
coltivo, indottrino. L’erudizione è stata tacciata di nozionismo
e di pedanteria, ma quella del pastore è ben altra cosa: l’osservazione di come
si realizza la formazione della creatura porta ad elaborare la dottrina, la
teoria. Pertanto, l’erudito non sarà geniale artista, ma possiede il sapere
necessario per esercitare un’arte. Inoltre, i
latini elaborarono frango/fractum: spezzo, rompo probabilmente
dalla radice φραγ, che aveva dato luogo, in greco, a φράσσω: chiudo, cingo, munisco. Infatti, da frag
dedussero: frag-ile, per indicare com’è il tessuto della bolla che
contiene il feto, fragmento (frammento), quindi: il participio
perfetto fractus, da cui fractio, anfratto, infrazione
e frattura. Senza indugiare sui tanti significati dedotti da φρἀσσω/φράττω, vorrei dire che la parola sfratto è da
collegare a φράττω, ad indicare la creatura che viene allontanata dal
luogo munito a seguito della nascita, ma anche il dialettale sfrasso (han’
fatto u sfrass’), che indica divertimento, baldoria, rimanda allo stesso verbo,
se, in greco, ἐκφράσσωsignificò: sturo,
tolgo gli ostacoli. Anche la farsa (in alcuni dialetti: frassia)
rimanda alla radice φραγ.
L’aggettivo francus: sincero, schietto, leale è da collegare ad un’espansione logica
della radice αγχ (dal generare il passare), che, in greco, aveva dato luogo ad: ἄγχω: serro, stringo, affliggo, che aveva
contestualizzato il travaglio. La nuova perifrasi suona così: nasce dal generare lo scorrere il
passare, in quanto avviene il legare; in altri termini si volle dire che è franco chi asserisce che il feto
trascorre la sua esistenza da ristretto. La parola Franchi trasforma la
desinenza us del nominativo: da legare a mancare, per cui i Romani
dissero sono quelli che mancano dal generare lo scorrere il nascere, ad indicare la violenza
esercitata dai Franchi nei riguardi dell’impero romano, per cui godevano di franchigie, da cui l’espressione
dialettale: libero e
franco (anche: porto franco) e la nascita, in
Italia, di paesi denominati Francavilla. Quando i
greci vollero indicare muro, coniarono τοῖχος, per cui dissero: durante i nove mesi la creatura è protetta da pareti,
che è una delle tante cose che avvengono durante la gestazione, asserendo alla
lettera: va a generare il tendere il passare ciò che manca: parete. Da τοῖχος dedussero: τεῖχος: le mura.
Con lo stesso procedimento i latini formarono murus, dall’ho il rimanere
(nel grembo) scorre ciò che manca (c’è il muro), quindi coniarono moenia
moeniorum, che, parimenti, rimandano al rimanere. Con muro
indicarono quello della domus, mentre con moenia quelle della civitas. I greci
dedussero μακρός: grande, che ha, comunque, tanti
significati, da una immagine del grembo: la creatura in formazione è grande,
quando sta per nascere: dissero, inoltre, che è micro,
individuando il concetto di piccolissimo, all’inizio della gestazione.
Tutto il
processo formativo di minusminoris e di minuo prende le
mosse dal verbo (minytho) μινύθω: rimpicciolisco,
diminuisco, decresco, mi consumo, svanisco,
significati dedotti dalla lettura di quanto avviene, o si ritiene che avvenga,
nel grembo, a seguito della crescita del flusso gravidico, dal quale si inizia
il processo di formazione: il liquido è tanto, la creatura è piccola piccola.
Poi, la radice μινυθ passa a Roma e i latini desumono minu-s minoris
(in quanto la teta di minus si assibila: μινους), asserendo che quel corpicino appena legato alla madre è più piccolo,
da minus ricavarono: minimo, minu-o/minutum: sminuzzo,
riduco, rimpicciolisco, per cui dal participio passato minutus (rimpicciolito)
furono dedotti tutti i significati assegnati a minuto, il primo dei
quali introduce una comparazione implicita: è minuto significa: è più
piccolo degli altri. Quindi, si formarono: de-minuo, sminuisco,
sminuzzo (in dialetto: amminuzz’/amminuzzà). Per indicare
la durezza di un corpo, greci e latini fecero riferimento al grembo prossimo al
parto o al chicco di grano maturo, quindi ebbero: στερεός(stereotipo),
σκληρός(sclerotico),
duro, solido, da ῥῖγος (freddo, gelo, rigore) i latini dedussero rigido. Per indicare
un corpo tenero, pensarono ai primi germogli o alle carni di
piccolissimi. I greci formularono τέρηντέρενος, asserendo: da dentro dal tendere dallo scorrere è ciò che lega. I greci dalla
radice εχ (dal passare) coniarono ἔχ-ωcon
significati concernenti il periodo della gestazione: ho, ospito, abito,
dimoro, contengo, amministro, conosco, comprendo. Inoltre, da εχ, aggiungendo
σω, che
significa: genera il mancare, i greci coniarono: ἔξω: fuori,
a voler significare che, decorsa la gestazione, la creatura fuoriesce,
per cui gli italici dedussero: esco, uscio, uscita.
I latini
dalla radice t-en/tηn (da dentro il tendere: durante la gestazione)
dedussero (eo, infatti, significa: ho da) (eo): t-en-eo: ho,
tengo, possiedo, occupo, attecchisco (vitis tenet)
ecc. Da questo verbo, poi, mediante prefissi e suffissi, dedussero tantissimi
verbi, nomi e aggettivi: de-tineo/detentum, con-tineo/contentum,
anche l’aggettivo contento, re-tineo/re-tentum: trattengo,
fermo, modero, freno, in italiano ritengo nel senso
di puto, anche ritegno come frenomorale (per i
latini: inhibitio, in greco: ἐπί-σχεσις: cessazione,
repressione, ritegno, che attiene anche al riguardo per quel che si
ha in grembo, in quanto σχέσιςsignificò
anche: trattenimento, ritenzione), in dialetto: r’itininzia
(da retinente: che si trattiene), da cui l’espressione: an ten’s’
r’tininzi-(a): incapacità di contenersi. Quindi, con il
prefisso abs (dall’andare il mancare) formarono abs-tineo/abstentum:
se non voglio quel tenere, mi astengo, con ob (aob/oab: genera
l’ho l’andare/dall’andare faccio generare dal tenere), a parte il
significato prepositivo: a causa di, generarono ob-tineo: quando
ho quel tenere lungamente desiderato, quindi: con ad (in questo caso:
genera il legare) ebbero at-tineo/attentum, poi: attinente:
che riguarda, che concerne, quindi: attenersi,
continuando: per-tineo: mi estendo fino a (che è lo sviluppo
massimo del tenere), anche qui: che riguarda, che concerne, poi: impertinente:
che non riguarda, quindi indicò chi non sta nel suo ambito: invadente,
irriguardoso. Gli italici, inoltre, dedussero: a tentoni, che è
proprio di chi si muove in un ambiente completamente buio.
Quel tenere
fece pensare che la creatura in grembo è tenace: imperterrita
prosegue, ma, soprattutto, quando è stretta nella morsa, mai demorde,
quindi, tenaglia/tanaglia, per cui quando diciamo: mi attanaglia
è qualcosa che entra nelle viscere. Poi, ricavarono: tenuis, tenue:
esile (l’erbetta), sottile, fine, debole, di
poco conto, attenuo, ten-er, poi, dal desueto tenerente,
che è colui che è tenero (piccolo piccolo), si ebbe la tenerezza,
quindi: “intenerisce il core”del Leopardi. Da teneo, il
deverbale ten-or tenoris, che non solo indicò: corso non
interrotto, la maniera (tenore di vita), ma anche colui che
tende la voce fino a farla mancare. Poi il pastore latino pensa all’ambiente in
cui è tenuta la creatura e conia tenebra/tenebre, per i greci è Erebo,
che è simile al luogo in cui vive la creatura in formazione. I greci
coniarono moltissime radici, che suggeriscono dei temi da trattare e da
sviluppare. Poi, aggiunsero altri simboli, che ebbero la funzione di modificare
il contesto da interpretare. Dalle radici λαθ/ληθ, su cui mi sono soffermato a lungo, i greci dedussero
λανθάνω: mi celo, mi nascondo, λαθρῃ: di nascosto (da cui gli italici: il
latrato del cane per chi si avvicina di nascosto), λήθη: oblio, dimenticanza, ληθαργέω: dimentico, ληθαργία: sonnolenza,
l’aggettivo ληθαργός: letargico, poi, come sostantivo: sonno
letargico. Da queste radici, furono formati tanti nomi e per citarne
alcuni: lesto, lassus (stanco), laxus: lento, allentato
(dalla forma dialettale: lasco si spiega laxus, con metatesi di
posizione: θκ in κθ), elastico,
lat-ebra: rifugio, nascondiglio buio, recesso, che
rimanda a λανθάνω: nascondo (il grembo come luogo del
nascondimento). Anche let-um: morte e, quindi, letale può
discendere da ληθ, in quanto: genera lo sciogliere dal crescere il
rimanere, probabilmente fece pensare alla morte da parto.