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domenica 14 maggio 2023

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
 


Minuto (cap.II°)


Continuando le considerazioni fatte nella pubblicazione intitolata: “La cricca”, mi soffermerò su parole che acquisiscono significato da metafore del grembo o da processi formativi attinenti al grembo. I latini individuarono quies quetis: quiete, riposo, tempo del sonno (notte), sonno della morte nella fase iniziale del concepimento, quando cresce il flusso gravidico e il grembo non dà segni di vita. Da quies: quiesco, quetus, requies: riposo, pace, quindi: inquieto, inquietudine, acquietarsi, che ha in sé la cessazione di fragori, di chiasso, di rumori, di tensioni.
Con munus muneris indicarono: compito, funzione, dovere, ma anche: dono, offerta, attraverso questa perifrasi che rimanda a ciò che avviene nel grembo: durante la gestazione, a seguito della crescita del flusso gravidico, avviene il legare, che indica la fatica del pastore, ma anche la funzione, il compito del pastore stesso. Per quanto riguarda il significato di: dono/offerta bisogna pensare che tra i compiti, in quel periodo, ci fosse anche quello di fare doni/offerte, oppure, supporre che si tratti di omofonia e, quindi, di una seconda perifrasi. 

   


I latini dalla radice ru, alla greca ρου, dedussero: ρουmpo/ruptus, ragionando così: quando finisce il tempo stabilito avviene la rottura della bolla, in cui è contenuta la creatura, con conseguente rottura delle acque, quindi, dedussero: irrompo/irruzione, erompo/eruzione, corrompere/corruzione. Da precisare che il primo concetto di corruzione rimanda al deterioramento di quanto ormai maturo non nasce, quindi acquisì il concetto di: sedurre/subornare. Per citare qualche altro dedotto: rumino e, in dialetto, runnar’, che è il temporeggiare, l’attardarsi. Da ρoυ, con una serie di generativi logici e cambiando il contesto, il pastore latino elabora: e-ru-dio/eruditum: istruisco, coltivo, indottrino. L’erudizione è stata tacciata di nozionismo e di pedanteria, ma quella del pastore è ben altra cosa: l’osservazione di come si realizza la formazione della creatura porta ad elaborare la dottrina, la teoria. Pertanto, l’erudito non sarà geniale artista, ma possiede il sapere necessario per esercitare un’arte.
Inoltre, i latini elaborarono frango/fractum: spezzo, rompo probabilmente dalla radice φραγ, che aveva dato luogo, in greco, a φράσσω: chiudo, cingo, munisco. Infatti, da frag dedussero: frag-ile, per indicare com’è il tessuto della bolla che contiene il feto, fragmento (frammento), quindi: il participio perfetto fractus, da cui fractio, anfratto, infrazione e frattura. Senza indugiare sui tanti significati dedotti da φρσσω/φράττω, vorrei dire che la parola sfratto è da collegare a φράττω, ad indicare la creatura che viene allontanata dal luogo munito a seguito della nascita, ma anche il dialettale sfrasso (han’ fatto u sfrass’), che indica divertimento, baldoria, rimanda allo stesso verbo, se, in greco, κφράσσω significò: sturo, tolgo gli ostacoli. Anche la farsa (in alcuni dialetti: frassia) rimanda alla radice φραγ.



L’aggettivo francus: sincero, schietto, leale è da collegare ad un’espansione logica della radice αγχ (dal generare il passare), che, in greco, aveva dato luogo ad: γχω: serro, stringo, affliggo, che aveva contestualizzato il travaglio. La nuova perifrasi suona così: nasce dal generare lo scorrere il passare, in quanto avviene il legare; in altri termini si volle dire che è franco chi asserisce che il feto trascorre la sua esistenza da ristretto. La parola Franchi trasforma la desinenza us del nominativo: da legare a mancare, per cui i Romani dissero sono quelli che mancano dal generare lo scorrere il nascere, ad indicare la violenza esercitata dai Franchi nei riguardi dell’impero romano, per cui godevano di franchigie, da cui l’espressione dialettale: libero e franco (anche: porto franco) e la nascita, in Italia, di paesi denominati Francavilla.  
Quando i greci vollero indicare muro, coniarono τοχος, per cui dissero: durante i nove mesi la creatura è protetta da pareti, che è una delle tante cose che avvengono durante la gestazione, asserendo alla lettera: va a generare il tendere il passare ciò che manca: parete. Da τοχος dedussero: τεχος: le mura. Con lo stesso procedimento i latini formarono murus, dall’ho il rimanere (nel grembo) scorre ciò che manca (c’è il muro), quindi coniarono moenia moeniorum, che, parimenti, rimandano al rimanere. Con muro indicarono quello della domus, mentre con moenia quelle della civitas.
I greci dedussero μακρός: grande, che ha, comunque, tanti significati, da una immagine del grembo: la creatura in formazione è grande, quando sta per nascere: dissero, inoltre, che è micro, individuando il concetto di piccolissimo, all’inizio della gestazione.



Tutto il processo formativo di minus minoris e di minuo prende le mosse dal verbo (minytho) μινύθω: rimpicciolisco, diminuisco, decresco, mi consumo, svanisco, significati dedotti dalla lettura di quanto avviene, o si ritiene che avvenga, nel grembo, a seguito della crescita del flusso gravidico, dal quale si inizia il processo di formazione: il liquido è tanto, la creatura è piccola piccola. Poi, la radice μινυθ passa a Roma e i latini desumono minu-s minoris (in quanto la teta di minus si assibila: μινους), asserendo che quel corpicino appena legato alla madre è più piccolo, da minus ricavarono: minimo, minu-o/minutum: sminuzzo, riduco, rimpicciolisco, per cui dal participio passato minutus (rimpicciolito) furono dedotti tutti i significati assegnati a minuto, il primo dei quali introduce una comparazione implicita: è minuto significa: è più piccolo degli altri. Quindi, si formarono: de-minuo, sminuisco, sminuzzo (in dialetto: amminuzz’/amminuzzà).
Per indicare la durezza di un corpo, greci e latini fecero riferimento al grembo prossimo al parto o al chicco di grano maturo, quindi ebbero: στερεός (stereotipo), σκληρός (sclerotico), duro, solido, da ῥῖγος (freddo, gelo, rigore) i latini dedussero rigido.
Per indicare un corpo tenero, pensarono ai primi germogli o alle carni di piccolissimi. I greci formularono τέρην τέρενος, asserendo: da dentro dal tendere dallo scorrere è ciò che lega.
I greci dalla radice εχ (dal passare) coniarono χ-ω con significati concernenti il periodo della gestazione: ho, ospito, abito, dimoro, contengo, amministro, conosco, comprendoInoltre, da εχ, aggiungendo σω, che significa: genera il mancare, i greci coniarono: ξω: fuori, a voler significare che, decorsa la gestazione, la creatura fuoriesce, per cui gli italici dedussero: esco, uscio, uscita. 



I latini dalla radice t-en/tηn (da dentro il tendere: durante la gestazione) dedussero (eo, infatti, significa: ho da) (eo): t-en-eo: ho, tengo, possiedo, occupo, attecchisco (vitis tenet) ecc. Da questo verbo, poi, mediante prefissi e suffissi, dedussero tantissimi verbi, nomi e aggettivi: de-tineo/detentum, con-tineo/contentum, anche l’aggettivo contento, re-tineo/re-tentum: trattengo, fermo, modero, freno, in italiano ritengo nel senso di puto, anche ritegno come freno morale (per i latini: inhibitio, in greco: πί-σχεσις: cessazione, repressione, ritegno, che attiene anche al riguardo per quel che si ha in grembo, in quanto σχέσις significò anche: trattenimento, ritenzione), in dialetto: r’itininzia (da retinente: che si trattiene), da cui l’espressione: an ten’s’ r’tininzi- (a): incapacità di contenersi. Quindi, con il prefisso abs (dall’andare il mancare) formarono abs-tineo/abstentum: se non voglio quel tenere, mi astengo, con ob (aob/oab: genera l’ho l’andare/dall’andare faccio generare dal tenere), a parte il significato prepositivo: a causa di, generarono ob-tineo: quando ho quel tenere lungamente desiderato, quindi: con ad (in questo caso: genera il legare) ebbero at-tineo/attentum, poi: attinente: che riguarda, che concerne, quindi: attenersi, continuando: per-tineo: mi estendo fino a (che è lo sviluppo massimo del tenere), anche qui: che riguarda, che concerne, poi: impertinente: che non riguarda, quindi indicò chi non sta nel suo ambito: invadente, irriguardoso. Gli italici, inoltre, dedussero: a tentoni, che è proprio di chi si muove in un ambiente completamente buio.



Quel tenere fece pensare che la creatura in grembo è tenace: imperterrita prosegue, ma, soprattutto, quando è stretta nella morsa, mai demorde, quindi, tenaglia/tanaglia, per cui quando diciamo: mi attanaglia è qualcosa che entra nelle viscere. Poi, ricavarono: tenuis, tenue: esile (l’erbetta), sottile, fine, debole, di poco conto, attenuo, ten-er, poi, dal desueto tenerente, che è colui che è tenero (piccolo piccolo), si ebbe la tenerezza, quindi: “intenerisce il core del Leopardi. Da teneo, il deverbale ten-or tenoris, che non solo indicò: corso non interrotto, la maniera (tenore di vita), ma anche colui che tende la voce fino a farla mancare. Poi il pastore latino pensa all’ambiente in cui è tenuta la creatura e conia tenebra/tenebre, per i greci è Erebo, che è simile al luogo in cui vive la creatura in formazione.
I greci coniarono moltissime radici, che suggeriscono dei temi da trattare e da sviluppare. Poi, aggiunsero altri simboli, che ebbero la funzione di modificare il contesto da interpretare. Dalle radici λαθ/ληθ, su cui mi sono soffermato a lungo, i greci dedussero λανθάνω: mi celo, mi nascondo, λαθρ: di nascosto (da cui gli italici: il latrato del cane per chi si avvicina di nascosto), λήθη: oblio, dimenticanza, ληθαργέω: dimentico, ληθαργία: sonnolenza, l’aggettivo ληθαργός: letargico, poi, come sostantivo: sonno letargico. Da queste radici, furono formati tanti nomi e per citarne alcuni: lesto, lassus (stanco), laxus: lento, allentato (dalla forma dialettale: lasco si spiega laxus, con metatesi di posizione: θκ in κθ), elastico, lat-ebra: rifugio, nascondiglio buio, recesso, che rimanda a λανθάνω: nascondo (il grembo come luogo del nascondimento). Anche let-um: morte e, quindi, letale può discendere da ληθ, in quanto: genera lo sciogliere dal crescere il rimanere, probabilmente fece pensare alla morte da parto.