La
tentazione di scriverne, mi era venuta. Ma poi no, mi ero detto, lascia
perdere. E invece stamani apro qui, e trovo questo bel messaggio della cara
Laura Vesperini, con questa dedica: “forse
sembrerà poco ma possiamo far sentire la nostra presa di posizione: firmiamo
per fermare cose assurde”. E
allora, la prendo anch’io, la penna, e racconto, forse può servire riflettere
un minuto sul succo della vicenda. Importante incontro pubblico, l’altra sera,
con un personaggio di rilievo nel nostro mondo di ‘risvegliàti’ e ‘consapevoli’
dopo gli anni terribili della reclusione-mentale-di-massa. Lo conosco solo di
fama. Per un profano come me poco più di un nome, ma tanta curiosità. E ben
ripagata! Mi ci ha invitato un vecchio amico e compagno di lavoro, gran
battaglieri entrambi negli anni del tracollo della scuola pubblica a Firenze. E
così accetto volentieri anche l’invito alla cena che precede l’appuntamento. Ne
approfitto per chiedergli, a questo amico che ha contribuito a organizzare la
serata, se pensa che si possa proporre - al fitto uditorio che già si è
materializzato in questo momento conviviale - una firma sotto il referendum contro
la guerra. Se all’inizio o in un intervallo o alla fine o anche niente, se può far
problema: il modulino vidimato me lo son portato dietro come spesso faccio
anche solo per racimolare una, due, tre adesioni. ‘Certo!’, mi fa lui. ‘Basta
però non intrecciarsi con la relazione e il dibattito’. E restiamo che, al
momento di presentare l’ospite, lui dirà che, alla fine, chi vuole tenga pronto
un documento se desidera aderire, perché due di noi saranno a disposizione per
questo. Già: due! Infatti scopro che c’è - fra il pubblico - un’altra donna
che, esattamente come me, testa dura pure lei, anche senza banchino, in piedi,
e soprattutto senza sigle, cappellini e bandierine, di questa guerra non ne può
più e bussa a tutte le porte quando può. Perfetto. La cena è finita e ci
avviamo alla conferenza. All’ospite, a cui il mio amico ha avuto la gentilezza
di presentarmi mentre si aspettava di entrare in trattoria, ho già chiesto - in
privato - se caso mai ha già firmato per questo referendum. Scopro, con qualche
sorpresa, che non ne sa nulla. Provo a imbastire un riassunto, e naturalmente
mi fermo lì: non mi sembra davvero il caso di insistere. Più tardi, quando
siamo già nella saletta che ci accoglie per la conferenza, e i preparativi
prendono un po’ di tempo, e restiamo tutti per un po’ in attesa senza far
nulla, Carla - la mia inattesa graditissima socia - mi suggerisce: ‘Perché non
le prendiamo adesso, un po’ di firme?’.
Cerco
il mio amico, ma dev’essere appunto dietro ai preparativi e non lo vedo e
allora rispettosamente conveniamo che è più saggio aspettare. E infatti eccolo
che arriva, dà finalmente il via alla serata, e annuncia questa nostra proposta
da consumare, chi lo gradisce, a fine incontro. Prende poi la parola, per la
presentazione dell’ospite, il referente dell’altro gruppo che ha provveduto a
invitarlo. Ecco: non me lo sarei aspettato. In questo ambiente, con questo
pubblico, la prima cosa che va a chiarire prima di introdurre il tema
scientifico e culturale della serata (la falsa scienza su virus, vaccini e
Biolab) è che… Andiamo per ordine. La sua associazione culturale, precisa, sul
referendum non assume posizione. Fin qui tutto bene, ci mancherebbe! Poi però
aggiunge un paio di considerazioni che, forse, influenzano in qualche modo
l’esito del nostro piccolo tentativo di saldare all’argomento delle armi
ideologiche quello delle armi materiali. ‘Io personalmente non saboto e non
aderisco’, aggiunge, ‘perché mi sembra un fuorviamento’. Se questa non è una
posizione… Bontà sua, però, dichiara il nostro, ‘sinceramente ognuno è libero
di fare quello che vuole’. Salvo concludere osservando che ‘quello che mi aveva
convinto in senso contrario era, fra i promotori, che ci sono i 5 Stelle’. Ecco,
questo - per quanto a me risulta - è semplicemente non vero! Dagli astanti si
leva allora una voce, la mia: ‘Non è il caso di questo referendum: non mettiamo
i 5 Stelle dove non ci sono!’. Digressione.
Già la formula ‘né aderire né sabotare’ richiama una parola d’ordine che non ha
contribuito, temo, a nobilitare la storia del nostro Paese. Siamo
a maggio del 1915, le ‘radiose giornate di Maggio’ celebrate dalla retorica
nazionalista, dannunziana, futurista, neo-mussoliniana, quella che preparò nelle
piazze l’intervento in guerra del Regno, e un bilancio finale - a novembre 1918
- di un giovane morto per ogni metro dei 600 chilometri del fronte. Nelle
segrete stanze, intanto, il ministro degli esteri Sidney Sonnino ha già concluso, il 26 aprile, le trattative con l’ex nemico;
con la firma del ‘patto di Londra’ il governo si impegna a
entrare in guerra entro un mese, all’insaputa di un Parlamento in maggioranza contrario,
in cambio della promessa di concessioni territoriali. E il 24 maggio il regime
già-liberale di Salandra dichiara guerra all’ex alleata Austria-Ungheria. Ora,
otto giorni prima di questo colpo-di-stato-di-fatto, la principale forza politica
di opposizione, l’allora partito socialista, non riesce a tradurre la propria
contrarietà all’intervento altro che col platonico messaggio ‘né aderire né
sabotare’. Dopo aver rinunciato anche allo strumento dello sciopero generale,
da un esecutivo ormai forte della debolezza del fronte neutralista si vede
negare anche le piazze per i comizi. Insomma, un bel risultato, no? Ecco: adottare
quella stessa formula, oggi, sarebbe davvero una buona idea? Ma
torniamo alla conferenza. La frittata è fatta. L’uditorio è stato dirottato su
una linea informativa erronea e, questa sì, fuorviante. Al termine, si è visto.
Almeno una sessantina, direi, i presenti (e probabilmente è un numero per
difetto). Quattro (4!) le firme raccolte.
Arrivo
dunque al succo del ragionamento che sto cercando di mettere insieme. A
prescindere dal caso singolo, dalle circostanze, dalle persone. Il
succo è che, se una ricostruzione come quella che ho fatto di questo piccolo
accadimento è seria e fondata, allora forse conviene rifletterci un attimo sopra
e provare a fare qualche passo avanti. Abbiamo speso fra le migliori energie
mentali e materiali, in questi ultimi anni, a combattere l’informazione drogata,
monolitica, faziosa, comandata. Abbiamo individuato in questo terribile
processo orwelliano una delle radici più profonde dei guai che affliggono, e
ancora minacciano, la nostra umanità. C’è una contorsione logica nella
comunicazione che leva le basi di credibilità a quasi qualsiasi ‘informazione’.
Abbiamo gioito del ritrovarci fisicamente accanto, gli uni alle altre, le une
agli altri, nelle giornate di resistenza al confinamento sociale, psichico ed
emotivo: per strada, in piazza, nelle serate carbonare in qualcuno dei pochi
ambienti rimasti sensibili all’esercizio del pensiero. E ancora l’altra sera è
stato bello rivedere - i nostri occhi brillavano, incrociandosi - persone che
in quei giorni, in quelle settimane, in quei mesi ho conosciuto per la prima
volta, e ho imparato a considerare nuovi fondamentali amici e compagni di
strada. Abbiamo scoperto insieme che tutto si tiene, e che è importante non
farsi sfuggire i nessi che spiegano un evento all’altro, e cercare le chiavi
comuni di lettura delle bufale che ci vengono propinate in tutte le salse
possibili.
Come può succedere allora che noi stessi, noi quelli che abbiamo
riscoperto la bellezza dello stare insieme, ci riveliamo sordi e ciechi di
fronte a evidenze come la turpitudine di questa e di tutte le guerre giocate a
suon di armi e massacri e devastazioni di relazioni, memorie e territori? E soprattutto,
come può succedere che noi, proprio noi, ricadiamo nella trappola
dell’informazione strumentale (qualcuno la chiama ‘ideologia’, qualcun altro
semplicemente ‘falsa informazione’), per difendere un punto di vista che
magari, per carità, di per sé ha diritto di cittadinanza come tutti gli altri? Voglio
dire: io posso ben considerare lo strumento del referendum un’arma spuntata,
una concessione all’ingenuità popolare. Ma è giusto colorarlo di attributi che
non gli appartengono, come - nel caso qui in questione - quello di avere
promotori partiticamente orientati, quando invece - ma se mi sbaglio, vi prego,
segnalatemelo, perché mi cospargo il capo di cenere e faccio subito ammenda! -
il suo unico promotore, il prof. Enzo Pennetta, lo ha voluto connotare da
subito come uno strumento scevro da quel tipo di connotazioni? Concludo.
Se davvero puntiamo a un rinnovamento anche culturale della componente
antropica (passatemi l’espressione scherzosa) del nostro pianeta, se davvero
non desideriamo disperdere in nuove sanguinose faide fra nuovi guelfi e nuovi
ghibellini quello che abbiamo capito, acquisito e vissuto, allora cerchiamo di
domandarci perché questo succede. Perdoniamoci pure gli errori, ma passiamoli
al setaccio di un giudizio laico e indipendente, così da non ripeterli, o
quanto meno replicarli il meno possibile. Perché, come rispondevo l’altra sera
a cena al mio caro amico della ‘Leonardo’ (come si chiamava una volta l’ITI di
via del Terzolle), c’è forse un nuovo manicheismo che rischia di infiltrarsi
fra di noi e dividerci, egocentrismi che spuntano e crescono e si candidano,
novelli magici sieri culturali che si propongono. Io credo che ognuno di noi è
‘normalmente’ a rischio di deriva e forse la cosa migliore da fare è praticare
l’umiltà, la compassione e l’amicizia. Tenerci insieme serve! Anche per mano. O
no?