4.
La disumanità della guerra e la sua
giustificazione ideologica. Il
nostro autore descrive efficacemente le battaglie del suo tempo, entra nei
dettagli di ciò che avviene nei combattimenti e non manca di osservare che la
descrizione di tutto ciò riempie di orrore, a tal punto che il cuore umano
rifugge perfino dal ricordare i tanti mali della guerra. È impressionante,
oggi, pensando anche e soprattutto all'enorme potenziale distruttivo della
tecnologia bellica del XXI secolo, l'accenno al cupo "tuono di
cannoni" (bombardarum tonitrua)
proprio delle armi da fuoco e dell'artiglieria che ai tempi di Erasmo erano
ancora ai primi passi e che ebbero nelle guerre europee un peso decisivo. Egli
osserva che nelle guerre del suo tempo nuovi strumenti bellici, come le frecce
intinte di veleno e tartareae machinae
(macchine infernali), stanno rendendo
la guerra ancora più spietata (crudelius)
e conclude sconfortato: "Nullum usquam hominis vestigium" ("Non
c'è più nessun vestigio di umanità", cfr. AD, 210-211). Distruzione di
uomini e cose, scatenamento della violenza, malvagità a profusione, sofferenze
inaudite, nulla sfugge all'occhio attento dell'autore di Dulce bellum inexpertis (cfr. AD, 204-205). Anche la "guerra
più giusta e più fortunata" (felicissimum...ac
iustissimum bellum) comporta innumerevoli mali, è un morbo fatale (exitialis
pestilentia) che corrompe la morale, produce tutte le piaghe
dell'esistenza, tende a estendersi, a varcare ogni confine. Essa è come il
"mostro di Lerna" (l'idra dalle molte teste uccisa da Eracle/Ercole,
cfr. AD, 206-207, 238-241 e Adagia
227: Lerna malorum), al quale
continuavano a rispuntare le teste, anche dopo essere state recise. Non a caso,
dunque, gli antichi poeti, come Virgilio, dissero che la guerra era stata
importata dall'inferno (ab inferis)
per opera di Aletto, la "più funesta" (pestilentissima) delle Furie (cfr. AD, 206-207 e Virgilio, Eneide, VII, 335 sgg.). Alcuni
grammatici fanno derivare la parola bellum
(guerra) da belua (o bellua, belva), perché è da belve
impegnarsi in un mutuum exitium (sterminio reciproco), ma definire ferinum o beluinum un conflitto armato appare ancora inadeguato, ancora
troppo poco ad Erasmo, per il fatto che - come già attestò Plinio il Vecchio
(cfr. Naturalis historia, VII, 5) -
all'interno della propria specie gli altri animali per lo più non si ammazzano
come facciamo noi: "At homini nulla fera perniciosior quam homo"
("Ma per l'uomo non c'è bestia più pericolosa dell'uomo", cfr. AD,
208-209, 198-199, 278-279).
Gli
altri animali, poi, quando combattono e uccidono, lo fanno prevalentemente per
l'istinto di conservazione, per soddisfare i propri bisogni e in modo conforme
alla propria natura (suis pugnant armis),
noi invece non solo ci dotiamo di armi micidiali e innaturali, ma scateniamo le
guerre più sanguinose e tragiche, più prolungate nel tempo per delle inanità (levicula, cfr. AD, 266-267), per i
motivi più futili e insulsi. Di causae
ridiculae delle guerre parla esplicitamente Erasmo, scorgendo nel tragicomico,
nell'insieme di tragico e comico - dove a prevalere è di gran lunga il tragico
-, una delle caratteristiche principali delle guerre del suo e del nostro
tempo, diciamo pure di tutti i tempi. Tra gli animali vi sono specie divise da
ostilità congenita, ma pure quelle unite da "genuina firmaque
amicitia"; tra gli uomini troviamo invece iugis pugna (guerra perpetua)
e non v'è alcuna alleanza veramente salda (ullum
satis firmum foedus). Il tradimento
della natura umana, della nostra
essenza, di ciò che davvero ci concerne conduce ai vertici del male che
soltanto noi umani raggiungiamo (cfr. AD, 208-209). Lo spettacolo di due uomini
che combattono fra di loro muniti delle loro armi è molto più vergognoso (foedius) e più crudele (immanius) di quello dello scontro tra un
leone e un orso (cfr. AD, 210-211). Erasmo è letteralmente indignato e
sconvolto dalla trasformazione guerresca dell'uomo in una belva pronta ad
uccidere, disponibile ad ogni violenza ed efferatezza. Quel che più colpisce è
che tutto ciò avviene tra gli esseri umani spesso senza alcuna reale necessità,
senza nessun bisogno vero, ma coltivando l'odio, il potere, il dominio, la sete
di ricchezze e la violenza come fini a sé stessi. Erasmo
solleva l'interrogativo circa l'uomo, questo animal (creatura) fatto
dalla natura per la benevolentia, la
dolcezza, la gentilezza e la pace, capace tuttavia di degenerare in una belva
crudele, in un essere furiose bellator.
Se potesse parlare, la architectrix
natura (natura architettrice) si
chiederebbe come è stata possibile la trasformazione di una creatura in certo
modo divina (divinum quoddam animal)
in una belva di incomparabile ferocia. Qui
l'autore degli Adagia si riallaccia
esplicitamente al Seneca delle Epistulae
morales ad Lucilium (XV, 95,31), che scrive: "Non pudet homines,
mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis
tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit" ("Gli uomini, che
pure sono una razza mitissima, non si vergognano di godere delle reciproche
stragi, di fare guerre e di lasciarle in eredità ai figli perché le portino
avanti, mentre anche le bestie e le fiere non combattono tra loro").
Erasmo
sa benissimo che i "più grandi mali" (maxima malorum) si sono sempre presentati sotto l'apparenza del
bene (cfr. AD, 212-213) e che i peggiori guerrafondai hanno sempre cercato di
condire le loro imprese con le argomentazioni più infondate e prestestuose. Con
l'esercizio del miglior spirito critico, egli comincia così ad avviare quella
che noi oggi chiamiamo la critica dell'ideologia (nel senso critico-negativo
privilegiato da Karl Marx), intesa come falsa coscienza, mistificazione,
tentativo di occultamento della realtà, inaugura la critica e lo smascheramento
della lunga storia (che giunge sino a noi) delle ideologie, delle fake news, delle cosiddette
"post-verità"; insiste sul peso enorme e sulla forza delle cattive
abitudini, della consuetudo
(consuetudine), sull'assuefazione ai cattivi comportamenti, sull'accettazione
acritica dei modi e degli stili di vita, su tutto ciò insomma che rende
possibile assumere senza riflessione le idee, gli usi e i costumi più assurdi e
discutibili. Nello
stesso secolo XVI di Erasmo, qualche decennio dopo di lui, nei suoi Essais (1580-1592) anche Michel de
Montaigne rifletterà acutamente sull' "Empire de la coutume"
("imperio della consuetudine"), sulle abitudini come "cattive
maestre"; la consuetudine viene definita negli Essais, "à la vérité une violente et traîtresse maîtresse
d'école" ("in verità una maestra di scuola prepotente e
traditrice") e poi, con Pindaro, "la Reine et Emperière du
monde" ("la regina e imperatrice del mondo").L'autore degli Adagia e Montaigne sono qui in piena corrispondenza e sintonia.
Nella insistenza con cui Erasmo mette in questione il ricorso troppo ingenuo e
scontato alla consuetudo, in queste
pagine egli si fa in qualche modo precorritore delle scoperte di quella antropologia culturale che troverà il
suo massimo sviluppo soltanto nella prima metà del XX secolo e che avrà il suo
grande precursore proprio negli Essais
di Montaigne.