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domenica 18 giugno 2023

ERASMO
di Franco Toscani
 


4. La disumanità della guerra e la sua giustificazione ideologica.
 
Il nostro autore descrive efficacemente le battaglie del suo tempo, entra nei dettagli di ciò che avviene nei combattimenti e non manca di osservare che la descrizione di tutto ciò riempie di orrore, a tal punto che il cuore umano rifugge perfino dal ricordare i tanti mali della guerra. È impressionante, oggi, pensando anche e soprattutto all'enorme potenziale distruttivo della tecnologia bellica del XXI secolo, l'accenno al cupo "tuono di cannoni" (bombardarum tonitrua) proprio delle armi da fuoco e dell'artiglieria che ai tempi di Erasmo erano ancora ai primi passi e che ebbero nelle guerre europee un peso decisivo. Egli osserva che nelle guerre del suo tempo nuovi strumenti bellici, come le frecce intinte di veleno e tartareae machinae (macchine infernali), stanno rendendo la guerra ancora più spietata (crudelius) e conclude sconfortato: "Nullum usquam hominis vestigium" ("Non c'è più nessun vestigio di umanità", cfr. AD, 210-211). Distruzione di uomini e cose, scatenamento della violenza, malvagità a profusione, sofferenze inaudite, nulla sfugge all'occhio attento dell'autore di Dulce bellum inexpertis (cfr. AD, 204-205). Anche la "guerra più giusta e più fortunata" (felicissimum...ac iustissimum bellum) comporta innumerevoli mali, è un morbo fatale (exitialis pestilentia) che corrompe la morale, produce tutte le piaghe dell'esistenza, tende a estendersi, a varcare ogni confine. Essa è come il "mostro di Lerna" (l'idra dalle molte teste uccisa da Eracle/Ercole, cfr. AD, 206-207, 238-241 e Adagia 227: Lerna malorum), al quale continuavano a rispuntare le teste, anche dopo essere state recise. Non a caso, dunque, gli antichi poeti, come Virgilio, dissero che la guerra era stata importata dall'inferno (ab inferis) per opera di Aletto, la "più funesta" (pestilentissima) delle Furie (cfr. AD, 206-207 e Virgilio, Eneide, VII, 335 sgg.). Alcuni grammatici fanno derivare la parola bellum (guerra) da belua (o bellua, belva), perché è da belve impegnarsi in un mutuum exitium (sterminio reciproco), ma definire ferinum o beluinum un conflitto armato appare ancora inadeguato, ancora troppo poco ad Erasmo, per il fatto che - come già attestò Plinio il Vecchio (cfr. Naturalis historia, VII, 5) - all'interno della propria specie gli altri animali per lo più non si ammazzano come facciamo noi: "At homini nulla fera perniciosior quam homo" ("Ma per l'uomo non c'è bestia più pericolosa dell'uomo", cfr. AD, 208-209, 198-199, 278-279).



Gli altri animali, poi, quando combattono e uccidono, lo fanno prevalentemente per l'istinto di conservazione, per soddisfare i propri bisogni e in modo conforme alla propria natura (suis pugnant armis), noi invece non solo ci dotiamo di armi micidiali e innaturali, ma scateniamo le guerre più sanguinose e tragiche, più prolungate nel tempo per delle inanità (levicula, cfr. AD, 266-267), per i motivi più futili e insulsi. Di causae ridiculae delle guerre parla esplicitamente Erasmo, scorgendo nel tragicomico, nell'insieme di tragico e comico - dove a prevalere è di gran lunga il tragico -, una delle caratteristiche principali delle guerre del suo e del nostro tempo, diciamo pure di tutti i tempi. Tra gli animali vi sono specie divise da ostilità congenita, ma pure quelle unite da "genuina firmaque amicitia"; tra gli uomini troviamo invece iugis pugna (guerra perpetua) e non v'è alcuna alleanza veramente salda (ullum satis firmum foedus). Il tradimento della natura umana, della nostra essenza, di ciò che davvero ci concerne conduce ai vertici del male che soltanto noi umani raggiungiamo (cfr. AD, 208-209). Lo spettacolo di due uomini che combattono fra di loro muniti delle loro armi è molto più vergognoso (foedius) e più crudele (immanius) di quello dello scontro tra un leone e un orso (cfr. AD, 210-211). Erasmo è letteralmente indignato e sconvolto dalla trasformazione guerresca dell'uomo in una belva pronta ad uccidere, disponibile ad ogni violenza ed efferatezza. Quel che più colpisce è che tutto ciò avviene tra gli esseri umani spesso senza alcuna reale necessità, senza nessun bisogno vero, ma coltivando l'odio, il potere, il dominio, la sete di ricchezze e la violenza come fini a sé stessi.
Erasmo solleva l'interrogativo circa l'uomo, questo animal (creatura) fatto dalla natura per la benevolentia, la dolcezza, la gentilezza e la pace, capace tuttavia di degenerare in una belva crudele, in un essere furiose bellator. Se potesse parlare, la architectrix natura (natura architettrice) si chiederebbe come è stata possibile la trasformazione di una creatura in certo modo divina (divinum quoddam animal) in una belva di incomparabile ferocia.
Qui l'autore degli Adagia si riallaccia esplicitamente al Seneca delle Epistulae morales ad Lucilium (XV, 95,31), che scrive: "Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit" ("Gli uomini, che pure sono una razza mitissima, non si vergognano di godere delle reciproche stragi, di fare guerre e di lasciarle in eredità ai figli perché le portino avanti, mentre anche le bestie e le fiere non combattono tra loro").



Erasmo sa benissimo che i "più grandi mali" (maxima malorum) si sono sempre presentati sotto l'apparenza del bene (cfr. AD, 212-213) e che i peggiori guerrafondai hanno sempre cercato di condire le loro imprese con le argomentazioni più infondate e prestestuose. Con l'esercizio del miglior spirito critico, egli comincia così ad avviare quella che noi oggi chiamiamo la critica dell'ideologia (nel senso critico-negativo privilegiato da Karl Marx), intesa come falsa coscienza, mistificazione, tentativo di occultamento della realtà, inaugura la critica e lo smascheramento della lunga storia (che giunge sino a noi) delle ideologie, delle fake news, delle cosiddette "post-verità"; insiste sul peso enorme e sulla forza delle cattive abitudini, della consuetudo (consuetudine), sull'assuefazione ai cattivi comportamenti, sull'accettazione acritica dei modi e degli stili di vita, su tutto ciò insomma che rende possibile assumere senza riflessione le idee, gli usi e i costumi più assurdi e discutibili.
Nello stesso secolo XVI di Erasmo, qualche decennio dopo di lui, nei suoi Essais (1580-1592) anche Michel de Montaigne rifletterà acutamente sull' "Empire de la coutume" ("imperio della consuetudine"), sulle abitudini come "cattive maestre"; la consuetudine viene definita negli Essais, "à la vérité une violente et traîtresse maîtresse d'école" ("in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice") e poi, con Pindaro, "la Reine et Emperière du monde" ("la regina e imperatrice del mondo").  L'autore degli Adagia e Montaigne sono qui in piena corrispondenza e sintonia. Nella insistenza con cui Erasmo mette in questione il ricorso troppo ingenuo e scontato alla consuetudo, in queste pagine egli si fa in qualche modo precorritore delle scoperte di quella antropologia culturale che troverà il suo massimo sviluppo soltanto nella prima metà del XX secolo e che avrà il suo grande precursore proprio negli Essais di Montaigne.