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martedì 31 ottobre 2023

LUTTI NOSTRI
di Angelo Gaccione


Padre Giuseppe con Albina Negrini

Padre Giuseppe Zaupa è morto. 

  
In questi ultimi tempi la mia vita è stata contrassegnata da notizie dolorose, da lutti e da una salute personale sempre più precaria. Tutto questo mentre è andato intensificandosi il mio impegno pubblico, l’urgenza di esserci con la parola, con la scrittura e con il corpo. Perché i tempi sono sempre più empi e spietati e a nessuno è concesso di sottrarsi. La notizia della morte di padre Giuseppe Zaupa, parroco della Basilica di San Carlo al Corso qui a Milano, mi è arrivata proprio in un momento in cui mi trovo per l’ennesima volta ammalato, e il dolore non ha fatto che triplicare. Perché benché abbiamo continuato a darci del lei, l’affetto e la stima reciproca sono sempre stati grandi. C’era stata subito un’intesa immediata e cordiale quando con alcuni amici del “Comitato di Odissea per Turoldo” eravamo andati a fargli visita in Basilica per annunciargli che grazie all’impegno del nostro Comitato, presto il Comune di Milano avrebbe dedicato al poeta, al partigiano, allo scomodo uomo di fede friulano che quella Basilica aveva retto come frate servita per tanti anni, un giardino nel cuore della città e a due passi dalla Basilica. Proprio in largo Corsia dei Servi, come avvenne il 25 giugno del 2019.
Con lui organizzammo poi le tre giornate di studio, di letture, di testimonianze. Mettemmo il bassorilievo in Basilica realizzato da Salvatore Sanna, e portammo tanta gente nell’Auditorium, arcivescovo compreso. A partire da quell’incontro i rapporti si rinsaldarono, aumentò la simpatia fra noi, si moltiplicarono le iniziative per Turoldo fino a dedicargli un Convegno a Palazzo Reale, una mostra nella sala ovale che gli venne dedicata, concerti, letture, esposizioni, proiezioni, incontri letterari, riunioni su riunioni. La Sala Turoldo divenne per volontà di padre Giuseppe la sede degli incontri di quello che, rimaneggiato, divenne il “Comitato Amici di padre Turoldo”.


padre Giuseppe e Gaccione
 
Grazie al suo indefesso impulso e persino quando il male si era insediato nel suo corpo, non si è tirato indietro; coadiuvato dalle premure di Albina Negrini e di quanti gli volevano bene, padre Giuseppe ha tenuto duro e non si è sottratto al suo impegno, alla sua delicata e fraterna amicizia. Nessuno di noi dimenticherà i pranzi conviviali e fraterni che ha voluto dedicarci. Credenti e non credenti accumunati da un identico sentire umano e spirituale come sempre aveva voluto padre Turoldo. Gli telefonavo di rado ultimamente perché in Basilica veniva poco, costretto com’era per le cure, a fare lunghe permanenze a Vicenza. Ma entravo in chiesa per mandargli un pensiero, per ricordarmelo con la stessa imperturbabile serenità con cui aveva accolto il male che lo divorava. E se passavo davanti al tempio, sempre gli rivolgevo il pensiero, con la speranza che tutto potesse risolversi per il meglio e riprendere il lavoro comune da dove era stato interrotto.


Padre Giuseppe e la mostra
contro le guerre

Con mia moglie ci dicevamo di come sarebbe stato felice di leggere nel mio libro su Milano il capitolo dedicato al giardino di padre Turoldo, i riferimenti alla Basilica, il tripudio di campane che dai tanti campanili battono i batacchi tutti assieme come una esaltata sinfonia più gioiosa di un rinnovato 25 Aprile di liberazione, di vita, di gioia… Non c’è stato il tempo e non ci sarà più. Il cancro non ha ubbidito né al suo Dio né alla mia laica preghiera; ieri 30 ottobre, giorno del mio onomastico che non ricordo mai in questa Milano lontana dalla mia terra, padre Giuseppe si è spento all’ospedale di San Bartolo di Vicenza sotto lo sguardo affettuoso dei familiari Rosanna Zaupa, Mariagrazia, don Lorenzo e Lucia. Aveva da poco compiuto 7o anni, era nato a Sovizzo, un piccolo comune a circa 10 chilometri da Vicenza, il 26 settembre del 1953. Con la sua prematura morte la Basilica di San Carlo non sarà più la stessa, altrettanto possiamo dire del Comitato Amici di padre Turoldo. Facciamo nostre le parole di Albina a cui padre Giuseppe ha voluto bene (scherzando diceva che in realtà il parroco era lei dato che sapeva tutto della Basilica, più di lui) perché “ha dato tanto, tutto quello che era nelle sue forze, intelligenza e passione”. È stata Albina a darmi la ferale notizia, eppure solo pochi giorni fa al telefono ci eravamo promessi di far vedere al presidente provinciale dell’Anpi Roberto Cenati, l’intercapedine della cupola dove Turoldo aveva tenuto nascosti partigiani e antifascisti. Con la presenza di padre Giuseppe, speravamo. E invece no, per lui è arrivato il nostro pianto. Un pianto meritato, lacrime necessarie.  

GACCIONE AL MUSEO


Gaccione firma copie del libro

Venerdì 3 Novembre ore 17 al Museo Martinitt e Stelline di Milano, corso Magenta n. 57

Nell’ambito della rassegna: Incontriamoci al Museo. Milano come non l’avete mai vista.

Giovanni Bonomo e Alessandro Calabrìa conversano con Angelo Gaccione che presenta in anteprima il suo nuovo libro:



La mia Milano (Meravigli 2023)

La città vista con gli occhi di uno scrittore acuto e sensibile, innamorato della sua Milano - che lo ha accolto giovanissimo - e capace di entrare non solo nel suo ventre e nel suo cuore, ma in ogni sua piega più riposta.


Cliccare sulla locandina per ingrandire

Con proiezione di immagini.
 
Ingresso libero
  
Prenotazione consigliata telefonando ai numeri:
02 - 43006522 
02 - 43006520

 

SUDDITANZA 
di Luigi Mazzella


 
La regola violata del “ne bis in idem”.
 
Gli Italiani, molto ottimisticamente, ritengono di essere protetti da una buona stella. In realtà il preteso “stellone” nella loro storia si è sempre dimostrato un grande bluff. Fermiamoci ai tempi recenti (quelli attuali e quelli dell’ultimo secolo) senza risalire alla disgrazia somma della sua mediorientalizzazione di duemila anni fa. Negli ultimi due secoli, quando sul Pianeta sono apparsi scenari apocalittici di guerra, l’Italia s’è sempre trovata ad essere governata da fascisti che, oltre a credere e a obbedire ciecamente ai loro Capi, hanno sempre sentito come loro dovere “combattere” il nemico da essi, di volta in volta, prescelto. È avvenuto con Mussolini e sta avvenendo con la Meloni. E in entrambi i casi i due “capi del governo” (dizione inventata e adottata costantemente dal primo dei due) con compagini ministeriali che erano soltanto espressione di una  minoranza in Parlamento (il primo per la magia della legge Acerbo, il secondo per quella del Rosatellum), stabilizzatisi nel potere solo per la vigliacca tendenza alla “sudditanza” degli abitanti dello Stivale, hanno condotto, nel primo caso, e tentato di portare, nel secondo, il Paese sul terreno scivoloso della guerra. E dire che nell’un caso e nell’altro l’Italia era in un periodo di crescita economica lenta e faticosa!
E ciò: a) con Mussolini per effetto dell’autarchia impostagli dopo “l’ avventura” colonialista sanzionata dalle grandi Potenze con la mancanza di offerta delle materie prime, soprattutto energetiche; b) con la Meloni per la sua cervellotica politica di “voltagabbana” consistente nel tradimento delle sue promesse pre-elettorali e nell’adesione supina all’atlantismo e all’europeismo “senza se e senza ma” non capendo che quelli gli strumenti che avevano reso invalicabile la decrescita economica impostaci dagli alleati con il Trattato di Pace (per volere delle due Potenze vincitrici della guerra persa, giova ripeterlo, da Mussolini). Se questo è lo Stellone italico…



Altro rilievo da fare è che ogni volta che l’Italia governata da fascisti prende, in politica internazionale, lucciole per lanterne, la cugina Francia si trova dall’altra parte e vede giusto! Così, alla vigilia della seconda guerra mondiale quando la Francia divenne alleata di Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Unione Sovietica e Cina e l’Italia si schierò con la Germania di Hitler e il Giappone. Ieri l’altro, per l’ennesima volta i due Paesi si sono divisi: questa volta all’ONU. Mentre la Francia ha votato a favore della risoluzione diretta a favorire una tregua a Gaza presentata dalla Giordania e approvata dall’Assemblea generale con 120 voti a favore e14 voti contrari tra cui ovviamente Israele e Stati Uniti, l’Italia, per non dare dispiacere a queste due potenze, secondo le sue mutate visioni post-elettorali e per il solito pallino dei fascisti di sedere sempre al tavolo dei Grandi della Terra (che poi individuano, però, nel modo sbagliato) si è iscritta all’esercito degli astenuti (come la Germania, certamente non in ricordo  del vecchio e infausto Asse), sostenendo che nella risoluzione (volta, espressamente, a promuovere una tregua e non a fomentare il dissenso e ad accrescere il contrasto) mancavano sia la condanna dell’azione di Hamas (che, peraltro,  non è uno Stato, non fa quindi parte dell’ONU e non è da esso controllabile) sia il diritto di Israele a difendersi (pur essendo  note le dichiarazioni del capo del governo israeliano che  palesemente non sembrano volte  né al rispetto delle regole del diritto internazionale né a quelle dei principi umanitari).

LA POESIA
di Giovanni Borroni
 
Giovanni Borroni

La crepa a Piazza Fontana
 
L’ordine delle carte e del luogo
si aprì come un fiore improvviso
in un caos di carne e di schegge
di brandelli di stoffa e di muri
di intenzioni e di scritti insensati
senza più una logica e un posto
una prassi o un patto siglato
come quei diciassette spezzati
che imbiancati di malta e sangue
irriconoscibili macerie di vite
rimasero lì, a far bordo alla crepa
che quel giorno aprì nella strada
tra la ricostruzione e il progresso
l’artiglio indecente dell’odio di chi
non avendo mai pietà per i vivi
cercava il suo Onore smarrito
nel potere sugli altri e sul mondo
e invocava una Patria e uno Stato
nelle schiere ordinate di bare
pur di fare zittire urla e voci
di chi si dava da fare o lottava
da banche, da fabbriche e piazze,
discutendo ciascuno a suo modo
per tirare un po’ meglio a campare.
Ancora aspettiamo la Storia
della storia che già conosciamo.

LA POESIA
di Antonio Ricci


Antonio Ricci

Pinelli
 
Giuseppe, noi ti ricordiamo,
ti portiamo nella nostra luce.
Dalla tua scomparsa hai
disseminato la tua anima
anarchica, partigiana.
La tua innocenza è stata
soffocata da mani sul sentiero della
Vergogna.
Il tuo cammino è un clamore di
lusinghe, che lasciano alle parole
l’appartenenza al calore nel
cuore della notte.
Hai narrato la tua vita con gli
occhi delle tue figlie, prese
per mano da te, padre
inseparabile.

 

 

 

Confronti
ASCOLTARE IL DOLORE
di Rosella Simone


 
A proposito delle anime belle.


Qualche intellettuale di sinistra di fronte al rischio di una imminente terza guerra mondiale e all’orrore dispiegato da troppo tempo si sta interrogando da qualche mese sull’ipotesi della diserzione e si chiede se è questa l’unica via che ci rimane. Sì, disertare si può e anche si deve se, come mi pare stia accadendo ovunque, la guerra è diventata la fonte più sicura per fare profitti. Disertare si può e si deve, se è un atto coraggioso come i ragazzi e le ragazze israeliane che rifiutano l’arruolamento nell’esercito di Israele perché non condividono la logica dell’Occupazione rischiando carcere e ostracismo. Disertare si può e si deve anche a parole o per iscritto quando costa qualcosa, quando non si cerca l’applauso, quando si portano argomenti che muovono in direzione della verità. Non si può, invece, fare gli agnelli o i falchi da poltrona. Non si può neanche condividere l’idea che la quantità non incida sulla qualità nell’esprimere un giudizio quando si tratta, di 75 anni dall’espulsione di un gran numero di popolo, di 56 anni di occupazione, di 7000 o 9000 morti, di 1000 sepolti dalle macerie che nessuno potrà cercare di estrarre. Quando si parla di 1 milione e 400.000 sfollati e neanche quando si conteggiano più di 500.000 coloni (tra Cisgiordania, Gerusalemme est e nella cosiddetta terra di nessuno) che hanno occupato, abusivamente, terre non loro. Quando, come nel più spietato Medio evo, si mette in assedio totale una città di più di due milioni di persone; quando si bombarda una popolazione chiusa dentro un recinto da cui non si può scappare, dove non c’è via di scampo. Quando si nega l’acqua, la luce, il pane e si rade al suolo mezza città incominciando dagli ospedali. Non mi piace Hamas che uccide giovani a un rave ma penso anche che qualcuno a questi ragazzi avrebbe dovuto spiegare che non si balla vicino ad Aushwitz. Ma soprattutto, guarda un po’ il caso, ci si ricorda dei palestinesi solo dopo che Hamas ha sparso sangue nel deserto. Non potevamo accorgercene prima, prima di fomentare l’odio, prima delle centinaia di palestinesi uccisi ogni anno, prima che Hamas ci ricordasse con la sua violenza che Israele è anche un esercito di occupazione; prima di finanziare gruppi estremisti per distruggere il progetto di una Palestina, prima di corrompere i dirigenti dell’Olp per lederne la credibilità, prima magari di avvelenare Arafat. 



Si poteva e doveva disertare, forse, ai tempi della caduta del muro di Berlino, evitare l’acclamazione del liberalismo come unico progetto possibile e degli Usa quale nuovo gendarme mondiale con diritto a difendere i suoi affari e le sue guerre, a cominciare da quella nella ex-Jugoslavia e via andare, dal Desert storm in poi, sino all’Afganistan e oltre. Non per schierarsi dalla parte dell’Urss che doverosamente implodeva ma per mettere in giro anticorpi contro lo strapotere del business, degli affari e di una propaganda unidirezionale. E allora si può fare le anime belle e scoprire che lo Stato (quello dei palestinesi però) è una brutta bestia ma nello stesso tempo schierarsi, senza se e senza ma, con gli Ucraini perché combattono per la difese dell’integrità del loro Stato. Un’intellettualità democratica e occidentale strabica che in Medio oriente condanna chi è stato occupato perché osa opporsi all’occupante e in Europa finanzia a colpi di milioni di dollari uno Stato per vuol mantenere saldi i suoi confini. E dovremmo credere all’imparzialità dell’informazione? Pensate veramente che l’opinione pubblica sia così colonizzata nel cervello da aver completamente perso la capacità critica? La guerra fa schifo, la guerra è violenta e spietata, sempre, chiunque la faccia. La guerra ha le sue ragioni, ma a morire sono sempre i popoli. Viene da pensare, purtroppo, che si risvegli l’attenzione solo se ad agire è il rombo del cannone. La guerra di Hamas è spietata ma fino a che non c’è stata nessuno si ricordava, tra i potenti, gli intellettuali e i giornalisti (e parliamo dell’Italia), che in quella terra tragica avrebbero dovuto esserci due Stati e due popoli. Basta guardare le cartine dal 1947 ad oggi per capire cosa è successo da quelle parti: un lento stillicidio di morti e di espulsione. Ci sono voluti i parapendii di Hamas perché ci si accorgesse di questo! 

 


Gli esangui intellettuali italiani di sinistra cosa facevano sino ad oggi. Quella lunga catena di morti, di case distrutte, di uliveti divelti, di acqua negata forse era diventata noiosa, durava da troppo tempo per essere una notizia interessante. Un fastidio per tutti, occidentali e arabi, cristiani e mussulmani. E adesso per giustificare questa lunga distrazione si scopre il Rojava, senza dire che anche lì si combatte, che anche lì i militanti vengono uccisi dallo Stato. Erdogan, che ha i piedi in mille scarpe e gioca sporco in quell’area per le sue mire di grandeur ottomana, non è “il nostro dittatore” quando denuncia i massacri di Gaza (per i propri interessi geopolitici), lo diventa solo quando ferma quell’enorme massa di sfollati che queste guerre hanno creato e “protegge” (sarebbe meglio dire “ricatta”) l’Europa. Quando bombarda i curdi e arresta gli oppositori è più semplice voltare la faccia da un’altra parte. Rojava non diserta, Rojava è partigiana. Il suo orizzonte è un altro paradigma, la fine dello stato-nazione inteso come la forma politica su cui si fonda il patriarcato. Un paradigma degno, l’unico possibile per uscire da una catena di massacri che attraversa il pianeta.
Ma voglio prendervi sul serio, signori della stampa, credere che le vostre affermazioni siano in buona fede, che il vostro rigetto della guerra e del sangue sia profondo e sincero, e allora battetevi per la liberazione di Abdullah Ocalan, che è al carcere duro da 26 anni, perché da lui è partita questa unica speranza per un pianeta saturo di miasmi cattivi. Battetevi per la fine dei bombardamenti sull’esperienza democratica delle donne curde che nutrono questa speranza con la loro determinazione, con la loro intelligenza, con il loro sangue. Perché se si svicola sempre davanti alla realtà, se vediamo solo quello che ci fa comodo vedere e quando ci fa comodo vederlo, i colpevoli siete voi. Siete voi che nutriti la violenza, voi che non date ascolto al dolore dei popoli, voi che alimentate la disperazione. Il dolore va ascoltato per tempo, prima che diventi crudeltà.
Bisogna saper andare oltre i reciproci fondamentalismi e piangere per le vittime di Gaza e anche per Israele che rischia di perdere la sua anima. Non tutto però è perduto finché esistono, e so che ci sono in Israele, donne straordinarie come le due ostaggi liberate tre giorni fa per ragioni umanitarie Yocheved Lifshitz e Nuret Cooper. Bellissima Yocyeved capace di stringere la mano e sorprendere il suo sequestratore, accomiatandosi da lui con un’unica parola, “Shalom”. Sono certa che ce ne sono anche a Gaza di donne potenti come lei. Perché la pace si fa con il nemico.
Shalom, Salam, Peace, Paix, Paz, Pace.

 

  

 

 

IL BALCONE DI GIROLAMO

A Firenze c’è un balcone che protesta contro tutte le guerre, è quello del nostro collaboratore Girolamo Dell’Olio.




MIGLIORATI E GIANNASI A CHIARI
In occasione della Micro Editoria




Giorno di ottobre
 

 
Una giornata d’autunno,
immensa noia di periferia.
Offuscamento intenso e diffuso
del cielo nuvoloso di pioggia
annunciata e presentita.
Giorno ammalato da immalinconire.
Non mi resta che vivere la memoria.
Quanti giorni assolati,
quante estati meravigliose
nascoste e lontane nei ricordi.
 
Tiziano Rovelli

lunedì 30 ottobre 2023

REPORTAGE ISRAELE - PALESTINA
di Stefano Bonanni*



Ramallah


Gerusalemme è l’emblema dell’evoluzione del conflitto, divisa in Est ed Ovest come la Berlino di qualche decennio fa, ma il muro qui non divide in due la città, è all’esterno, serve a dividerla dal resto della Cisgiordania. Ormai sotto il completo controllo militare israeliano, qui vivono israeliani ebrei e arabi con passaporto israeliano, i grandi esclusi sono i palestinesi. Ma se Gerusalemme rimane la capitale spirituale della Palestina quella politica è Ramallah situata 20 km più a nord. L’architettura qui ti riporta subito nel mondo arabo, palazzi sempre più alti e vicini, per una popolazione che cresce ed un territorio che diminuisce. Il color sabbia della pietra con cui sono eretti è il colore di questa terra che per vasti tratti è rocciosa e desertica relegando di fatto tutti gli abitanti nei centri urbani.



Durante il venerdì della rabbia invocato da Hamas, questa è stata una di quelle piazze che ha raccolto maggior contestatori anche per via della presenza delle istituzioni palestinesi. Qui incontro Mahmoud, un ragazzo nato sotto l’occupazione. Per lui la storia delle risoluzioni ONU ha poco senso. Lui nel 48, nel 67, ma anche nelle più recenti risoluzioni di Camp David non era nato. Per Mahmud conta il presente. La vita nei territori palestinesi è difficile. Ogni spostamento comporta lunghe ore di attesa nei checkpoint. Chi nasce nella west-bank, vive con un presente difficile e con la premessa di un futuro sempre peggiore. Ogni anno Israele annette nuovo territorio di fatto spezzettando la Palestina e rendendo sempre più difficili gli spostamenti. L’unico mezzo per ottenere la libertà rimane Hamas. Mahmoud mi spiega che Hamas ha avuto la capacità di riunire diversi paesi arabi dandogli un obiettivo comune: Israele. I regimi arabi negli ultimi anni hanno visto l’intensificarsi di conflitti interni di origine religiosa tra sunniti e sciiti. Due branche dell’islam. Se con l’attacco del 7 ottobre Hamas è salito alla ribalta internazionale, è solamente con la risposta di Israele che acquisisce un potere nel mondo arabo. È grazie all’offensiva verso i civili che Israele sta portando compattezza tra i fedeli mussulmani in un medio oriente martoriato dalle divisioni. Nonostante ciò non si può pensare ad un unico mondo arabo. Basti pensare che l’Iran, contrariamente ai fratelli mussulmani da cui nasce Hamas, è sciita. Inoltre non è composta da arabi, bensì da persiani di etnia indoeuropea che parlano farsi. Ma la guerra qui fa comodo a molti, a Bashar al Assad sciita in Siria che guida un paese al settanta percento sunnita. All’Iraq che dopo Saddam Hussein sta vivendo anni di forte tensione, dove la popolazione è suddivisa, metà tra sunniti e sciiti. Al Libano che oggi è guidato da Hezbollah, un gruppo paramilitare di matrice islamica sciita, che viene armato dall’Iran per portare avanti una guerra che non è in grado di fare direttamente da solo. Scendendo ancora più a fondo, ci sono delle correnti e delle battaglie in entrambi i gruppi, tra i sunniti emergono ad esempio i salafiti, tra gli sciiti gli alauiti. Non si può mettere tutto sullo stesso piano. Perché è proprio mettendoli tutti insieme che gli diamo un nemico comune.  Secondo Mahmud questo sta già avvenendo ed il grande attacco avverrà dal nord della Palestina, con il sostegno di Hezbollah e di Assad. Quando? Non appena Israele invaderà Gaza. Mentre risponde scorgo nel suo viso un sogghigno, come se si auspicasse un intervento via terra d’Israele, relegando i gazawi ad agnello sacrificale. Provo a ribattere che a quel punto si dovrebbe temere un coinvolgimento delle potenze occidentali. Ma Mahmud è convinto che Russia e Cina faranno desistere qualsiasi altro intervento, mantenendo un conflitto regionale. Dove si augura Israele possa soccombere, perché allo stato attuale se così non fosse sarebbe comunque la fine per la Palestina. Dopo il 7 ottobre le cose non possono più tornare come prima.



I miei tre interlocutori appartengono a generazioni differenti, hanno una estrazione sociale differente, ma conservano qualcosa in comune: sognano di poter cambiare le proprie sorti. Sta a noi cercare di capire come raccogliere le loro istanze senza che divampi una guerra ancora più sanguinosa. Ed è proprio per questo motivo che dovremmo rappresentare una terza via e non costringere israeliani e palestinesi a uno schieramento ovvio. Dire che Hamas è un’organizzazione terroristica al pari dell’Isis è solamente far propaganda. Hamas è un partito politico a tutti gli effetti. Ha delle istituzioni, manda avanti scuole, ospedali, costruisce strade. Il 40% della popolazione di Gaza lavora per Hamas. Non si può estirpare Hamas da Gaza con l’esercito se non commettendo uno sterminio. Fermo restando che tutti sanno che i leader si trovano altrove, protetti dai regimi a cui l’Occidente strizza l’occhio. L’unico modo per togliere sostegno ai gruppi militari è dare la libertà al popolo palestinese. Israele sarà libera, quando la Palestina sarà libera. Qualsiasi processo unidirezionale condurrà ad altro dolore.  Dobbiamo cercare di rimanere umani e pensare al futuro, anche al nostro, non creandoci nuovi nemici da combattere.


*Mediatore interculturale, scrittore e fotografo freelance, presente nei maggiori scenari di crisi negli ultimi 15 anni: Kossovo, Libano, Filippine, Congo, Palestina, Ucraina.

  

MONINA, L’ANTI VANNACCI
di Federico Migliorati


Michele Monina

C
ome ribattere punto su punto contro il pamphlet “lungo e ripetitivo” più celebrato degli ultimi mesi, diventato un vero e proprio caso letterario, ma soprattutto lanciato rapidamente e in maniera stupefacente nelle classifiche di vendita? Il riferimento è a Il mondo al contrario del generale e già Comandante dell’Istituto geografico militare di Firenze Roberto Vannacci che ha scaldato e ancora vivacizza l’agone politico tra critici e sostenitori, preso ora in esame da Michele Monina con il suo volume Il mondo per il verso giusto. Le cose come stanno, recentemente apparso nella Collana Moralia del romano Gruppo Editoriale Fanucci. Marchigiano di origine, critico musicale e scrittore, autore di quasi cento pubblicazioni alcune delle quali firmate insieme ad artisti del calibro di Vasco Rossi e Caparezza, Monina in 12 capitoli elenca le tante tematiche affrontate dal militare cercando di smontarne i contenuti e sollevando le contraddizioni con precedenti tesi sostenute dallo stesso che di volta in volta attacca migranti, donne, omosessuali, ambientalisti, politici. Leggiamo: “Al generale Vannacci non interessa fare discorsi che indichino nelle varie categorie che prenderà di mira (…) un nemico. Non è in guerra, dichiara. A lui interessa farci sapere come sia vivere per queste minoranze, ci tiene a chiamarle così, e che chi si occupa di loro è un caso a parte”. Contro la morale dominante, contro lo Zeitgeist, contro il mainstream attuale il generale oppone una visione a suo dire “naturale”, di buonsenso, diretta a ripristinare un poco di ordine e di civiltà nel solco di quel patriarcato di cui ancora è imbevuta, in parte, la nostra società: le minoranze, per lui, non possono dettare l’agenda quindi l’attacco contro esse è costante, a seconda dell’argomento scelto. Così diventa “preda” della stigmatizzazione dello scrittore marchigiano che lo accusa di avere idee “rozze e offensive” e di volere un mondo fatto di auto sfreccianti, di sacchetti dell’immondizia lasciati in pasto ai cinghiali e di gente mossa esclusivamente dal proprio estro, alla faccia del ruolo di chi nella vita si è messo al servizio della propria nazione. Non c’è spazio per la provocazione “perché quelle di Vannacci non sono tali: le provocazioni, del resto, bisogna saperle fare e vanno sempre prese molto sul serio. Qui invece - scrive ancora Monina che spazia dal mondo cinematografico a quello letterario e musicale per sostenere le proprie tesi - siamo proprio nei pressi di un rimpianto triviale di un passato neanche troppo remoto, nel quale le donne, magari neanche avevano diritto di voto, venivano licenziate al momento di sposarsi e comunque non potevano neanche permettersi l’idea di avere un figlio e al contempo un lavoro”. 



Il libro che in pochi giorni è diventato campione di vendite, pubblicato su Amazon e in attesa che esca per una casa editrice, è dunque tutt’altro che un’opera capace di far riflettere seriamente o di indurre a un confronto serio e ponderato. Anche sul tema della sicurezza, tema a lui molto caro considerando il ruolo ricoperto e al quale è dedicato un intero capitolo, “Vannacci mostra di guardare a un modello da Stato di polizia, che vede le forze dell’ordine autorizzate a un tipo di controlli e di interventi che mal si addicono al concetto di democrazia” e dove i cittadini “hanno diritto di tutelarsi perché la difesa è sempre legittima”. 

Per “disinnescare” il mondo all’incontrario, per ribaltare le idee che in questo mondo si professano è necessario prendere, insomma, il tutto dal verso giusto. Monina, coraggiosamente, ci ha provato aprendo in maniera civile e pacata un dibattito politico, sociale e, perché no, anche etico tra due visioni dell’uomo e sull’uomo nelle sue più varie sfaccettature.

 

 

POETA? NO GRAZIE 
di Giuseppe Carlo Airaghi


Giuseppe Carlo Airaghi
 
Prima di preparare questo intervento avevo le idee relativamente chiare ma, mentre procedevo a questo lavoro, sono stato assalito dai dubbi sulla validità delle mie teorie, dei miei punti di vista impietosi. Me la prendevo con i programmi scolastici che non stimolano la curiosità dello studente nei confronti della poesia, che si soffermano troppo a lungo su versi scritti in una lingua che ai ragazzi appare arcaica, respingente e anacronistica, trascurando quasi completamente la letteratura contemporanea, quella che potrebbe parlare direttamente al loro bisogno di scoprire il mondo. Me la prendevo con i social, il poetese, il pretese. Me la prendevo con la poesia degli eccessi sentimentalistici, dalla prosopopea anacronistica, dei piagnistei, della pia retorica, dei sussurri che timidamente si fanno cullare dalla brezza al chiaror di luna. Me la prendevo con la poesia enigmistica, quella eccessivamente oscura, che non concede appigli di senso al lettore, caratterizzata da accostamenti semantici e concettuali che a i miei occhi appaiono arbitrari, legati a una ricerca di originalità talmente fine a sé stessa da diventare manieristica. Me la prendevo con il self-publishing, con la vanity press degli editori a pagamento, stampatori che fanno pagare i costi di pubblicazione agli autori senza la minima selezione. Me la prendevo con i concorsifici in cui non si nega a nessuno il lauro e una calorosa pacca sulle spalle. Non pensiate che non mi abbia attraversato il dubbio di essere io quello che non è in grado di capire e ancor più di giudicare, di essere io quello non sufficientemente attrezzato per accogliere opere che non mi somigliano, condizionato come sono dai miei gusti discutibili e dalle mie vaste lacune. Me la prendevo insomma con tante manifestazioni interne alla poesia senza considerare che le cause andrebbero cercate anche all’esterno, in una società che si evolve velocemente e che ritiene la cultura un lusso marginale o alla meglio uno svago, un intrattenimento. Ma le critiche che avanzavo probabilmente erano soprattutto frutto di mie malcelate frustrazioni. Frustrazioni derivanti dalla presa di coscienza che in una società utilitaristica e capitalistica come la nostra, dove ad ogni gesto deve corrispondere un risultato concreto e monetizzabile, rimane poco posto per un gesto senza utilità pratica e misurabile come la poesia. Frustrazioni derivanti dalla presa di coscienza che, in qualsiasi store di grandi case editrici, lo scaffale della poesia è più striminzito di quello dedicato al giardinaggio; con la differenza che i libri di giardinaggio presumibilmente sono stati scritti negli ultimi 10 anni, mentre quelli di poesia coprono l’arco di millenni da Omero a Rupi Kaur. Potrei anche rincarare la dose segnalando che buona parte dei libri presenti in questi striminziti scaffalini sono libri che certa critica definirebbe pseudopoesia pop, poesia con l’hashtag, poesia Karaoke.


Di converso a una tale evidente scarsa propensione alla lettura di libri di poesia esiste paradossalmente una enorme produzione di voci che gridano nel deserto, che si parlano addosso, talvolta senza ascoltarsi, nel rumore di fondo di un caotico Karaoke poetico di cui ben inteso io pure faccio parte integrante.
Se nella nostra società è il mercato che detta la linea, le regole e le tendenze, questi piccoli scaffali rappresentano un paradigma. In una economia di mercato come la nostra, questa mancanza di interesse è il risultato di un rapporto domanda offerta deficitario. Nessuno chiede libri di poesia forse perché la domanda di esplorazione del reale e di ciò che gli sta dietro è soddisfatta da altre offerte, forse più attuali, più attraenti o di più facile fruizione? In sintesi queste mie frustrazioni avevano partorito critiche ingenerose che non tenevano conto di quella che è una verità indiscutibile: il diritto di esprimersi è sacrosanto, così come la modalità e gli strumenti con cui si sceglie di farlo.

 
Mi limiterò a constatare un dato di fatto. La poesia in Italia svolge un ruolo marginale nel dibattito culturale e letterario e ancor più marginale nel dibattito civile o politico malgrado i numerosi eventi, le tante iniziative, i tanti libri pubblicati perché, a ben vedere, la fruizione della poesia è quasi esclusivamente di pertinenza di chi si occupa di poesia, degli addetti ai lavori, dei poeti, degli aspiranti tali. I poeti si leggono e si mangiano tra loro, tra di loro si accarezzano, tra di loro si complimentano e rincuorano, vestali che mantengono accesa a stento la sacra fiammella all’interno di un tempio andato deserto. Forse avrebbe dovuto aprire questa giornata un sincero, entusiasta e incondizionato appassionato amante della poesia. Io probabilmente non lo sono fino in fondo, perché molti modi, derivazioni, deviazioni, stili, manifestazioni della poesia mi risultano poco digeribili, a volte addirittura non commestibili Voglio illudermi che, paradossalmente, sia il mio affetto a provocarmi queste allergie. Non desidero altro che qualcuno smentisca me e questa mia negatività, che qualcuno oggi metta in campo e trasmetta entusiasmo e positività, che mi convinca di quanto la poesia nella sua apparente inutilità sia invece indispensabile, che si alzi e dica con voce ferma: Poeta? Sì!
 


Concludo con tre mie poesie legate al tema della giornata.
 
Per scrivere poesie
 
1.
Per scrivere poesie sincere
è necessario essere innocenti
e spietati come bestie senza morale,
essere il morso che strappa la carne dall’osso,
il cane bastardo che non molla la presa,
che scava nel fango,
che porta alla luce la preda occultata.
 
Per scrivere poesie vere
non si potrà più mentire,
ci toccherà colpire,
svelare il sudario,
lacerare la benda
per mostrare la ferita
viva.
 
Per scrivere poesie sincere
non ci cureremo di farci del male,
di strapparci lacrime dagli occhi,
di cavare denti ai sorrisi.
 
Per scrivere poesie vere
sarà necessario condannarsi
alla solitudine e al disprezzo,
lavarsi le mani nelle lacrime
del fratello inconsapevole,
inchiodarvi a martellate nella testa
la bellezza del mondo
che non volete vedere,
inchiodarvi a martellate nella testa
il dolore del mondo
chiuso fuori dalla soglia di casa,
l’urlo che non volete ascoltare.
 
2.
Se scrivessi davvero poesie sincere
sarei condannato alla solitudine,
bandito, messo all’indice,
scacciato oltre le mura della città,
nei boschi profondi dai quali
non sarei più in grado di tornare.
 
Ma io non scrivo poesie vere,
mi accontento di versi
che non mi condannino alla solitudine
e al vostro disprezzo,
versi che non siano chiodi,
che non siano lame,
che non siano raggi di sole.
Io mi limito a impostare la voce
per darmi fiato da vecchio trombone,
per spettinarvi i capelli
che riaccomoderete a pagina chiusa,
per adescare applausi
che non vi costano nulla.
 
 
La Poesia salverà il mondo?
 
La prossima poesia chiederà conto
di tutto quello che abbiamo taciuto.
Lo farà a bocca chiusa, in bilico
sulle aspettative dei nostri propositi sinceri
 
Attratti più dalla bellezza
che dalla virtù scriveremo
le medesime poesie ben scritte
raccolte a mazzi
come fiori di campo
nel mezzo dell'erba alta.
 
Nell'attesa di una beatificazione
postuma, conformandosi ai tempi
correnti, non resterà che spingere il dito
nel buco dell’ombelico
per estrarre palline di pelo
dai pelosi rimorsi rimossi,
dalla lista disattesa
delle cose da fare.
 
Aggiungeremo questi fogli alla catasta
destinata allo stoccaggio.
Oppure al macero
(nella più definitiva delle ipotesi).
 
Lasceremo le nostre testimonianze cartesiane
sgretolarsi nel loro destino di oblio,
confondersi con lo stridore dei passeri,
con le loro impronte indistinguibili
poggiate sui marciapiedi ingombri,
sopra i rami più alti.
 
 
Il poeta delle nuvole
 
L’enigmista intimista osserva
la foglia fremere fuori
dalla finestra chiusa della cucina
mentre raschia il fondo
di un barattolo di gelato,
della propria decorosa disperazione,
della propria indispensabile ispirazione
e intanto freme
a quel fremere al vento
che staccherà la foglia dal ramo
e freme
leccando il cucchiaio
nell’agonia della poesia,
nella poesia dell’agonia,
sincero come il candore di un bimbo
che schifa i baci della nonna
ma pretende comunque
il regalo promesso.
  
[Sintesi dell’intervento letto al castello Visconteo di Legnano il 21 Ottobre 2023]

IL RACCONTO
di Lodovica San Guedoro



La guerra sui marciapiedi
 
In certe giornate, in verità, il mondo di domani è già qui, la profezia si è già avverata: non resta che strisciare lungo il muro e contemplarlo, pregando che non t’investa e ti maciulli. Non ti riesce di vedere, infatti, quasi nessuno che si muova senza ruote, si assiste stupefatti a una gara parossistica di mezzi, di forme, di sorpassi, di cerchi rotanti grandi e piccoli, di caschi, di divise, di bandiere, di zaini, di catarifrangenti, che pare debba culminare in una sorta di Urknall*; cerchi smarrito e spaventato un punto fermo, cerchi atterrito di trovare qualcuno che si serva ancora dei suoi semplici piedi, incerto che sia ancora lecito farlo…
E, alla fine, lo trovi pure, nella bolgia maligna di ruote e di metallo, ma i veri passanti, sui marciapiedi, sono la più crassa minoranza, una specie condannata a malinconica estinzione. Prevalgono assolutamente i dannati su o con ruote, prevalgono i velocipedi in senso lato.
Bambini che si precipitano a scuola come alla guerra, prendendo d’assalto in schiere i marciapiedi su monopattini di acciaio. Bambine (perché, per motivi non ancora indagati, sono le Barbie a praticare questo gioco) che fanno acrobazie, in mezzo alla folla, su una ruota, come al circo. Piccoli fanatici di nemmeno due anni, passati, senza aver ù appreso a camminare, dalle carrozze a bicicli di legno privi di pedali, che vanno a tutto gas spingendosi avanti coi piedini di foca. Vecchie che si appoggiano ad antiestetici carrelli o che scorazzano arroganti su macchinette elettriche. Handicappati che sfrecciano su sedie a rotelle.
Frotte, a volte, di spastici infidi che invadono con le loro poltrone mobili tutto il marciapiede, circa i quali l’istinto ti dice di non capitargli a tiro, perché, per vendetta, potrebbero arrotarti. Mountain bike dai manubri a corna di toro e le gomme irte, che sgusciano tra bambini, lattanti, vecchi, e talvolta, stando ai giornali, ne travolgono qualcuno e poi fuggono.
Biciclette che balzano dalla strada al marciapiede e da quello alla strada, come in un irreale videogame. (Quando una, poi, per caso, ti sfiora e getti un grido, il ciclista, se è straniero, ti accusa di Ausländerfeindlichkeit*, se è tedesco, ti urla da lontano un velenoso e isterico “Arschloch!!!”*)
Biciclette alla easy rider. Mammine cicliste con traini ornati di bandierina, o a piedi, con carrozze e cani. Adolescenti che si accaniscono in mirabolanti salti con gli skate. Pattinatori bambini e pattinatori adulti.
Adulti che, pattinando, spingono carrozze e ascoltano musica o telefonano. Adulti che sfilano su monopattini con abiti gessati e valigette ventiquattr’ore. E, per finire, quel tipo sui sessanta, tutto vestito di bianco e coi capelli bianchi, quell’omiciattolo col berretto di maglia circolare sul capo quasi raso e gli occhiali dalle lenti gialle, che pare fuggito da un manicomio e scorazza a tutte l’ore sul monopattino come un normale cittadino: sempre surrealmente dritto, sia che la gambetta stia dando la spinta, sia che se ne stia riunita all’altra sull’attrezzo, la testa girante intorno a periscopio in cerca di spettatori, parola mia, l’ho davanti a me anche adesso come fosse vero.
Tutti, ad eccezion di lui e delle vecchiette, rigorosamente muniti di caschi…


 
Nei giorni più caldi della scorsa estate, un vecchio è apparso un paio di volte su un monopattino elettrico e poi è scomparso. Lanciava, ricordo, occhiate di sfida a chi mostrava stupore. Ma, la prossima estate, magari la metà dei vecchi circoleranno così sui marciapiedi!
S’intende che, sulla strada, il fervore di ruote è ancora superiore e, sulle piste ciclabili, in linea di massima la velocità ancora maggiore,  ma la situazione dei marciapiedi è, già oggi, estrema e pericolosa; e tra un anno non si sa come sarà, non si sa se non sarà più prudente camminare sulla strada, dove almeno valgono regole per la circolazione, dove ci sono semafori da rispettare, precedenze da dare, e non impazza l’arbitrio puro, la più sfrenata licenza della giungla.
Già adesso in certi momenti scelgo la strada.
Ma, ahimè, l’avanzata delle biciclette è inarrestabile, ed esse aumenteranno ineluttabilmente anche sulle strade, e arriverà il momento che, o si saranno sottomesse, o avranno scardinato le regole della circolazione tutta!
Allora dove camminerò?
Sulle piste ciclabili, su queste autostrade per ciclisti?
Chissà!


 
Ora qui, è vero, le mountain bike, i traini, vi vanno più veloci, e maggiori di numero sono i pattinatori, i monopattinatori, le biciclette easy rider, la maledetta specie dei filiformi corrieri express, zanzare senza peso fisico e solo adrenalina (o cocaina?), specie assassina e senza scrupoli, dobermann delle piste; maggiori di numero vi sono anche i ciclisti semicoricati, quelli degli avveniristici tricicli affusolati, semicoricati, ma intanto pedalanti, coi caschi appuntiti e talvolta gli occhialoni, perversamente lunghi e magrissimi, uomini evidentemente con programma, uomini che hanno una missione: quella di persuadere il pubblico della conciliabilità degli opposti, del relax e dello spasmo nervoso, del riposo e  dell’accanimento furioso.
Ma domani non potrebbero, essi, scoprire il fascino del marciapiede, stabilire che è più vantaggioso per loro passare a quello?


 
Bandiere, caschi, divise (sì, vedrete, divise), ininterrotto movimento di truppa, continuo passaggio di traini, schieramenti, addestramento militare esteso ai bambini e ai cani, echeggiare di voci aspre e gutturali, visi preoccupati e contratti, mandibole guizzanti, aggressività, sprezzo del pericolo: non c’è dubbio che tutto questo armeggìo sia già la guerra.
Certo tutto il pianeta è in subbuglio, ogni paese fermenta, gorgoglia e suppura in modo preoccupante…
Ma io è qua che vivo ed è della particolare suppurazione tedesca, dunque, che parlo…
A sessant’anni dalla fine della seconda mondiale, i Tedeschi, inconsciamente, sonnambulicamente, non dico, dopo essersi visti miliardi di volte nei film, devono aver tratto la conclusione che, in divisa, sono, alla fin fine, meno scialbi, più interessanti e che, quello del soldato, è il loro destino.
E così, senza volere, hanno riscoperto il fascino della divisa e delle connesse operazioni militari.
E così, senza accorgersene e senza che altri se ne accorga, sono ritornati alle origini.
Flussi e riflussi della storia, eterni ritorni...
 
Note
*Esplosione primordiale, Big Bang.
*Xenofobìa
Stronzo!!!