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giovedì 30 novembre 2023

IN RICORDO DEI MASSACRATI CILENI
di Franco Astengo



Kissinger è morto: polvere alla polvere.
 
Nel momento della scomparsa di Harry Kissinger non possiamo dimenticare il golpe cileno dell'11 settembre 1973. L'11 settembre 1973 in Cile con il massacro di migliaia di cileni il golpe fascista sostenuto dall'amministrazione USA, e orchestrato proprio dall'allora segretario di stato Henry Kissinger che intendeva estirpare il pericolo rosso dalla Latinoamerica e sperimentare il liberismo selvaggio dei "Chicago boys", pose fine al Governo di sinistra, democraticamente eletto, di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Un'esperienza politica avanzata di democrazia e socialismo, quella di Unidad Popular, che avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Cile, avere ripercussioni internazionali, essere d'esempio per diversi altri Paesi del mondo. La vicenda cilena, che pure diede origine a un ampio dibattito nel movimento comunista e nella sinistra a livello internazionale e in particolare in quello italiano, deve rimanere nella memoria collettiva. L’11 settembre 1973, il giorno della “macelleria americana” resta intatto nella nostra mente e nel nostro cuore accanto ai grandi passaggi della storia del movimento operaio internazionale. Per noi che continuiamo a credere nell’ideale, è uno dei giorni di quell’“Assalto al Cielo” verso il quale dobbiamo continuare a tendere con la nostra volontà, il nostro impegno, il nostro coraggio.

I POETI NON DIMENTICANO



Libreria Calusca City Lights - Archivio Primo Moroni - CSOA Cox 18
Via Conchetta 18 - Milano (MM2 Romolo, bus 90/91 e 47, tram 3)            

 

Sabato 2 dicembre 2023 alle ore 17




Intervento di Cataldo Russo





Musiche, letture e interventi sull’antologia: Piazza Fontana. La strage e Pinelli: la Poesia non dimentica, a cura di Angelo Gaccione (Interlinea, 2023) 


Julia Pikalova 

Leggono: Guido Oldani, Patrizia Varnier, Cataldo Russo, Giuseppe Natale, Antje Stehn, Angela Passarello, Valeria Raimondi, Carlo Penati, Maria Carla Baroni, Julia Pikavova, Annitta Di Mineo, Pino Canta e altri.


1-2-Trio: Marco Testa, Marco Grippa
e con la fisarmonica Nicola Labanca

Renato Franchi cantautore, in “17 fili rossi + 1. Racconti Musicali ricordando Piazza Fontana 12 dicembre 1969”. “1-2-Trio” composto da Nicola Labanca fisarmonica, Marco Grippa violino, Marco Testa chitarra e flauto dolce.



Sarà anche la fisarmonica di Riccardo Dell'Orfano ad allietare questo incontro di poesia e musica su Piazza Fontana e siamo certi che non vi pentirete di essere con noi.


Riccardo Dell'Orfano 

RENATO FRANCHI & HIS BAND


Renato Franchi

Renato Franchi ha intrapreso da tempo il suo viaggio negli immensi territori del rock d’autore. Il suo cammino nella prateria della musica ha avuto inizio (come per molti della cosiddetta “My Generation”) con il rock, il beat, il soul. Nelle sue prime band ha sempre rivolto un’attenzione particolare ai fermenti culturali, musicali e artistici ed alle positive vibrazioni che arrivavano d’oltreoceano. La sensibilità d’animo e l'impegno civile lo hanno avvicinato in seguito a tematiche sociali, storie d’amore e musica ribelle, lidi e spiagge su cui gli occhi e il cuore di Renato hanno sempre adagiato la propria poetica e la grande passione per la musica, per la cultura popolare e la canzone d’autore di qualità. Leader del progetto “Orchestrina del Suonatore Jones”, esperienza straordinaria in omaggio a Fabrizio De André ed alla canzone d’autore, oggi ha rinnovato il nome dell’ensemble dei fedeli musicisti al suo fianco da sempre in “Renato Franchi & His Band”, a conferma della propria vasta produzione originale, che consiste in 20 album e più di 150 canzoni. Innumerevoli i live, in teatri, piazze, festival e rassegne in tutta Italia e non solo; significative, inoltre, le collaborazioni con figure importanti della musica italiana, quali Claudio Lolli, i Gang, Fabrizio Poggi, Alberto Bertoli, Michele Gazich e altri ancora. Franchi è da sempre in viaggio lungo binari e stazioni folk-rock-blues con i suoi validi musicisti e fedeli compagni d’avventura: Gianni Colombo alle tastiere, Joselito Carboni alle chitarre elettriche e al basso, Dan Shim Sara Galasso al violino, Roberto Nassini alla fisarmonica, Viky Ferrara e Gianfranco D’Adda alla batteria e percussioni. Negli anni Renato e i suoi musicisti oltre ai numerosi concerti, hanno realizzato progetti ed esperienze discografiche di alto valore artistico, con album dal forte impatto sonoro e dalle liriche importanti come “Sogni & Tradimenti”, “Dopo le strade”, “Le stagioni di Anna Frank”, “Con un bel nome d’avventura”, “Finestre”, “Oggi, Mi Meritavo il Mare”, tutti molto apprezzati dalla critica musicale e sempre nella continuità di un percorso all’insegna delle sonorità del mondo e della migliore canzone rock d’autore italiana. Gli ultimi lavori, vale a dire “InCanto” (2020), “Penne & Calamai” (2021) e “Mi Perdo e M’innamoro” (2022) e “Attimi di Infinito” (2023). Ultimo importante progetto, la suite collettiva per la memoria “17 fili rossi + 1” Ricordando Piazza Fontana, tutti gli album prodotti con la fida etichetta “L’Atlantide”, a conferma del percorso artistico e creativo di Renato Franchi & His Band, cuori sempre in viaggio sui sentieri infiniti della grande musica e del rock d’autore con lo sguardo attento al mondo e al quotidiano che ci passa accanto.

Mary Nowhere


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UN’ALTRA GENOVA IN ARRIVO IN RIVA D’ARNO?
di Girolamo Dell’Olio



Diario Civile
 
Non sanno. Non devono sapere. Atomizzati, frastornati, ricattati, devono continuare a viaggiare bendati nella nuvola elettronica. Eppure questa è la culla del Rinascimento, patrimonio mondiale dell’Umanità. Come quella, laggiù, è la Terrasanta, crocevia di culture e di verità rivelate. Lo stesso inganno. Cambia solo la dimensione e il volume d’affari. Firenze si lascia silenziosamente bucare da chilometri di tunnel Tav dopo un quarto di secolo di risorse pubbliche variamente sperperate in nome di un progresso rigurgitante di opacità, fallimenti e propaganda. “Una vicenda paradigmatica del peggio possibile in Italia”, come ci disse a Roma Raffaele Cantone, Autorità nazionale anticorruzione. Oggi, senza neppure la foglia di fico di un simulacro di sicurezza, di prevenzione. Anzi, con l’evidenza – nero su bianco, carta intestata, documento protocollato – della disapplicazione sfacciata delle norme che detta il decreto per la sicurezza nelle gallerie ferroviarie… nel rigoroso fragoroso silenzio delle Istituzioni Democratiche.
A cazzotto li riconosco, i locali, in mezzo alle frotte di turisti.
Sono rimasti in pochi, in questa città desertificata per far spazio alle rendite parassitarie ‘culturali’. Uno su quattro, vagamente ricorda la stagione dei dibattiti, delle dispute, delle assemblee di venticinque anni fa. E dei titoli dei giornali, quando ancora si poteva parlare di ‘informazione’. Legge la denuncia, vagamente ricorda, mi guarda rassegnato e via. Gli altri tre, i più giovani, semplicemente non sanno, non devono sapere. Si scava sotto la città Unesco, quella che abitano, in cui studiano, ma nessuno ne ha sentito parlare. Mi guardano come un marziano venuto a spacciare fantascienza.
Con alcune eccezioni.
E sono quelle che ti accendono l’animo.



Oggi, sotto i glutei di Ercole, tre giovani teste, e nessuna delle tre autoctona. Un bel monito al fiorentino-che-non-c’è-più!
Zeno è uno studente del Valdarno, e a Firenze frequenta il liceo Machiavelli. Scruta con calma il cartello. ‘Meglio saperlo che non saperlo’, e gli allungo la lettera Pec di Marisa Cesario, la Comandante dei Vigili del Fuoco.
‘Hai presente Genova, quel ponte, e tutto quello che si è detto dopo?’
Sì, questo episodio lo conosce, e può fare due più due con le altre cose che sa della storia di Firenze, e del suo rapporto secolare col ‘torrentaccio rovinosissimo’ chiamato Arno.
‘A voi del Valdarno, poi, vi si regala tutta la terra scavata dalla pancia di Firenze, e vi si porta a Cavriglia, con tanti bei trenini, di giorno e di notte… e non è detto che sia pulita, sai, con gli additivi che ci mettono o le perdite di cantiere…’
‘E dove la mettono?’
‘La mettono… sai a Santa Barbara, la vecchia miniera di lignite?’
‘Ah, sì…’
‘E so che laggiù c’è già gente che protesta perché quei pochi treni che arrivano (sono ancora pochi)
fanno impazzare per i passaggi a livello che restano chiusi mezz’ore…’
‘E tutti questi milioni di euro, da dove arrivano?’
‘Le Ferrovie hanno un solo azionista: lo Stato! Sono soldi nostri! Quando succedono queste cose, ti basta vedere il ‘come’ lo fanno. Il giudizio sul ‘cosa’ viene di conseguenza!’
È un piacere constatare la pacatezza con cui parla, chiede e ascolta.
Sì, ci sono piccoli capolavori di prontezza nel generale marasma.
‘Se hai bisogno ci scrivi: qui sotto ci sono gli indirizzi.’


Con Alfonso invece c’è quasi consanguineità. Di Napoli, quartiere di Fuorigrotta. Ignaro, anche lui, del cosa e del come e del quando.
‘Vedi, tu non sai… perché non devi sapere! Poi scoppia Genova… hai presente Genova? E ci mettiamo tutti a piangere! Questa che ti do è la prova della qualità dei nostri politici. Hai visto quello che è successo in queste settimane non lontano da qui…?’
‘Sì, l’alluvione!’
‘Ma te, abiti a Firenze?’
‘Sì, attualmente in una stanza, ma da dicembre ho la casa col contratto, e così avrò anche la residenza!’
‘Studi…?’
‘No, lavoro… Imbarco.’
‘Imbarchi?’
‘Imbarco, sì, su nave. Faccio il marittimo! Ma di base sto a Firenze.’
‘‘Quindi questa cosa ti riguarda, no?’
Annuisce.
Adesso solcherà gli oceani, la lettera di Marisa Cesario! A gloria intercontinentale della solerte classe dirigente toscana. 
Il terzo è Simone. Un po’ più grandicello, sulla trentina. Lui è di Bologna. E insegna… storia di Firenze!
‘Dove?’
‘In una università, qua, per gli americani’.
La sede è prestigiosa: Palazzo Rucellai.
‘Un consorzio di università statunitensi che mandano qui i loro ragazzi, e seguono vari corsi… dalla storia del cibo alla storia di Firenze, appunto.’
‘Se possiamo essere utili, qui i nostri riferimenti.’
‘Sì, sì, grazie: leggerò!’


 
Con questo gruppetto di ragazzi in libertà, un po’ chiassosi, chiaramente di fuori porta, mi diverto a fare il prof che brontola.
‘Ehi, ehi, cos’è tutto questo casino?’
Ma la mimica tradisce lo scherzo, mangiano la foglia e si avvicinano..
‘Da dove venite?’
‘Marche! Iesi.’
‘Ah, dalle parti di Leopardi, giusto?’
‘Certamente.’
‘E allora come fa quell’Infinito?’
Perplessi.
Riattacco: ‘Sempre caro mi fu…?’
‘…quest’ermo colle!’, quasi in coro.
‘Vi piace Firenze?’
‘Sì, sì, è bella.’
‘Vi posso dire un segreto?’
‘Vai!’
‘Non ci sono più i fiorentini!’
‘Non c’è più nessuno…!?’
‘È un mercato! È diventato un mercato: danaro, mangiare e speculazione. E poi, i nostri bei resti che ci hanno lasciato gli avi, da contorno acchiappasoldi. Mentre qui, vedete, stanno costruendo con quelli di tutti questa bella cosa, allegramente, senza rispettare le loro stesse leggi…’



Ma oggi è il giorno anche di tre ritorni.
Anna, studentessa Fotografa del mio ‘Da Vinci’, che saluta correndo, perché è in ritardo, ma ce la fa a promettermi una cena di classe di nuovo tutti assieme appena possibile.
Filippo, anche lui ex studente Fotografo: mi ha visto da laggiù in fondo e viene ad abbracciarmi, fiero di potermi raccontare che ha già prodotto due film e scritto un libro! Li aspetto!
E infine Luciana, compagna di azioni teatrali di strada no-green-pass due anni fa davanti alle scuole militarizzate della città imbavagliata, e adesso in Idra con noi. Bello passare l’ultima oretta con lei, e poi andarci a bere insieme un caffè e un orzo al calduccio!

ANTONELLA DORIA
A Palazzo Ducale di Genova.




  

mercoledì 29 novembre 2023

PATRIARCATO E FAMIGLIA PATRIARCALE
di Luigi Mazzella 

 

Patriarcato e Famiglia patriarcale esprimono, pur nello stesso ambito concettuale, eventi e realtà da tenere distinti. L’uno e l’altra hanno un momento puntuale d’inizio e una durata continuativa nel corso del tempo.
L’origine, sia per il patriarcato sia per la famiglia patriarcale, risale alla preistoria: si perde, come suole dirsi, nella notte dei tempi. In conseguenza, né l’assunzione (non sappiamo se violenta o in qualche modo concordata) del potere da parte del maschio sulla femmina nello stesso gruppo sociale di appartenenza, né l’incardinamento del patriarcato iniziale nella famiglia sono stati mai descritti e raccontati da alcun essere vivente. In altre e più colorite parole, delle modalità e delle motivazioni di tali “fattacci” non possiamo, quindi, sapere nulla: vi sono solo le supposizioni di illustri antropologi che hanno affrontato il problema, sulla base di studi. La conquista del potere del maschio a danno della femmina si può arguire dal mito greco della cacciata della Dea Ate dall’Olimpo, con un calcio nel deretano da parte di Zeus: sarebbe la dimostrazione di un errore femminile severamente punito dal (nuovo?) Re degli Dei. Il ricorso al mito, in mancanza di ogni altra fonte, conferma che l’avvenuto impossessamento dello scettro di comando da parte dell’uomo rimonta certamente a epoca preistorica. Non mancano, tra gli studiosi, altre supposizioni, ipotesi e congetture. Margaret Mead ha sostenuto che, verosimilmente, fino a quando la donna era stata ritenuta l’unica artefice della nascita della prole per effetto, magari, di influssi lunari connessi al suo ciclo, ella aveva godute di tutte le libertà: in primis, quella sessuale considerata della stessa natura di quella che l’uomo, oggi, attribuisce a sé stesso. Le donne, con buona probabilità, accettavano di avere da sole il peso della gestione dei figli. Secondo gli studiosi del ramo anche perché ciò durava fino al raggiungimento dell’autonomia della prole (sull’esempio nel mondo animale, dove i cuccioli, cresciuti e in grado di procurarsi il cibo, tendono ad avere una vita propria il prima possibile). Una ipotizzabile ragione dello spossessamento iniziale del comando da parte del maschio potrebbe essere data dalla scoperta del potere procreativo del seme virile, immaginato come capace di determinare, da solo, la formazione del feto e la nascita della prole. In ciò l’Uomo doveva avere visto, verosimilmente, una sua potenzialità a superare i confini della morte: il suo seme gli poteva consentire di perpetuarsi in eterno. È agevole presumere, secondo la scienza antropologica, che da questa prima forma di patriarcato si sia passati, poi, anche all’attribuzione al maschio della proprietà dei beni con la conseguente trasmissione dei medesimi per via ereditaria; da qui, secondo alcuni studiosi, anche la nascita della famiglia (detta, appunto, “patriarcale”) e del capitalismo.


 
Fatta questa premessa, v’è da osservare che l’ultima delle tante, ricorrenti manifestazioni di piazza, in Italia: (detta “contro il patriarcato e contro il maschilismo” e indetta, dopo l’ennesimo caso di “femminicidio”) rappresenta l’ennesima espressione della confusione mentale che oggi pervade l’Occidente. In primis, ad essa, in cui le donne intendevano protestare per l’ennesima prova di essere considerate proprietà dell’uomo (fidanzato, marito, amante) e di essere trucidate se desiderose di ritornare libere, hanno partecipato, come il cavolo a merenda, anche filo-palestinesi e anti-israeliani che si proponevano un obiettivo di lotta ugualmente molto serio ma ben diverso. Perché mischiarsi in un unico corteo, danneggiando entrambe le cause? In secondo luogo, la manifestazione ha dimostrato, per gli interventi sui mass media di alcuni suoi più impegnati partecipanti, che sul tema del dominio patriarcale la gente si muove in un pressapochismo concettuale ed in un’ignoranza dei fatti veramente sconcertanti. Certamente il maschilismo che lo caratterizza è ritenuto, non a torto, alla base dei “femminicidi” (il cui numero aumenta esponenzialmente di giorno in giorno) ma gli interrogativi su un tema così complesso sono veramente tanti e sembra che nessuno se li sia posti. Innanzitutto, non sembra che la manifestazione indetta a Roma e in altre città italiane possa vedersi come una lotta possibile contro la “famiglia” sia pure nella sua essenza chiaramente e inequivocabilmente “patriarcale”.



Si è puntato il dito genericamente contro il “patriarcato” intendendo demonizzare l’evento puntuale della sua nascita: ma ad impossibilia nemo tenetur. Un tale impegno pugnace dovrebbe intendersi diretto ad annullare le condizioni di vita di tutti i secoli di preistoria e di storia da noi intuiti e conosciuti al fine di ritornare al matriarcato delle origini. Si tratterebbe di un progetto ambizioso (e di certo, non privo di coraggio) ma, certamente, di impossibile realizzazione. È da ritenere, d’altronde, che l’idea di un simile progetto non si sia neppure affacciata alla mente di uno solo dei manifestanti. 
Allora la domanda è: si può demonizzare il patriarcato continuando a santificare la famiglia che ne costituisce, da millenni, la struttura portante? Veramente le donne manifestanti ritenevano la “famiglia” il supporto del predominio maschile, il luogo della loro “detenzione” e privazione di libertà?
La risposta è agevole: certamente no! 



Perché? Perché tale ultima tesi, pur nella sua esattezza concettuale, contrasterebbe chiaramente con la visione tuttora dominante nel nostro Paese (e non solo in esso) che è quella profondamente “cattolica”. E chiamerebbe in causa, per metterla in discussione, la passione emotiva cosiddetta “materna” (vera o falsa che sia). Il cattolicesimo ha cambiato tutte le carte in tavola anche in materia di egemonia del pater familias: la famiglia patriarcale ha rappresentato un’involuzione (idest: un peggioramento) del dominio maschilista sulla donna, ma appare indistruttibile con manifestazioni di piazza; se, ovviamente, non muta, in misura consistente, la mentalità che l’ha creata. In più, la chiesa cattolica non solo ha attribuito natura divina alla procreazione (a interpretare le cosiddette “sacre” scritture, i neonati sarebbero veramente figli più che dell’inseminatore umano di un Super-padre che è Dio) ma ha anche imposta come funzionale, l’educazione da impartire in famiglia, alla inestinguibile (e definita”sacra”) lotta contro gli infedeli.
Domanda finale, “un po’ per celia e un po’ per non morir”: Non è contraddittorio per molti manifestanti lottare contro il patriarcato, escludendo dai propri strali il suo supporto (che oggi è la famiglia) quando nella compagine governativa voluta (?) dagli Italiani v’è addirittura un Ministro per la Famiglia?  

LA PAROLA DEI LETTORI
A proposito di patriarcato.


  

A proposito del patriarcato, un tratto culturale di cui molto si è parlato in questi ultimi giorni e dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. Esiste il patriarcato?
Nel caso esistesse chi lo veicolerebbe?
All’interno delle famiglie penso sia preponderante il ruolo educativo della madre!
Ma ci sono altre agenzie educative come la scuola. 
Ma come è la composizione del personale docente nei vari ordini di scuola (i dati sono di qualche anno fa):
- scuola dell’infanzia: praticamente il 100% è femminile;
- scuola primaria (elementare): il 96% è femminile;
- scuole medie: poco meno dell’80% è femminile;
- scuole superiori: il 65% è femminile;
- dirigenti scolastici (presidi): il 66% è femminile.
Negli ultimi 40 anni molte volte sono state donne a coprire la carica di Ministro della pubblica a istruzione.
Non so se esista o meno il patriarcato nella cultura italiana e occidentale ma se esistesse sarebbero le donne a veicolarlo.
Ma se così fosse si porrebbe un’altra domanda: perché?
Personalmente mi sono fatta una idea ma vorrei ulteriormente verificarla.

Armando Boccone

 

LA DERIVA INDUSTRIALE
di Franco Astengo



L’Italia cede i suoi gioielli industriali.
 
A distanza di pochi giorni l'inserto "Economia" del Corriere della Sera torna, ancora a firma di Ferruccio De Bortoli, sul deficit industriale dell'Italia portando in rilievo il caso "Magneti Marelli" precisando: "Magneti Marelli non è più italiana da quando FCA, non ancora Stellantis, la cedette sventuratamente (ma non per i propri azionisti) alla nipponica Calsonic Kansel Holding" (operazione nella quale non fu usata la golden power e che la FCA). Anche la multinazionale della componentistica dell'auto non è più giapponese da quando è controllata dal fondo americano KKR, lo stesso che avrà la maggioranza dellerete di telecomunicazioni una volta scissa da Tim". E si precisa: "La scelta miope di rinunciare alla difesa dei componenti: rimangono Brembo per i freni e Pirelli per le gomme".
Si è così rinunciato a costruire un grande gruppo della componentistica che avrebbe potuto intervenire su di una particolarità non irrilevante nel processo di transizione ecologica per non dipendere dal motore endotermico e porre settori industriali in grado di essere competitivi nella sfida dell'auto elettrica (che, ricorda ancora De Bortoli, "ha sempre bisogno di pneumatici e freni").
Analoghe situazioni di "estraniamento produttivo" si sono ormai registrate in altri settori strategici dalle telecomunicazioni alla siderurgia soltanto per fare alcuni esempi. Senza timore di annoiare e nella certezza di non essere fraintesi come sovranisti-nazionalisti torniamo allora su alcuni punti già toccati in passato: si è creata una situazione di evidente scalabilità e debolezza, a dimostrazione di una ormai storica incapacità di programmazione dell'intervento pubblico in economia e di assenza di politica industriale (che coinvolge anche l'Europa). L'opposizione e il sindacato non possono rimanere ingabbiati in questa dimensione strategicamente inesistente, tutta rivolta all’autoconservazione del politico, schiacciata dall’emergenza dell’immediato. Serve un colpo d’ala nella progettualità e nell’intervento del pubblico sui nodi strategici, serve affermare la forza del movimento dei lavoratori da proiettare in avanti, non basta evocare un indefinito “green” e un imperscrutabile “digitale” in un Paese al centro della contesa europea e che accusa da tempo limiti enormi dal punto di vista della politica industriale soprattutto sul delicatissimo terreno dell'innovazione nei settori strategici. Limiti del resto non affrontati neppure nella "possibile"(?) occasione fornita dal PNRR al riguardo della quale il discorso andrebbe affrontato in sede opportuna ma che non può essere sottovalutato o peggio dimenticato. PNRR il cui utilizzo appare ormai orientato in senso di raccolta di consenso elettorale in pieno appoggio al concetto di potere che alberga nell'attuale destra di governo. 

RIBELLARSI ALLA MILITARIZZAZIONE
Domenica 3 dicembre ore 14 in Piazza Duca d’Aosta a Milano.




CENTRO PIME
La pace necessaria.


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SPAZIO DEL SOLE E DELLA LUNA
La guerra a pezzi.




martedì 28 novembre 2023

I TEDESCHI E LA COLPA   
di Johann Lerchenwald


 
Johann Lerchenwald
 
Resta ancora da aggiungere qualcosa su questo tema? Non sono già stati illuminati a sufficienza tutti i retroscena economici, politici, storici? Non abbiamo appreso ormai nei minimi dettagli come poté accadere e non siamo forse a conoscenza di un buon numero di casi sfortunati, senza i quali gli avvenimenti avrebbero probabilmente preso un altro corso? Non hanno i testimoni oculari raccontato a sazietà della retorica ipnotica del Führer e del micidiale apparato di controllo della Gestapo? Eppure, leggendo nella terza pagina di un quotidiano tedesco che il bombardamento sistematico delle città è stato il prezzo della libertà, l’unico mezzo per far guarire da una grave malattia, lo straniero scuote la testa, prova pietà e anche una certa paura di fronte a questo popolo incomprensibile. Dopo la distruzione di una buona parte della storia materializzatasi in case e città (e naturalmente l’eliminazione dei più alti gerarchi nazisti e lo scioglimento della loro organizzazione) era il Tedesco quindi finalmente pronto per diventare un essere umano come tutti gli altri? Ci fosse stata soltanto la guerra, condotta grazie ad una tecnica moderna con ancor maggiore tenacia della precedente, causando decine di milioni di vittime, l’umiliante sconfitta avrebbe questa volta potuto trovare un contrappeso nella coscienza di chi questa guerra aveva indiscutibilmente scatenato. E forse sarebbe ancora stato possibile venire in chiaro con sé stessi e il mondo. Ma, sotto gli occhi di tutti, c’era lo sterminio di un popolo organizzato a tavolino e messo in atto da appartenenti alle SS con tipiche virtù tedesche (sterminio del quale la maggioranza non sapeva o non aveva voluto sapere nulla). Vennero alla luce fatti ai quali nessun essere umano provvisto d’anima è capace di credere. Non solo degli innumerevoli sistematicamente assassinati si era tenuta scrupolosa contabilità, ma anche della farina ossea ricavata dai crematori, destinata a tornare in patria come concime artificiale per i campi tedeschi…


 
Un popolo che si era fatto un nome per la sua cultura e aveva poi voluto ergersi a razza dominatrice, si vide all’improvviso confrontato – indipendentemente dall’agire e dal pensare del singolo durante l’epoca fatale – con un’accusa la cui mostruosità non lasciava scampo. Se non si voleva restare di sale, se si voleva in qualche modo andare avanti, si presentavano solo due vie: o negare una qualsiasi colpa e addossarla ad altri oppure riconoscersi completamente ed indifferenziatamente colpevoli. Una distaccata autocoscienza senza pressioni esterne non era evidentemente prevista dal piano divino. Diviso in due, il paese ebbe modo di sperimentare ambedue le vie.
Nella parte orientale tutta la responsabilità venne rovesciata sui nemici dichiarati del Comunismo. E, giacché gli operai, considerati comunisti per natura, costituivano la maggioranza della popolazione, si poté tranquillamente passare all’ordine del giorno. Alla parte occidentale toccò la sorte più dura. Una continua contrizione, finalizzata a tappare la bocca all’opinione pubblica mondiale e alla propria coscienza, doveva spianare il terreno all’edificazione di una società razionale e inattaccabile basata sul rendimento.


 
Il socialismo è venuto meno da sé. E, con la coscienza leggera e una buona porzione di umorismo, i compagni sono adesso alle prese con il difficile processo di adattamento alle giornaliere follie del Capitalismo.
Nell’ex Germania occidentale, che dà il tono, non è invece cambiato molto. Semmai si alzano qua e là voci che chiedono la prescrizione del crimine commesso. Dopo più di cinquant’anni si dovrebbe aver espiato abbastanza, sostengono. La terza generazione non avrebbe più nulla a che vedere con questa faccenda, per quanto atroce essa sia stata. Il complesso di colpa, coltivato dal ceto dirigente e dall’intellighenzia e trasmesso dai genitori ai figli, non si lascia però estirpare dall’oggi al domani. Esso ha impedito lo sviluppo di una vita spirituale, ha eretto barriere emozionali e intellettuali che non si possono abbattere semplicemente archiviando un passato relativamente recente.
‘Divieni quel che sei’, esortava un filosofo nel secolo scorso.
Ma in quanto Tedesco mi è forse permesso chiedermi chi sono?

 

 

IL TEATRO GEROLAMO RISPLENDE
di Angelo Gaccione



Da piccolo, erano gli anni Cinquanta, fui portato al teatro Gerolamo, che dall’Ottocento introduceva i bambini agli spettacoli collettivi, con bassi parapetti nelle logge di galleria affinché lo sguardo potesse abbracciare il palcoscenico e tutta la sala. Vi tornai solo nell’autunno del 2008 tra tutti gli altri che poi vi hanno lavorato, subentrando a chi ci aveva preceduto”.

Edoardo Guazzoni

A scrivere queste parole è l’architetto Edoardo Guazzoni, e deve essere stata una esperienza meravigliosa quella di tornarci da adulto e da professionista, per prendersene cura e riconsegnare alla sua città, nel suo ritrovato splendore, il magnifico gioiellino che è il Teatro Gerolamo. Il termine scrigno lo possiamo impiegare senza tema di essere smentiti, sebbene da fuori la casa milanese di Luigi Bolis in piazza Beccaria, non abbia nulla di appariscente. Una facciata sobria e un arco a tutto sesto contrassegnano il civico numero 8 di quella che sin dall’origine era stata una casa privata. Ma varcato il vetusto portone, e percorso il breve tratto di corridoio, un vero miracolo vi si para davanti agli occhi.

 
Il recupero e il restauro eseguiti sotto la direzione e la supervisione di Edoardo Guazzoni assieme a Chitose Asano e G. Ferrarese, coadiuvati da un nutrito gruppo di collaboratori formato da M. Frasson, A. Lauria, C. Lucca, M. Turati, M. Verzoletto, P. Ceresatto, C. Formenti, V. Turotti, hanno restituito alla galleria, al loggione, ai palchetti, alla scena, alla platea, un’atmosfera magica. È come essere avvolti in una conchiglia dal disegno vagamente ovoidale, circondati da tonalità calde e riposanti.
 

Ma diamo di nuovo la parola all’architetto Guazzoni: “Il restauro dei palchi, sobrio e insieme fastoso decoro della sala, scena “fissa” del teatro, va alla scoperta del gusto, dei colori e dei temi di un tempo, dove gli strumenti musicali si alternano alle fiabe e ai personaggi dello spettacolo. Stratigrafie puntuali hanno permesso il riconoscimento dell’aspetto iniziale soprattutto per quanto riguarda l’atrio ottagonale e i decori di sala, non dimenticando tuttavia le successive reiterate sovrapposizioni che le epoche successive hanno aggiunto. Pallide sfumature in chiaroscuro e sottili cornici d’oro appartengono ora al soffitto. Si tratta di un abito nuovo, confezionato tenendo conto di quelli sdruciti che non vanno dimenticati, che lascia inoltre intendere nuove possibili altre vestizioni che il Gerolamo, bontà sua, sarà in grado di concedere. Questa tensione si può riassumere nell’accostamento di pareti rosse a pareti verdi, di sedie rosse nei palchi a sedie verdi in platea. L’introduzione di una preziosa e raffinata tappezzeria di disegno neoclassico si accosta da vicino alle assi verniciate dei retropalchi, mantenendo viva la frequentazione di generazioni che ci hanno preceduto”.


 
Ma come c’era finito il Gerolamo all’interno di Palazzo Bolis e soprattutto quando? Una maschera e una data portano inciso: 1868, anno dello spettacolo di apertura col titolo: Gerolamo maestro di musica. A progettarlo era stato l’ingegnere Paolo Ambrosini Spinella, a provvedere alla sua realizzazione, invece, Leopoldo Rivolta. Il Gerolamo però aveva già una sua piccola storia prima di approdare al Palazzo Bolis; pare fosse attivo già dal 1806, più di un sessantennio prima, ed era animato dal marionettista Giuseppe Fiando originario del Piemonte che aveva reso celebre il personaggio della marionetta “Gerolamo” anche a Milano. Quando era stato demolito il caseggiato in cui si trovava la vecchia sede del Gerolamo, sempre a ridosso di piazza Beccaria, Fiando aveva dovuto necessariamente traslocare e il palazzo Bolis era quanto di meglio si potesse desiderare: nello stesso luogo e a due passi dal Duomo. Oggi le lettere L.B. - incise sulla sommità del palco d’onore - assegnano a Luigi Bolis il nome del palazzo; in verità lo aveva acquistato dal proprietario originario, Leopoldo Rivolta, nel 1879. Bolis ebbe il merito di ammodernare il teatro e di promuoverne le attività; cosa a lui congeniale essendo egli stesso melomane oltre che cantante d’opera.



I passaggi di mano non hanno tradito l’antica tradizione marionettistica del Gerolamo, e la nota Compagnia “Carlo Colla e Figli” ne celebrarono i fasti dal 1911 in avanti, facendo la gioia di bambini e famiglie intere fino al 1957. E non hanno tradito nemmeno la tradizione dialettale, poetica-canora, di prosa, cabarettistica e, a volte, anche di sperimentazione, quanti a vario titolo si sono succeduti alla sua direzione o vi hanno operato da protagonisti, nell’arco temporale delle sue alterne vicende fatte di chiusure e riaperture. I nomi di Paolo Grassi, Dossi, Fo, Fortini, Gadda, Marchi, Porta, Quasimodo, Santucci, Strehler, Tessa, Jannacci, Gaber, Filippo Crivelli, Paola Borboni, Umberto Simonetta e via elencando, danno un’idea della vitalità di questo particolare “contenitore”.


 
Otto anni è durato il restauro-recupero: dal 2008 al 2016; ma ben 33 anni il suo silenzio: da quando, nel febbraio del 1983 il Gerolamo dovette sospendere la sua attività a causa delle restrittive norme sulla sicurezza che si abbatterono come una mannaia su molti teatri italiani. La Società Sanitaria Ceschina, che possiede lo stabile dal lontano 1925, ha dato al Gerolamo nuova vita grazie ad una puntuale ed efficace ristrutturazione. Le foto di Herreman Bart ne documentano il fascino e l’armonia, ma dovete venirci fisicamente per coglierne i dettagli.


Piero Colaprico
 
Direttrice generale ne è l’architetto Chitose Asano, mentre la direzione artistica si avvale di un grande innamorato di Milano, il giornalista e scrittore Piero Colaprico. Ero molto giovane quando per la prima volta sono entrato come spettatore nella platea di questo teatro, chissà che non ci possa tornare come autore. Magari con la commedia comico-brillante Tradimenti introdotta proprio da uno dei più sensibili sostenitori del Gerolamo, il regista Filippo Crivelli, che di questa commedia ha apprezzato la raffinata eleganza e l’ironia, tanto da scriverne l’introduzione.
 

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